uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

lunedì 27 luglio 2015

Migrazioni, modernità e il Mediterraneo

di Iain Chambers, 2002


Continent, city, country, society:
the choice is never wide and never free.
And here, or there… No. Should we have stayed at home,
wherever that may be?
Elizabeth Bishop, Questions of Travel (1991) (1)






Il mondo contaminato

     In questi mesi, in questi anni, si è incominciato a parlare, spesso con toni sempre più allarmati, della questione dell’immigrazione “illegale”. L’arrivo dei clandestini è un fatto che viene spesso pubblicamente denunciato, mentre privatamente viene assorbito per incontrare le esigenze crescenti della forza lavoro. Sulla scia del cambiamento radicale della morfologia della cultura urbana nell’occidente, si incomincia anche a parlare, di solito in toni meno aspri, dello sviluppo di una società multietnica, delle culture ibride e delle realtà meticciate.


Il secondo fenomeno però, anche quando non viene visto attraverso gli occhi della xenofobia, è di solito trattato come fenomeno recente e, in ogni modo, di poco conto nella realtà storica e complessa della nazione. Si sa che, al contrario degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, l’Italia non ha partecipato direttamente al saccheggio del mondo, pur giustificando a suo tempo la schiavitù razzistica, il colonialismo rapace e l’autoritarismo imperiale. Questi spettri della storia, che ogni tanto ritornano a disturbare gli scenari urbani di Los Angeles, Londra o Parigi, non fanno parte della storia italiana.

     Ma siamo sicuri? L’Italia è anch’essa parte della modernità occidentale; il suo caffè, i suoi pomodori, come la ricchezza della sua architettura barocca, sono tra i frutti del suo inquadramento nel mondo coloniale. Ci sono stati inoltre degli eventi imperiali nell’Africa orientale, perseguiti sia dallo stato liberale sia dallo stato fascista. Le palme dell’Italia meridionale non sono “native”, simboleggiavano i percorsi d’oltremare, un sogno imperiale andato poi in frantumi. Notava Hannah Arendt che l’interno moderno e metropolitano è stato costituito dallo sfruttamento imperiale all’esterno (Arendt 1986). Ogni volta che si beve un caffè (o un tè) c’è l’affermazione, sebbene inconsapevole, dei processi di globalizzazione che sono in atto ormai da cinque secoli. L’emigrato di ieri, che partiva da Genova per approdare a Buenos Aires, e l’immigrato di oggi, che lascia Dacca per trovarsi abbandonato su una spiaggia pugliese, sono separati nel tempo ma unificati nella stessa storia.

     In tutto questo c’è stata una grande rimozione. Nell’immaginario collettivo sembra trattarsi di piccoli incidenti che non possono incidere sul senso profondo della cultura e dei costumi della vita nazionale. Si dimentica facilmente che la nostra luce elettrica, la nostra ricchezza, la nostra potenza sono anche il buio, la povertà e la debolezza di un altro. La modernità rivelata in una lingua, in una cultura ed in una letteratura, non può essere considerata autoctona, non può essere separata dall’ambiente mondiale in cui la modernità euroamericana ha acquistato le sue forme differenti. In questo senso, noi tutti, sia i cittadini del nord del mondo sia i cittadini del sud del mondo, viviamo in una condizione post-coloniale in cui anche una cultura ristretta ad un cerchio d’élite non può più pretendere di essere incontaminata dal mondo in cui si trova ad agire. Come ha notato Sandra Ponzanesi, questo ‘inconscio coloniale’ fornisce un elemento cruciale nella ri-memorazione e ri-narrazione delle storie che la cultura nazionale ha spesso rimosso (Ponzanesi 2001).

     Ma che senso ha portare questo argomento in vicinanza del discorso letterario-culturale italiano? Semplicemente quello di suggerire che una formazione letterario-culturale che ignora la complessità della modernità ha scelto un percorso destinato ad essere sempre più provinciale. Ovviamente ogni cultura nazionale cerca di imporre una visione omogenea del suo passato, e le sue istituzioni formative (la scuola, l’università, ma anche la stampa e la televisione) sono chiamate a ‘disciplinare’ la lingua e la letteratura nazionale per arrivare a questo risultato. In questa maniera si realizza solamente la riproduzione ufficiale del senso comune, uccidendo contemporanemente le possibilità critiche della stessa cultura e della sua letteratura. Qui sarebbe il caso di ricordare la frase tagliente di Walter Benjamin: “Non c’è mai documento di cultura che non sia, nello stesso tempo, documento di barbarie.” (Benjamin1955)






     Spesso si ha l’impressione che il pericolo di questo tipo di chiusura non sia nemmeno avvertito, e che anche se lo fosse lo si sosterrebbe in nome dell’autonomia della cultura. L’idea opposta, fortemente incoraggiata dalla letteratura stessa, che si può rivisitare il passato per rileggerlo, ma anche per ri-considerarlo e ri-configurarlo alla luce critica del presente è spesso considerata illegittima, dilettantesca, e soprattutto poco ‘scientifica’. Non si tratta di un revisionismo intento ad abbassare il livello critico, ma si tratta di ospitare la sfida che emerge da una complessità rimossa per proporre un senso polifonico delle culture e delle letterature che portano l’aggettivo di ‘italiano’. Forse è arrivato il momento di rendere la storia, la cultura e la letteratura nazionale un po’ meno narcisistiche, e di ripensare questa formazione, con i suoi canoni letterari ed estetici, nella costellazione mondiale della modernità.

     Si tratta di viaggiare nella lingua e di essere trasportati dalla stessa lingua altrove. Sarà la lingua stessa che si fa suolo. E allora, forse, lo studio della lingua e della letteratura italiana, come ha suggerito recentemente il poeta caraibico Derek Walcott, potrebbe aprirsi verso quella mondializzazione inaugurata nella poetica di Dante quando egli abbandonò il latino e la lingua del cielo per la lingua secolare della terra. Oggi, quasi otto secoli più tardi, si fa parte di un mondo in cui le divisioni disciplinari, le barriere linguistiche e nazionali vanno un po’ abbandonate, per lasciarsi interpellare dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti della modernità stessa. Ogni tradizione diventa il luogo di traduzione, ogni canone una ricca rovina esposta ai venti che arrivano dall’altrove. Forse in questa maniera si potrebbe incominciare a registrare un senso più ampio, più aperto e perciò più articolato della “narrazione” nazionale, permettendo il riconoscimento di quel transito storico che abita la lingua e la storia di ognuno di noi.


Un mare di storie

     Come andrebbe riconsiderata la storia del Mediterraneo alla luce di queste problematiche? E non stiamo parlando della mera aggiunta di un’unità nazionale all’altra, né di una teleologia semplicistica che comincia con la civiltà greca, egizia, fenicia… per poi riuscire a contenere più di tre millenni di differenza unificati da un mare comune. Come luogo specifico, il Mediterraneo evoca il continuo intrecciarsi di radici e rotte diverse; nella sua “lunga durata” (Braudel) si tratta di luoghi di sedimentazione ma anche di dispersione. Come si fa, allora, a navigare, storicamente e culturalmente, in questo spazio, armati ormai di un senso di modernità che si è maturato nelle condizioni contemporanee di ibridità interculturale, e forti di una crescente insistenza etica che passa radicalmente al vaglio le idee di “casa”, “ospitalità”, e “proprietà” della cultura, della storia e del linguaggio?

     Qui i contorni relativamente fissi del mare, della costa, delle pianure e delle catene montuose ospitano formazioni storiche spesso imprevedibili, e fenomeni culturali fortemente variabili. In questa unità instabile, magistralmente espressa nel 1949 da Fernand Braudel in La Méditerranée et le Monde Méditerranéen à l’époque de Phillipe II (Braudel 1966) esiste una precarietà destinata a disturbare il compromesso strumentale del pragmatismo politico, come pure la più sottile conclusione critica.






     Persino nelle generalizzazioni geo-storiche più approssimative, la registrazione dei confini del Mediterraneo espone immediatamente i criteri d’analisi, dal momento che i suoi confini si srotolano a nord verso il Baltico, a est verso il Levante e oltre, a ovest verso il mondo atlantico, e a sud, seppure su questo aspetto spesso si sorvoli, verso il Nord Africa e la parte sub-sahariana del continente. Questo significa automaticamente registrare le storie slave, tedesche, arabe e africane come parti anch’esse integranti del Mediterraneo, delle sue genti, delle sue storie e culture. C’è l’immagine scolastica del Mediterraneo come culla originaria della cultura europea: un poeta greco che pizzica la sua lira su una sponda del mare Egeo, accordando i primi versi dell’Iliade. Ma dietro questa bella immagine si cela una costellazione di storie sicuramente più confusa, ma anche più ricca, in cui elementi etnicamente ambigui e culturalmente complessi pulsano, incuranti della pulizia ideologica portata dalla moderna storiografia europea, dall’estetica, e dal sapere ellenico, e della loro condivisa fiducia nel destino apparentemente unico di un’Europa fondamentalmente omogenea.

     Nell’agora ateniese, grano e schiavi dalle colonie ai bordi del mondo nomade della regione del Mar Nero si mescolavano con l’Egitto urbano e con la Persia cosmopolita. Una breve occhiata alle pagine del romanzo di Amitav Ghosh Lo schiavo del manoscritto (Ghosh 1994) - basato su un’opera fondamentale, in cinque volumi, di Shlomo Dov Goitein: A Mediterranean Society (1967-88) - rivela un mondo di comunità ebree nell’universo arabo del dodicesimo secolo, che si estende verso l’esterno a partire dal Cairo, in direzione ovest fino allo Stretto di Gibilterra, e ad est fino all’India meridionale. Attraverso il commercio, i viaggi e le transazioni culturali, si fa strada un senso di appartenenza che nasce da una capillare gamma di legami commerciali, familiari, e culturali. Proprio da lì, per quei mari, e poi in seguito alla successiva trasmissione araba ad un mondo cristiano sospettoso, ritorna la figura cruciale della scienza moderna, della tecnologia e della comunicazione digitale: il significante del nulla: lo zero. (2) All’incirca nello stesso periodo, l’iniziale schiudersi dell’Est all’Europa medievale, che vide i mercanti italiani e i messi papali raggiungere la Cina, fu permesso dalla conquista e dal controllo dei Mongoli sulle steppe asiatiche. Storie, culture e genti provenivano dal Mediterraneo, ma vi provenivano spesso da molto lontano, cambiando per sempre la fisionomia culturale e gli orizzonti storici di quel mare.

     Naturalmente, rotte di commercio o di transito, e forme di identificazione pre-nazionale e perciò non regolarizzate, sono poi state riassorbite, se non sepolte nell’oblio, dalle rigide demarcazioni imposte dalla guerra, dai nazionalismi, e dall’imposizione di frontiere. Da un punto di vista storico, il Mediterraneo come regione non è mai stato unificato da quando è caduto l’Impero Romano; a conti fatti, è stato molto spesso in guerra con se stesso. Per via di tali divisioni, molti pezzi della sua storia sono andati perduti. C’è, per esempio, un mondo che è quasi del tutto assente dalla narrazione occidentale: quello del Mediterraneo musulmano, con il tragitto storico e culturale che l’Islam ha fornito dall’Atlantico all’Asia centrale, e poi, volgendosi a sud, verso l’Africa nera. Perfino negli ultimi tempi, gran parte dei Balcani si è data un gran da fare per scrollarsi di dosso il suo passato turco e musulmano.

     Il Mediterraneo, luogo di storie così intricate e indigeste, diviso tradizionalmente da differenze religiose, spesso infrequentabile fino al 1800 per via dei pirati, eppure anche unificato dalle rotte dei pellegrinaggi, è un qualcosa che continua a nascondersi nei recessi di un’eventuale comprensione storica. Eppure, nello stesso tempo, eccede le categorie che abbiamo appreso ad usare per individuare le sue caratteristiche. I sintomi di quest’altra storia, successivamente celati nell’uniformità del “classicismo” e del nazionalismo europeo, continuano a emergere, però, nella realtà incredibilmente composita della dieta mediterranea: le arance e i limoni introdotti dagli Arabi dall’Estremo Oriente, e così il riso; la melanzana dall’India; i fagioli, le patate e le pesche dalla Cina via la Persia, come i cipressi; e poi i pomodori, il peperoncino e i fichi d’India dalle Americhe (Lucien Febvre in Braudel 1985, p.8)




     Questi segni e sapori ci invitano a un ripensamento. L’immagine decisamente chiusa e definitiva del mondo mediterraneo si riapre dinanzi a una serie di interrogativi che si rifiutano di scomparire. Il confronto militare tra Spagna e Marocco nel luglio del 2002, per un isolotto disabitato nel Mediterraneo, ci riscopre inaspettatamente testimoni dell’insospettato potere della storia, poiché ci riporta a un Mediterraneo dominato dal potere marittimo islamico, con guarnigioni spagnole precariamente asserragliate sulla costa settentrionale dell’Africa, che osservano nervosamente il passaggio stagionale dei nomadi berberi, mentre cercano invano di contrastare la pirateria musulmana. Furono proprio questi stessi pirati che saccheggiarono Sorrento nel 1558, e che, quando le autorità spagnole di Napoli si rifiutarono di pagare il riscatto, vendettero allora le donne e i bambini come schiavi nei mercati di Tunisi e di Istanbul. Ma c’erano anche stati i mercati di schiavi nella Roma medievale, cristiana, come pure nel ducato bizantino di Napoli, che impiegava nel frattempo i mercenari arabi provenienti dalla Sicilia, per combattere contro la città di Benevento. La schiavitù mediterranea lungo i suoi perimetri meridionali e settentrionali è un capitolo di storia ancora da scrivere.

     E allora, mondi apparentemente così lontani tra loro rivelano una sconvolgente prossimità, sospesi a condividere delle realtà storiche, dinanzi a un orizzonte di mare in comune. Il Mediterraneo come mare di culture, di poteri e storie migranti continua ad essere proprio questo. Il suo aspetto fluido e “crespo” (Horden e Purcell, 2000) testimonia una formazione composita, sempre in via di farsi, mai completa, destinata a ulteriori configurazioni. Gli immigrati di oggi, per quanto così temuti, disprezzati e vittimizzati dal razzismo, sono il ricordo storico del fatto che il Mediterraneo, ritenuto l’origine dell’Europa e dell’“Occidente”, è sempre stato parte di un altrove; proprio come le sue storie, le sue culture e le sue genti (compresi 27 milioni di italiani) hanno incessantemente abbandonato i suoi lidi per altri luoghi. Se Ulisse è la mitica figura del viaggiatore e dello straniero con cui quella storia ha inizio, è ancora con la figura del viaggiatore e dello straniero che questa storia continuerà.


Una rimozione storica

     Il mondo, commenta Edward Said, è pieno di “gente senza documenti”, sia in senso burocratico che in senso storico. Si tratta, continua Said, della massa non-cosmopolita che esiste al di là dell’arte, della soggettività, e della rappresentanza politica e culturale (Said 1984). E’ il rovescio, il lato oscuro, della ben nota insistenza di Benedict Anderson sullo statuto anonimo della nazionalità (Anderson 1983). Queste persone sono “esiliate” in molti modi; non solo, com’è ovvio, per una dislocazione fisica e materiale, ma anche economicamente, politicamente e culturalmente, per l’esclusione dal programma che detta lo sviluppo e il “progresso” globale. Eppure, se il mondo dell’opulenza ha bisogno del resto del pianeta per le risorse economiche e materiali, per non parlare della presenza persistente di un’alterità abietta che crudelmente rispecchia e misura la sua identità privilegiata, d’altra parte esso, inconsapevolmente, produce anche un contro-spazio violento da cui tale identità viene rivalutata criticamente.
Ovviamente, nulla si ritrova o si vive in modo davvero solo bianco o nero. Le configurazioni e le locazioni che si ritrovano al mondo sono, tutto sommato, più complesse e ibride nella loro formazione e articolazione. Nessuno occupa semplicemente un’unica categoria, destinato ad attenersi ad essa per sempre. Però, certamente ci ritroviamo in un tempo, caratterizzato al tempo stesso dai processi di globalizzazione e da crisi, in cui si rende necessario ritornare alle strutture tenaci in cui avvengono i mutamenti politici e le trasformazioni culturali. E’ importante riconoscere, nelle condizioni sempre più creolizzate della vita metropolitana, non solo l’arricchimento del Primo Mondo ma anche le ormai richieste cariche di altri mondi; richieste cariche di giustizia sociale, economica e politica che continuano a esistere ben oltre la tenuta di superficie di una benefica addomesticazione.




     Possiamo approfondire questo argomento partendo da una sequenza del film di Werner Herzog, Cobra Verde (1988), basato su The Viceroy of Ouidah di Bruce Chatwin (Chatwin 1982). All’inzio del film, che si svolge alla metà dell’Ottocento, c’è una scena in cui vediamo degli schiavi neri che stanno tagliando e raccogliendo le canne da zucchero in una piantagione in Brasile. In primo piano vediamo il padrone biancos che spiega al protagonista e futuro mercante di schiavi, Dom Francisco Manoel Da Silva, interpretato da Klaus Kinski, l’economia della merce in zucchero dominata dal “dente dolce” della Gran Bretagna. La raccolta dello zucchero è per una Gran Bretagna che ha abolito la schiavitù, che sequestra le navi negriere in mare, e tuttavia continua a godere del beneficio domestico del lavoro degli schiavi. In questo paradosso crudele consiste “la storia amara dello zucchero” (Derek Walcott).

     Ovviamente, questa non è la storia che la modernità occidentale è abituata a raccontare a se stessa. La schiavitù, il razzismo e l’insistenza sulla purezza etnica sono considerati aberrazioni, incidenti storici; terribili e disgustosi, ma comunque fattori esterni che non scalfiscono il cuore della modernità e la realizzazione del progresso, della politica democratica e della cultura illuministica. Prestare attenzione a tali eventi, a tale storia mostruosa, invece, serve a rendere esplicito qualcosa che è stato centrale per la formazione della modernità occidentale dai suoi inizi cinque secoli fa. Esporre la repressione che abita il cuore di tenebra della modernità, significa toccare il rimosso che permette un’immagine coerente e omogenea da sostenere in pubblico e in privato. La modernità si è costruita su questa rimozione, sulla negazione dei corpi, delle storie e delle culture su cui l’economia politica dell’Atlantico, e con ciò dell’Europa moderna, si è fondata.

     Emigrare, immigrare, trovarsi in esilio e spaesati, non è una questione recente, poiché investe tutto l’arco della modernità, dal momento della scoperta del “Mondo Nuovo” all’arrivo dei motoscafi sulle coste nordiche del Mediterraneo di oggi. Reintrodurre questa storia nella configurazione del sapere e del potere della modernità significa suggerire che métissage, creolité, ibridità non sono discorsi dell’ultima istanza… essi sono disseminati nella storia moderna sin dall’inizio.


La mostruosità della ragione

     A questo punto ci si chiederà di chi è questo progresso, questa libertà e illuminismo, di chi è questa modernità. L’universalismo che parla in suo nome, mentre sorvola sulla mancanza di libertà e l’oblio degli altri, propone una prospettiva universale che resta vera solamente per alcuni, non per tutti. Come mai la maniera occidentale di concepire il mondo pretende di essere universale, mentre altre storie vengono messe al margine, rese subalterne, calpestate e spesso espulse dal racconto? L’orrore dell’altro, dell’alterità, scrupolosamente localizzato nelle presunte differenze razziali, non rappresenta solamente la paura di una minaccia esterna, ma anche la paura dinanzi alla potenziale trasgressione e distruzione di quell’ordine che, con i suoi saperi sociali, politici ed estetici, con i suoi poteri, pensa di riuscire a gestire e spiegare l’altro, e con ciò il resto del mondo.




     La passione per lo sradicamento dell’alterità dalla terra è anche volontà di rendere centrale la propria casa, il senso della dimora che autorizza tale desiderio e lo premia. Nel suo nazionalismo, localismo e razzismo, tale desiderio costituisce una nevrosi pubblica e privata. Fare a meno della concezione rigida del luogo e dell’appartenenza che sorregge la mia voce e garantisce il mio potere non significa solo fare un semplice trasloco per entrare nelle coordinate di un contesto ormai planetario. Tale spostamento mi servirebbe meramente come scusa per evitare qualsiasi responsabilità reale nel nome di un globalismo astratto e generico. La mia tradizione potrebbe continuare indisturbata in una nuova configurazione dai contorni non troppo netti. Invece, qui si tratta di qualcosa di molto più preciso e urgente. Nell’orrore dello spaesamento pulsa l'angoscia per la dispersione dell’uomo occidentale: la paura del razionalismo davanti a quello che eccede e sfugge al ragionamento che conferma la centralità del soggetto occidentale nella spiegazione del mondo.
In tutto questo consiste la sfida storica annunciata dalla violenza che nell’arco di cinque secoli ha stabilito la possibilità di articolare il nostro senso del mondo che orbita attorno alla centralità storica e epistemologica dell’Europa. Tale centralità si regge su un rapporto ineguale, ingiusto e raramente riconosciuto. La ragione che si vede specchiata in questa formazione dovrebbe sapere di essere inscritta in questa violenza; una violenza strutturalmente rimossa e addirittura negata per permettere alla ragione di funzionare indisturbata. Ma la mostruosità del ragionamento occidentale, segnata da pulizie etniche, ideologie razziste e genocidi, cioè da una violenza che spesso ha abbandonato le sponde della ragione, non è un incidente storico o una rara atrocità accaduta ai margini del mondo. Questa mostruosità, distillata nel desiderio di spiegare e gestire tutto, ritorna sempre, e si è rivelata centrale alla nostra modernità. Da questa prospettiva ben si comprende la riflessione di Walter Benjamin: i morti continuano a parlare. La nostra casa e i nostri linguaggi sono costruiti in loro presenza; e il senso che ognuno porta con sé si regge anche e soprattutto sulla violenza distillata nell’oblio di quest’altra storia.

Il senso del silenzio

     Questo ci introduce a qualcosa di più che una risistemazione sul terreno del pensiero. Nell’ascoltare il supplemento del silenzio – quello che una volta era considerato non-senso, inintellegibile e indecifrabile - posso iniziare a capire che il mio linguaggio, la mia identità, la mia storia, la mia voce, hanno sempre richiesto l’espulsione violenta nell’oblio di qualsiasi oggetto di disturbo. Ora, poiché non posso parlare per questo silenzio, per questo altro, posso però lasciare un posto per esso: come lo spazio tra il respiro delle mie parole: essenziale ma solitamente dimenticato. Qui il volto immediato dell’altro, reso attuale da un mondo che si restringe ogni giorno, interrompe l’anonimo, l’astratto. Come insegna Emmanuel Lévinas, è l’evasione del volto dell’altro che permette l’omicidio anonimo e il massacro astratto (Lévinas 1961). Il volto invita a una risposta che non può essere una risposta ipotetica, e ci spinge alla cura per qualcosa che si estende oltre il teorico: “Per questo c’è un abisso tra il ‘filosofare’ sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga” (Heidegger 1981).

     Quando il mio tempo è piegato dal tempo altrui e il mio pensiero è attraversato dalla presenza di un altro, entra in gioco una dinamica che non posso più possedere. Il varco verso l’alterità, verso quello che mi eccede, è un’ apertura in cui sono costretto a pensare oltre il mio senso di possedere una storia, una cultura e identità che rende tutto trasparente ai miei interessi. Mi trovo in un’apertura in cui la mia storia, il mio essere, sono resi vulnerabili, aperti alla sfida di essere resi altro a loro volta. La mia storia è interrotta, il suo possesso del mondo è sradicato; non più unica deve rispondere a un incontro che non può controllare, che non può più rappresentare né più escludere.




     Qui nella dinamica del linguaggio affiora l’inquietudine del silenzio da cui arrivano altre voci, altre storie, gli altri. Qui avviene il passaggio dall'accettazione liberale delle differenze, in cui la visione dominante non viene mai sfidata, all’interruzione radicale dell’alterità. Ritornare al linguaggio con questo supplemento, con questo modo per piegare il tempo, dà inizio alla cerimonia della memoria che semina nel linguaggio egemonico altri frutti, altre storie, altre verità da raccogliere.

     Quando il “mio”, il “nostro”, linguaggio - il linguaggio della modernità, dell’occidente con il suo “progresso” e la sua tecnica – è riformulato, ricostruito, in questa maniera, il linguaggio lascia posto all’inquietudine dell’inaspettato. Un mondo, una geografia tutta centrata su se stessa, incominciano ad andare alla deriva.


Le scorie della storia

     Pensiamo un attimo alla musica, sia come linguaggio sia come mezzo per sondare la modernità. L’opacità semantica dei suoni si estende al di là delle frontiere del quotidiano e delle istituzioni che cercano di regolare il senso delle nostre vite. Le sottoculture giovanili e le loro musiche sono state fra i segni più spettacolari dell’esplorazione di tali aperture negli ultimi cinquanta anni, ma il loro arresto entro i confini arbitrari dello stile (di solito fortemente maschile) significa che anch’esse sono destinate ad essere superate dal supplemento dei suoni che tendono a circolare nel mondo senza un indirizzo fisso.

     Nell’avvicinarsi all’essenza tecnica, estetica e culturale della musica odierna, un’idea chiave, come Walter Benjamin aveva suggerito negli appunti che costituiscono il volume Parigi. Capitale del XIX secolo (Benjamin 1982), sarebbe quella di prendere le scorie della città, i frammenti delle sue storie e dei suoi linguaggi, come materiale - i segni e suoni che si trovano quasi per strada - e, come un disc-jockey, mescolarle insieme per creare un ritmo, una cadenza, che ci porti verso un nuovo orizzonte di senso. Così, posso pensare alla maniera della musica “scratch” rubata dai DJ neri di New York dove suoni già incisi vengono suonati simultaneamente su un paio di piatti per arrivare ad un ritmo, ad un’immagine sonora, mai sentiti prima. Lo “scratch”, questa prassi di bricolage, potrebbe essere una metafora per la produzione culturale contemporanea che ci indica le vie in cui possiamo usare i linguaggi della città stessa per esplorare la città.

     Questo ci permette di prendere in considerazione l’idea dei linguaggi della città - la musica, ma anche il cinema, la tv e la moda - come forme del sapere contemporaneo. Si tratta di archivi elettronici e memorie audiovisive che disturbano, minacciano e mettono in questione le forme precedenti di autorità ed egemonia - sia intellettuali che politiche ed estetiche - e che permettono, nello spazio fra i frammenti, che altre voci, altri sensi, altri accenti, altri mondi, emergano e vengano ascoltati. E’ qui che si formula un nuovo senso estetico, dove i valori culturali non sono più visti come fatti eterni e metafisici, ma invece emergono, vivono e muoiono nel tempo, nel movimento perpetuo del mondo.






     Poiché, naturalmente, questi linguaggi non possiedono alcuna garanzia etica o estetica. Se ora esiste una grammatica costante messa a disposizione dalla tecnologia mobile del Walkman, dei computer portatili, delle carte di credito, dei lettori CD, dei telefoni cellulari, di Internet e file l’Mp3 (nell’opulento Primo Mondo, il che significa che gran parte della popolazione mondiale non ha mai usato un telefono), il modo in cui questa grammatica opera può variare in intenzioni e in effetti. Se il primo Walkman combinava musica e tecnologia in un’inquietante riconfigurazione dello spazio pubblico - un’individualità distinta che emerge dal ronzio degli auricolari e che porta all’interruzione di distinzioni precedenti tra la privacy interiore e la sfera pubblica esteriore - l’accesso, tutto sommato più ristretto, al telefono cellulare (un costoso oggetto che richiede una continua revisione economica) potrebbe semplicemente rivelarsi come banale estensione di un individualismo invadente, in cui la sfida a precedenti forme di linguaggio e di comunicazione viene completamente riassorbita dalla banalità del riprodurre pubblicamente il familiare. Qui la rischiosa ambiguità e la potenziale apertura dei linguaggi si riduce spesso alla “neutralità” trasparente dell’iper-informazione computerizzata, e al desiderio narcisistico di essere sempre “connessi” (a cosa, dove, come, perché?).

     A questo punto la metropoli si presenta come luogo aperto dell’identità sociale, della memoria culturale e delle possibilità storiche. Questo spazio è quello che oggi può essere invaso dai linguaggi che sotto l’impatto della globalizzazione dei rapporti culturali non sono proprietà di nessuno: il lessico della musica rock, la sintassi televisiva, l’ubiquità della lingua inglese. E’ qui che il pericolo e la chiusura dell’omogeneo, del sempre uguale, viene accompagnato dalla salvezza e dall’apertura delle differenze.

     In questa nuova configurazione, aperta alle storie, alle memorie, alle possibilità che arrivano dall’altrove e emergono fra di noi, l’identità non può essere vissuta come qualcosa di già dato e realizzato ma diventa invece un’apertura, un continua elaborazione, verso l’avvenire. Qui si disputa un senso della modernità che, come notava Nietzsche, raggiunge l’apice del nichilismo nel ridurre la molteplicità della vita alla singolarità di una metafisica universale rappresentata dalla presunta sovranità dell’identità individuale. Invece la razionalità produttiva della modernità è continuamente interrotta dai propri linguaggi che la portano altrove. In questa maniera lo stato, i linguaggi dominanti, e la logica del capitale, sono spesso bloccati e deviati quando identità contigue viaggiano altrove, per esempio passando lungo i fili telefonici e attraverso il modem, mentre l’ultimo miscuglio musicale di ‘ragga’ viene trasmesso dalla Giamaica a Londra, per poi continuare a New York per un’ulteriore elaborazione, prima di tornare a Kingston per arrivare sul dischetto e la pista da ballo nel giro di pochi giorni. Da DJ a DJ, tramite la tecnologia digitale, un linguaggio nero e metropolitano che porta il nome di “Giamaica” è trasmesso oltre le frontiere, rifiutando di fermarsi alle dogane culturali o di mantenersi entro i limiti di un senso locale mentre viaggia nello spazio ontologico del suono.

     Sono tali linguaggi che ci permettono di esserci, che permettono all’essere di esplorare le possibilità nuove. Questi linguaggi parlano, e parlano di un luogo culturale particolare dove il passato e la memoria, le iscrizioni e le prescrizioni, sono ri-scritte, ri-citate e ri-situate. Perché è lì che quelle che noi chiamiamo le nostre identità storiche, culturali e personali non vengono solo formate, ma addirittura ri-elaborate, per permetterci di entrare a far parte della prosa e della promessa del mondo.






     Questo scenario chiaramente ci propone una rilettura del concetto di autenticità, e il suo decentramento, e con ciò la crisi del presunto rapporto trasparente e pragmatico fra linguaggio e identità, e le prospettive politiche e culturali costruite su di esso. La proiezione romantica che vede nell’autentico una tradizione continua, una comunità stabile e un’identità fissa, è qui interrotta da un diverso senso di autenticità. Questo senso emerge dalle tracce di memorie, suoni e storie, cioè dai linguaggi che forniscono le costellazioni mobili di un’identità in grado di dialogare con la condizione vulnerabile del contemporaneo, per cercare lì la sua redenzione, la sua dimora.


Oltre il multiculturalismo

     In questa zona incerta, ambigua, aperta, la sfida a essere decentrato e ad affrontare i limiti del proprio mondo significa anche affrontare i limiti del multiculturalismo che questo mondo finora ha proposto. Di nuovo, non si tratta semplicemente di aggiustare il quadro politico, di allargare gli spazi della sfera pubblica, per ospitare altre culture ed altre storie. Si tratta, invece, di affrontare un compito molto più arduo in cui noi stessi diventiamo il quesito principale. Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo, invece, ora chiamati a pensarli come prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi. A questo punto, l'antropologia occidentale diventa l’antropologia dell’occidente, ovvero l’antropologia dell’occidentalizzazione del mondo. Un’antropologia ormai senza oggetti, composta solamente dai soggetti storici diversi.

     Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro, e lasciando queste altre culture in posizione di subalternità, così evitando qualsiasi interrogazione del proprio progetto politico, qui, invece, stiamo contemplando qualcosa che va oltre il multiculturalismo e la sua logica di “assimilazione” per affrontare la questione persistente di come vivere con, e nelle, differenze. Si tratta, come osserva il critico postcoloniale Homi Bhabha, di entrare in quel “terzo spazio” dove ogni cultura di “origine” viene interrogata e configurata secondo i processi di ibridizzazione (Bhabha 1993). Qui si apre un divario tra il tempo del governare e il tempo etico della politica, il divario tra la gestione istituzionale e le forme e le forze che lo precedono ed eccedono. Qui l’identità di ciascuno di noi diventa una rete di diversità, un’apertura di differenze etniche e linguistiche, di differenze storico-culturali, religiose e sessuali, che nessuna logica è in grado di racchiudere in sé. Se il concetto dell’altro, su cui il nostro senso di identità storica, culturale e individuale si regge, è andato in frantumi, anche noi siamo coinvolti in una dispersione che ci porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e identità nazionale, di località fissa. Non si tratta di evocare l’altro come minaccia o speranza, ma di interrogare noi stessi. Perché qui si profila la sfida a concepire il nostro essere senza la garanzia di essere radicati in sangue e suolo, senza l’idea che il “nostro” linguaggio, la “nostra” cultura, la “nostra” storia, appartengano solamente a noi.


Sporcare il pensiero

     A questo punto il rapporto tra noi e l’altro diventa molto meno chiaro. Sia lo spazio sia il tempo della modernità risultano più complessi, meno geometrici e lineari nelle loro articolazioni. In quest’ottica si tratta di recepire la possibilità che la modernità ed i suoi linguaggi di secolarizzazione non rappresentino un processo unilaterale. Sebbene il mondo sia stato investito dalla potenza economica, politica e culturale della modernità occidentale, non si arriva automaticamente all’appropriazione completa da parte dell’Occidente: l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’occidente sia diventato il mondo. Il nostro spazio, come la nostra storia e cultura, non è solamente nostro. Al contrario, ormai circolano e sopravvivono all’interno dei linguaggi dell’occidente anche altri modi di esserci nel mondo, suggerendo una serie di percorsi trasversali in cui l’arcaico e il moderno, il sacro e il secolare, coesistono e costituiscono nel loro insieme i linguaggi ambigui del presente. Qui i rapporti risultano molto meno incisivi per capire una modernità che spezza continuamente i tempi del promesso superamento o Aufhebung del progresso sottoscritto dal pensiero dialettico.




     In questa luce la modernità ci prospetta un paesaggio mondiale che precede ed eccede la nostra volontà. E anche se pensiamo di esserne gli autori, spesso ci ritroviamo assoggettati ai suoi linguaggi. Parlando come “moderni” del nostro rapporto con le culture altrui, spesso dimentichiamo che tali rapporti sono sedimentati nell’essere moderno da secoli. È stato infatti su tali rapporti che il concetto stesso della modernità si è elaborato, e con ciò l’alterità rimossa, soprattutto nell’epoca in cui il nostro mondo apparentamente diventa il mondo, si rivela parte integrante di noi stessi. Questa forse è la grande lezione di Pasolini, e questo è sicuramente il punto centrale della teoria postcoloniale. Trasportare i termini dell’argomento su questo terreno, sporcando il pensiero con l’insistenza terrestre della formazione ibrida ed incerta di una modernità diventata mondo, significa spezzare qualsiasi distinzione netta tra noi e gli altri, tra il Nord e il resto del mondo, il centro e la periferia.

     Lo spostamento dell’argomento in questa direzione ci aiuta anche a raccogliere l’azione apparentemente inconcepibile dell’11 settembre 2001. Non si tratta tanto di un evento piombatoci addosso, quanto di uno dei tanti punti di maturazione dei percorsi subalterni della modernità, che trova voce e, soprattutto, spazio mediatico, nell’amplificazione drammaticamente moderna del terrorismo. Non penso che l’appoggio popolare alla strategia vendicativa di un miliardario saudita provenga puramente dal serbatoio della religione; penso invece che sia il caso di dirigere la nostra attenzione verso quei frutti della modernità che Frantz Fanon chiamava i “dannati della terra”.

     A questo punto, però, non si tratta di evocare lo spettro di un Terzomondismo per contrastare il compiacimento del pensiero occidentale che rifiuta di pensare ai propri limiti. Al contrario, si tratta di riconoscere all’interno dei nostri discorsi l’interrogazione dell’altrove che ormai abita la casa del nostro linguaggio. Attraverso Hollywood e la società dello spettacolo abbiamo assistito molte volte a questi scenari, ma ora ecco il trauma, ecco il profondo senso di spaesamento, abbiamo sempre rifiutato di sentirli come il richiamo profondo della fragilità del nostro modo di inquadrare il mondo. Si trattava sempre di atti di esorcizzazione oppure di “incidenti” - genocidi, carestia, terrore politico - accaduti altrove: Ruanda, Guatemala, Angola, Cambogia, Eritrea, Timor Est, Palestina… Ma se il mondo ormai è il nostro, inquadrato dalla nostra modernità, forse questi eventi sono anche “nostri”. Attraverso la freddezza dello sguardo critico abbiamo cercato di mantenere la distanza, non permettendo all’oggetto di sfuggire alle nostre discipline (antropologiche, sociologiche, storiche, politiche…) per annunciarsi come soggetti storici che richiedano una risposta, e dunque il riconoscimento della nostra responsabilità nell’abrogazione della loro storia. Tale annullamento storico rappresenta una ferita perfino più grave dell’istituzione razzistica della schiavitù moderna. Forse è qui, quando la nostra modernità ritorna carica di altre storie, altre identità, altri desideri, che nasce una vera difficoltà. Se in qualche modo la modernità stessa è stata costruita sull’espulsione, sia fisica sia simbolica, dell’altro in nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica, allora la storia della modernità è anche la storia di questa rimozione, di questa negazione, di questa impostazione di ‘distanza’. Una distanza che ormai è impossibile mantenere.

     Di nuovo, aprirsi a questa prospettiva richiederebbe una disponibilità a riconsiderare la configurazione della modernità dai suoi inizi cinque secoli fa. Qui troveremmo che gli argomenti di Marx sulla tendenza del capitale a realizzarsi in un mercato mondiale, e l’insistenza di Heidegger sull’evento storico rappresentato dall’avvento del “mondo quadro” stabilito per la prima volta con la prospettiva umanistica, ci invitano a ripensare ai processi di “globalizzazione” secondo una temporalità diversa da quella indicata dal giornalismo istantaneo. Il ritorno della storia della modernità nella storia della prepotenza dell’egemonia occidentale su scala planetaria, registrata e rimossa nel pensiero da una “epistemologia violenta” (Gayatri Chakravorty Spivak), ci spinge a riconfigurare il senso stesso della modernità. Dopo lo Shoah sappiamo che la violenza incomprensibile è stata sempre realizzata e sarà sempre realizzabile; possiamo trovarci continuamente dinanzi agli eventi che non riusciamo a far entrare nella nostra capacità di ragionare. Ma la registrazione dei limiti dei nostri linguaggi, del nostro pensiero davanti all’incommensurabile, non significa che si dovrebbe passare dallo stato della ragione alle tenebre dell’irrazionalità. Arrivare ai propri confini potrebbe anche servire a consegnarci a dialoghi e prospettive basate non tanto sul potere prescrittivo delle nostre voci, quanto sull’apprendimento dell’ascolto, dove i nostri linguaggi ritornano parlando di altre storie, di possibilità finora impensabili; dunque di altre modernità.


L’inquietudine del mondo

     Elaborare un senso del luogo, di appartenenza, edificare e abitare lo spazio, quello del Mediterraneo o quello della città di Napoli, per esempio, implica registrare dei confini, dei limiti; come minimo tra un dentro e un fuori, tra lo spazio coltivato della scena domestica e la stranezza e l’inquietudine del mondo esterno. Naturalmente, dopo Freud, ma come Jean-François Lyotard ci ha ricordato, possiamo dire, sulla scia della tragedia greca, che questa casa è illusoria, che l’estraneo, il rimosso, l’inconscio, riescono sempre a infiltrarsi nello spazio domestico; la porta è porosa. Notava Georg Simmel che con la porta il confinato e lo sconfinato si toccano l’un l’altro, non nella forma geometrica e morta di una partizione di separazione, ma nel senso della possibilità di uno scambio continuo. Abitiamo nel perturbante, dove il rimosso completa l’architettura delle nostre storie, le nostre culture, le nostre identità.




     Tale concetto di “luogo” e di “casa” abitata dagli spettri della storia, mette in questione la storia, la cultura e l’identità, sia dell’altro sia del residente, e con ciò dei saperi che pensano di possedere la spiegazione di questi rapporti. I nostri saperi, le nostre narrazioni, noi stessi, siamo chiamati a rispondere ad una conoscenza dell’esserci nella modernità che va oltre i confini istituzionali e disciplinari che abbiamo imparato e propagato. Al posto della “scientificità” conclusiva di una disciplina, di un sapere, si installa un senso aperto ed interdisciplinare; dove il “senso” sta per indicare la direzione, la via, il dispiegamento di un percorso critico. Fuori casa, un po’ spaesato, ogni discorso e formazione storico-culturale viene inscritto in una cartografia sradicata per essere ri-letto, ri-visitato nel momento in cui viene interpellato dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti della modernità stessa. A questo punto ci troviamo in un percorso che si apre su una geopolitica e una “globalizzazione” diverse, con la prospettiva di riscrivere il senso stesso del luogo, dell’identità, e delle modernità, che ci portano altrove. Questo sarebbe lo sradicamento radicale della modernità che altri, meno fortunati di noi, hanno già conosciuto. Forse, come ha suggerito Adorno, tocca ora a noi imparare a stare a casa senza sentirsi a casa, per recepire ciò che esiste oltre i nostri confini, i nostri concetti; quei concetti che, in fin dei conti, cercano sempre la consolazione di addomesticare il mondo per il nostro beneficio. In questo luogo, sospesa negli interstizi del divenire, ogni identità si trasforma da punto di arrivo in punto di partenza, lungo il percorso mondo dove ormai tutti cercano “casa”.


Napoli, luglio 2002




1) Continente, città, paese, società/la scelta non è mai ampia e mai libera./E qui, o lì… No./Saremmo dovute restare a casa, /ovunque essa possa essere?
2) Inventato in realtà qualche migliaio di anni prima dai Sumeri e portato sulle rive del Gange da Alessandro, fu però il matematico indiano Mahavira a intuire l’intera portata della cifra. Poi, attraverso i mercanti e i matematici arabi lo zero rientrò in Europa occidentale.


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