uno dei due è l'altro

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martedì 9 febbraio 2016

Philip K. Dick: psichedelici orizzonti, perversi accoppiamenti e nuove alterità


di Linda De Feo
Belphégor



"L'acciaio e la plastica fusero insieme, scomparvero in una nuvola di fumo. Attraverso lo squarcio, il corpo si inarcò, partì in una traiettoria verso l'alto. Dopo un attimo fendeva il cielo, diretto verso la Luna. [...] Il corpo era un razzo in miniatura, capace di volare nello spazio come un'astronave. E [...] non aveva bisogno d'aria. Perciò poteva compiere viaggi interplanetari" (Il disco di fiamma, pp. 136-137).


"Ecco cos'è successo alle cose uscite dall'umida terra, dal lurido fango e dalla polvere. A tutte le cose viventi, grandi e piccine. Hanno fatto la loro comparsa, divincolandosi a fatica da quell'umidità appiccicosa. E poi, dopo qualche tempo, sono morte" ( frammenti dal romanzo mainstream "Gather Yourself Together", in Mutazioni, p. 35).
***





Risonanze percettive

Philip Kindred Dick è probabilmente il primo autore a sondare l'abisso simulativo, a smarrirsi consapevolmente nelle realtà dedaliche di vettori spazio-temporali proliferati all'infinito, preconizzando le radicali mutazioni socio-antropologiche prodotte dall'universo elettronico e biotecnologico nei meccanismi percettivi, nelle modalità espressive 
e nelle strategie comunicative. 

L'opera dickiana affronta temi che spaziano dalla compenetrazione di fisica quantistica e metafisica all'orizzonte della realtà virtuale, con le sue implicazioni diffuse all'intero sistema sociale, fotografando una svolta epocale che conduce a una ridefinizione dell'individuo e a una riformulazione della sua identità. Appare legittimo considerare Dick, a pieno titolo, uno degli autori di culto del dopoguerra americano, poiché la sua parabola creativa, partendo dai canoni di una science fiction ortodossa, si proietta su un orizzonte speculativo che solleva molteplici questioni di natura filosofica. Oggetto di una delle più notevoli e clamorose rivalutazioni critiche, pur rubricabile nell'ambito della produzione fantascientifica, l'ibrida opera dickiana appare nel contempo immersa nel clima della controcultura
degli anni Sessanta, ispirata ai miti 
della cosiddetta generazione lisergica.

Nell'iperrealismo narrativo di Dick la descrizione di un'artificialità in grado di potenziare le capacità naturali viaggia dalle ipertrofiche suggestioni, derivate dall'uso degli allucinogeni, attraverso le fantasmagoriche immagini riproducenti l'iperspazio del pianeta mediale. Dick dedica parte della sua opera alla raffigurazione intrecciata dell'orizzonte lisergico con l'universo tecnologico, degli effetti sortiti dall'assunzione di stupefacenti con le trasformazioni subite da corpi sempre più inquietantemente dotati di protesi elettroniche e corredati di innesti hardware.

Un Oscuro Scrutare, "forse il più grande romanzo in assoluto scritto sulla droga e contro la droga" (Di Costanzo 1992), conclude il ciclo creativo dickiano segnato dall'analisi dell'esperienza psichedelica, affrontata in opere come Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Illusione di potere o Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Il romanzo generazionale del 1977, a cui Dick attribuisce esplicitamente valore testamentale, interpreta il disagio, le aspirazioni, le disillusioni della beat generation, che sfida lo squallido conformismo, la ritualità quotidiana, iterata all'infinito, metafora del nonsenso della vita, del non-senso della morte, sfondando le barriere percettive, risvegliando il rimosso, tentando di riconsegnare al soggetto il proprio destino, intervenendo sul corpo, scalfendolo, per riconfermarne 
la proprietà individuale.

Nell'impossibilità di accedere all'intelligenza complessiva della vita, i beatniks decidono di fissarne la durata, di irrobustirne il tessuto esperenziale, di stabilirne i limiti, di esaltarne le passioni, di soffocarne i ritmi, controllando le scansioni del ciclo biologico, velocizzandone le sequenze. Il bisogno di approdare alla purezza di un sentire naturale, affrancato dalla soffocante stratificazione culturale, lo smuovere le profondità organiche dell'esistenza, il protendersi verso la materialità delle radici corporee, la ricerca di potenti suggestioni, forme di protesta contro il sistema normativo e le convenzioni sociali, si traducono, però, in una vana lotta contro gli accaniti imperativi del capitalismo feroce, che, in maniera paradossale, finirà per essere abbondantemente alimentato dai consumatori di LSD, impotenti contestatori, vittime elettive che, per combattere il naturale estinguersi della vita, celebrano estenuanti rituali di morte, schegge impazzite che gelosamente coltivano sinistre pulsioni, sfigurati personaggi che incarnano 
la brutalità del rassicurante quotidiano.






Nella Los Angeles del 1994 di Un Oscuro Scrutare, immaginata come prodotto avariato degli anni Settanta, l'azzurro fiore della Sostanza M, Substance Death, droga che invade il mercato, disseminando degenerazione, è coltivato dalla stessa comunità di recupero Nuovo Sentiero, New Path. Robert Arctor, protagonista del romanzo, agente in incognito della Narcotici, infiltrato tra i tossici per scoprire chi monopolizza il traffico illegale di questa sostanza misteriosa, dall'origine e dalla composizione ignota, giungerà alla verità, mai finale, ma sempre superabile, mai ultima, ma sempre penultima per Dick, una volta che, trasformatosi da poliziotto in drogato, diventando quello che finge di essere, imboccherà il corridoio cieco della dipendenza. La confusione degli schieramenti, automatico precipitato del liberismo selvaggio e della concorrenza sfrenata, sfuma le identità, interscambiandole, rendendole inconsistenti, transitorie, fluttuanti, contaminate, ibride, penosamente e impietosamente votate, nella smania investigativa dei personaggi, degenerata in delirio persecutorio, alla logica del profitto, e richiamate allegoricamente dalla geniale invenzione fantascientifica del romanzo, utilizzata in modo "antifantascientifico", l'abito crittante, lo scramble suit. Connessa a un computer miniaturizzato, la cui memoria contiene parecchie migliaia di caratteristiche fisiche, la tuta disindividuante, attraverso un'inesauribile successione di disorientanti ed effimere metamorfosi, impedisce l'identificazione degli agenti in incognito, simboleggiando splendidamente anche un'altra forma di ibridismo, il connubio tra illuminazione psichedelica e invasione mediale, celebratosi su carne innocente e perversa, carne che invece rivendica freneticamente la propria individualità, e ricerca spasmodicamente un tempo incontaminato e vergini spazialità, chimere agognate attraverso il divertimento, che è modo del divergere, del deviare, condizione altra di esistenza, virtualità di traduzione dell'esperienza da una forma in un'altra.





 I corpi dei beatniks, nati immersi nella cultura televisiva, invasi da droghe e pervasi di impulsi elettrici, sono destinati a trasformarsi molecolarmente, a tramutare i propri confini, a intaccare volontariamente la propria integrità, ma anche a vederne violata l'essenza naturale in rutilanti prefigurazioni di uno sviluppo sempre più vertiginoso. È attraverso il potenziamento della risonanza percettiva, raggiunta grazie all'uso di sostanze allucinogene, che la beat generation tenta inutilmente di schivare pericolosi processi di omologazione, indotti da sollecitazioni standardizzate, preconfezionate dai regimi dominanti, e cerca vanamente di sconfiggere la violenza che i media elettrici finiranno per infliggere ai loro utenti, programmandone i pensieri, stimolandone le fantasie, accendendone i desideri, catturandone la fisicità nella rete di estensioni dei loro sistemi nervosi (McLuhan, p. 91), nella trama di elementi inorganici non sempre integrabili con il substrato organico, che imprigiona una coscienza spesso destinata alla scissione, e un'identità che, per quanto espansa, appare comunque contraffatta.

Le sensazioni prodotte dalle sostanze psicotrope o dagli stimoli tecnologici introducono in mondi altri, attraversati da inesplorati sentieri percettivi, calpestati da corpi dalla sensibilità potenziata o dalle forme riplasmate, che, però, nell'esasperato anelito di sconfinata libertà e illimitata sperimentazione, si convertono in ricettacoli passivi di segnali, sovrapponendo sostanze chimiche al
naturale metabolismo cerebrale, o ibridando macchina e organismo. Come molti scritti di Dick inquietantemente illustrano, questi corpi, simili a reflex machine, a macchine dotate di riflessi, utilizzano forme di difesa omologate, compiono azioni pedisseque, interagendo automaticamente con un habitat che ha progressivamente assimilato organico e inorganico, compenetrato umano e inumano, confuso natura e artificio.




Nel cruciale 1968, anno di pubblicazione di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, libro in cui "è pienamente attivo tutto il potenziale dickiano" (Di Costanzo 1994), si giunge a celebrare quest'amalgama in un ibrido amplesso che si immagina impetuoso ("Noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali"; Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, p. 219) e si riconosce mostruoso ("Ricordati, però: non ci pensare su, fallo e basta. Non ti fermare a filosofeggiare, perché dal punto di vista filosofico è un macello: per tutti e due"; ivi, p. 216). Un cacciatore di androidi, Rick Deckard, che ha il compito di eliminare le creature artificiali destinate alle colonie spaziali, infiltratesi illegalmente sulla Terra, e un seducente esemplare di unità Nexus-6, Rachael, sofisticatissimo prodotto dei laboratori Rosen, un essere umano, dunque, e la sua ricreazione, fornita da una grande industria, congiunti in un aberrante intreccio di programmazione e mistero, ragione e istinto, desiderio e paura, trasporto e crudeltà, sesso e sofferenza, eros e tanatos. Si realizza un connubio di vita e divertimento, carne e conoscenza, scienza e ignoranza, intelligenza e stupidità: "Lo sai quanto vive in media un robot umanoide come me? Io sono in vita da due anni. Quanto pensi che mi rimanga? [...] È un problema che non sono mai riusciti a risolvere. Voglio dire, il ricambio delle cellule. Un ricambio perpetuo, o almeno semiperpetuo" (ivi, p. 220).

Un incontro diverso, perverso si consuma in un incoerente abbraccio di realtà ontologicamente difformi, in un innaturale incastro, sciolto da ogni vincolo procreativo: " -Gli androidi non possono avere figli- disse infine. -Ci perdiamo qualche cosa?- Lui finì di spogliarla, mettendo a nudo i suoi lombi pallidi e freddi. [...] -Che si sente ad avere un figlio? Anzi che si sente ad essere nati? Noi non nasciamo mica; non cresciamo; invece di morire di malattia o di vecchiaia, ci consumiamo come formiche. Sempre le formiche: ecco cosa siamo. Cioè, non te. Voglio dire, io: macchine chitinose dotate di riflessi, che non sono veramente vive-. Girò la testa da un lato e gridò: -Io non sono viva!-" (ivi, p. 216). In questo straziante urlo risuona lo smarrimento dell'androide incapace di affrancarsi dalla sua programmazione, ma anche il disorientamento dell'uomo con cui si accoppia, un carnefice che, nel ribaltamento di ruoli così tipicamente dickiano, appare comunque vittima della sua umana inconsapevolezza, della sua umana finitezza, succube di un sistema, di uno scialbo, ordinario, livido quotidiano che spegne le passioni, stempera i sentimenti, annacqua le vocazioni, dissangua la vita nell'attesa della morte, ingrigendo i personaggi, sospingendoli verso l'alienazione, la reificazione, rendendoli simili ad automi, a prodotti di serie, stimolati a formulare risposte in base ad uno specifico programma, condannati da un'antica maledizione a violare la propria identità, ad offrire ognuno il proprio ricco tributo di cose sbagliate (ivi, p. 201).





È lo stesso smarrimento dei cervelli spappolati, gli slushed brains di Un Oscuro Scrutare, che tentano di ridefinire i contorni di una nuova esistenza, nell'intento di riaffidare ad essa un senso, infrangendone i confini, per impossessarsi della propria fine. Destinati a scomparire tutti, uno dopo l'altro, ad esaurirsi, proprio come gli androidi, i tossici vanno incontro ad un tempo programmato, ne custodiscono il termine, instillandosi la morte, pervicacemente, dose su dose: "Una terribile Nemesi per tutti coloro che hanno continuato a giocare [divertendosi]. Io stesso non sono un personaggio di questo romanzo [annuncia solennemente Dick]: io sono il romanzo. Tuttavia così appariva la nostra nazione in quel periodo. [...] È stata [...] la decisione sbagliata di un intero decennio, gli anni Sessanta, sia dentro sia fuori dal sistema. E la natura ci è rovinata addosso"
 (Nota dell'autore in Un Oscuro Scrutare, p. 332).

Dal mitico miraggio di un'illimitata potenza o di una possibile infinitezza umana le illusioni regalate da utopie perdenti, non trasformate in proiezioni organizzative, e le precognizioni di un immaginario profetico, strutturato attorno all'invasivo accoppiamento uomo-tecnologia, approdano ai terrificanti incubi di disfacimento, affioranti in tutte le opere di Dick, e alle premonizioni di una perversa morfogenesi che nega la storia. In Ma gli androidi sognano pecore elettriche? una guerra mondiale ha desertificato la Terra, ammantandola di kipple, uno spesso strato di fanghiglia formato da polvere radioattiva, frammenti di rifiuti e detriti, minacciosamente dilagante, che deturpa il volto di un pianeta degradato, "immerso nella gelida notte dell'inquinamento" (Di Costanzo 1991), abitato da poche specie di animali non ancora estinte e da uomini che rischiano di trasformarsi, per effetto delle radiazioni, in esseri "speciali", minorati psichici, Kipple viventi, residui di individui, devastati da un processo incontrovertibilmente in atto. Corpi che potremmo definire kipplizzati calcano anche lo squallido scenario di Un Oscuro Scrutare, avanzi di carne intaccata in cui albergano le menti ottenebrate di misere creature alle prese con le proprie meschinità coatte, con pratiche umilianti, con
mortificazioni senza riscatto, condotte dalla droga alle frontiere della follia, accompagnate dal delirio paranoide al progressivo assorbimento nella vita fantastica, all'isolamento tipico del comportamento autistico, carattere fondamentale della costituzione schizoide, costrette all'appiattimento idiosincratico sul proprio mondo interiore, all'indebolimento emotivo, e predestinate, proprio come gli androidi, a non poter più concepire alcuna gioia o alcun dolore in comunione con i propri simili. 




In L'androide e l'umano, profonda incursione non narrativa nel campo dell'etica sociale (Sutin, p. 205), Dick racconta di aver udito un folle esprimersi così: "Ricevo segnali dagli altri. Ma non riesco a produrne di miei, finché non mi ricarico. Con un'iniezione" (L'androide e l'umano, in Mutazioni, p. 241). Il pensiero privo di pathos, che associa tossici, schizoidi e androidi, attraversa minacciosamente le pagine dickiane: "Ti amo [...]. Se entrassi in una stanza e trovassi un divano rivestito con la tua pelle, registrerei un punteggio altissimo al test Voigt-Kampff" (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, p. 217) comunica l'androide Rachael al suo amante umano, riferendosi a un test utilizzato per rivelare la presenza delle creature artificiali, esaminarne la personalità, analizzarne i meccanismi verbali, misurarne l'insensibilità nei confronti del "vero" significato delle parole, che le reflex machine definiscono solo formalmente, esclusivamente sotto il profilo intellettuale (ivi, p. 213), proprio come accade agli schizofrenici, anch'essi in grado di approdare unicamente a processi di comprensione astratta, traducibile in un'atomistica riduzione a una serie di costituenti inadatti
 a strutturare un'emozione.

La "coscienza riflessiva" (Carrére, p. 138) accomuna creature condannate irrimediabilmente a una vita che non prevede redenzione, a un drammatico scacco finale. Lo spettrale profilarsi dell'invincibile tomb world, che cova la forza ultima, frantumando lo spazio e spezzando il tempo, conduce alla deriva entropica verso cui declinano inesorabilmente le teorie degli avveniristici paramondi e dei futuribili multiversi con l'armamentario di tutte
 le loro possibilità.







Bizzarrie interpretative

Gli ibridi dickiani che conciliano (?) autosviluppo e progettazione esterna, sperimentazione e profitto, ricerca e commercio, salvezza e dannazione sembrano predelineare nitidamente un'ipercontemporaneità sempre più proteiforme, presagita lucidamente da Dick, le cui intuizioni fantascientifiche, fantapolitiche e fantastoriche illuminano il futuro nelle sue pieghe più insondabili. Avventuriamoci pure, dunque, nei meandri di qualche eccentricità ermeneutica o bizzarria interpretativa, divertiamoci, articolando la lettura delle opere di Dick in modo da promuovere, attraverso osservazioni, spunti, riferimenti, magari discutibili o azzardati, la continua rigenerazione di testi che, trovando puntualmente conferma nella storia e nelle sue soluzioni, sembrano creati apposta per autoriprodursi.

I tentativi di evasione dalla nostra gabbia corporea e di sottrazione dai ritmi evolutivi prestabiliti, così drammaticamente e potentemente raccontati da Dick, accompagnano il percorso di contraffazione attraversato da creature che popolano il nostro mondo, nuove alterità, perturbanti e irriconoscibili, indefinite e indefinibili, che sembrano oltrepassare l'avvenire prima ancora che si attualizzi, collocate in un flusso temporale ritoccato, in un continuum biologico sospeso, non più disteso sulle sue volute, non più adagiato sulla naturale sequenza passato-presente-futuro. È, ad esempio, il destino mutato di una cavia transgenica, l'OncoTopo, una delle numerose icone del dolore che infestano l'immaginario contemporaneo.

 Modello di ricerca transpecifico, sito per il trapianto di un gene tumorale umano, che produce cancro al seno, primo animale brevettato al mondo (1), il suo ciclo vitale è modulato dalle istituzioni normative che regolano il mercato mondiale. Ridefinito come invenzione dallo status di brevetto, merce circolante nei circuiti di scambio del capitale transnazionale, scheggia di potere innervata nella carne, coagulo di scienza, denaro e natura, l'animale da laboratorio biotecnico e biomedico è una creatura che potremmo definire dickianamente semiviva, appartenente al regno dei morti viventi (Haraway, p. 119), è una metafora della nostra mortalità e una promessa di vita, di più vita. Trapiantando nel ratto progettato l'oncogene, controllandone il comportamento, procurandogli la malattia, promettendogli la morte, se ne tradisce la biochimica spontanea, se ne devia la destinazione spazio-temporale, se ne contamina l'originalità, se ne condiziona il telos, se ne adultera l'identità.




 I bisogni impiantati, la proficua agonia, 
i palpitanti squittii del topo umano esprimono una
sofferenza reale di un corpo reale, di una vittima sacrificale che ha introiettato la tecnica, ne ha investito i progressi, ne ha patito gli sviluppi, ne ha pagato i fallimenti, in una crudele forma di esistenza altra, che giustifica l'efferatezza e sublima il sadismo. Si inocula la morte negli esseri viventi per ricercare più vita, e si simula la vita nella realtà inanimata, per esperire la caritas: è l'esistenza di un altro animale, questa volta virtuale, tuttavia in grado di incidere sulla realtà come un elemento sensibile, manifestando un dolore finto, ma terribilmente convincente, a creare paradossalmente un microcosmo di straordinaria,
per quanto effimera, pietas.

 Inventato in un paese densamente popolato come il Giappone, dove sembra non esserci più spazio per gli animali veri, e dove pare che, proprio come nella San Francisco povera di stelle di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, lo smog stia per coprire il firmamento, il Tamagochi richiama abbastanza l'idea della fauna elettrica che, forse, non popolerà mai i sogni degli androidi, per non affiorare nei pensieri di noi abitanti di un mondo sconvolgentemente sempre più dickiano.

Il trepidante accorrere ai richiami della bestiolina elettronica, capace di suscitare accorata partecipazione, sembra in qualche modo voler contrastare il senso di crescente inadeguatezza del nostro linguaggio, che, nella ricerca di una sintesi estrema, assorbe l'influsso delle nuove tecnologie, subisce un processo di corrosione, di sfarinamento, di disgregazione in kipple, si avvicina sempre più alle scheletriche e scarnificate forme di espressione linguistica degli androidi, abbandona lo spessore sensoriale della vita, si sradica dalla materialità del corpo, confermando la previsione di Dick che, precognito un naufragio entropico nell'oceano comunicativo, affida ai manufatti umani, il compito di trattenere senso, di conservare significati, di trasmettere messaggi, di comunicare emozioni.

Nonostante l'ineluttabile futuro di inutilità, di kipplizzazione, caratterizzi anche il mondo inanimato, è l'interazione, per quanto illusoria, per quanto fantasmatica, che consente alle cose di acquisire un'anima, che agita la vita negli oggetti inerti, è la tecnica antropomorfizzata che forse esprime un bisogno di compassione, che ricerca una più intensa reciprocità di prospettive tra il soggetto e un ambiente sempre più automatizzati. Si preconizza un dissolvimento della valenza simbolica nelle possibilità dialogiche e un inaridimento della carica empatica nel sentire dell'uomo: nei robot, partoriti dalla fervida immaginazione dickiana, muniti di lenti-scanner ad ampio spettro e di motori, alimentati da batterie ad elio, magari capaci di sanguinare, se feriti, come cuori umani, sempre più affiora, misteriosamente strisciante, l'empatia, miseramente prosciugata negli uomini, preservata, forse, soltanto nei corpi deevoluti di quei soggetti definiti "speciali", regrediti biologicamente,
destinati a uscire dalla storia.

Può accadere che nel programma degli androidi più sofisticati sia inserita una memoria fittizia, che attribuisca loro l'illusione di essere degli umani, rendendoli inconsapevoli della loro essenza artificiale. La sconvolgente disperazione dell'androide che improvvisamente si scopre tale è una delle reazioni più impressionantemente umane messe in scena da Dick, difficilmente riconoscibile come modalità di un programma, come risposta prevista a particolari stimoli verbali, derivata dall'attivazione di un determinato numero di bit. Se è vero che le entità naturali appaiono caratterizzate da una sempre più profonda acquisizione di schemi e modalità di comportamento meccanico, è anche vero che un corpo, abitato da un programma di intelligenza artificiale, e interagente con il mondo, non può non avere profonde influenze sulla propria fondamentale elettronicità. "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi" confida tragicamente, in punto di morte, Roy Batty, replicante di Blade Runner, diretto da Ridley Scott, trasposizione filmica di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, ma anche di un intero ventaglio di tematiche dischiuso nell'opera dickiana. "Questa entità artificiale che è diventata sempre più umana mostra una capacità di meravigliarsi forse più che umana, di fronte agli spettacoli che lo scontro tra natura e tecnologia mette in scena" (Fattori 2001, p. 135), di fronte alla lacerante contraddizione tra una scienza proiettata verso un luminoso progresso e un uomo alla deriva nell'imperscrutabile universo.



Le trasformazioni della società, che si evolve grazie anche alla tecnica, richiedendo nuovi e continui progressi scientifici, ci inducono a ritenere le mutazioni antropologiche come il prodotto di un andamento ciclico promosso dal vissuto quotidiano, dai bisogni espressi in un determinato contesto spazio-temporale. L'assimilazione di uomo e macchina genera un'espansione del corpo attraverso nuovi canali di scambio con il mondo esterno, diventato un'estensione della coscienza umana, proprio come accadeva, attraverso il processo di antropomorfizzazione della natura, nelle culture primitive (de Kerckhove, p. 59), e nella reciprocità di prospettive tra l'individuo e l'ambiente che esse realizzavano (Lévi-Strauss, p. 243).

Potenziati prodigiosamente nelle capacità, viviamo, come nelle prefigurazioni dickiane, in un regime di spazio-temporalità che sembra aver spezzato il compimento dell'evoluzione, ma rimaniamo comunque ingabbiati in una fisicità votata all'estinzione. La brutalità esercitata ai fini terapeutici, sullo sfondo del dominio delle priorità economiche, potrà offrirci impressionanti spettacoli di morte, regalandoci oscene felicità, ma non ci affrancherà dalla fine, dalla miseria della nostra condizione. Copie sempre più fedeli degli androidi, intricati grovigli di circuiti, batterie, valvole e bobine, dal labirinto delle nostre esistenze, invochiamo più vita, evocando possibilità e provocando contraddizioni. Pronti a sostituire parti del nostro corpo non più funzionanti, ridotte a cose inutili, a kipple, ci apprestiamo a ricolonizzare il vissuto, sorretti dall'attività di ticchettanti macchinari, cancellando una programmazione istintuale, annullando la virtualità animale di percepire l'approssimarsi incontrastabile della fine. Non sentiamo più terminare il nostro tempo, come Robert Arctor, con le sue varie individualità, o come Rachael Rosen, con la sua identità ibridata, disorientati da una sensorialità alterata, da una vita ingurgitata o affidata ad un congegno. Dotati di microchip, pace-maker ed elettrocateteri, o addirittura forniti di cuori e sangue artificiali, patetici "manufatti bastardi" (Haraway, p. 34), ibridi chimerici fatti di Kipple e vita, di scienza e morte, ridotti a merce fin nel DNA, mentre le aziende biotech si affrettano a registrare brevetti, percorriamo spediti il destino di cyborg, presagito da Dick, stampigliato sui nostri circuiti, cogliendo inedite opportunità, instaurando nuove dipendenze, prolungando l'esistenza, combattendo l'insensato.


Inane è la sfida contro l'implacabile trionfo della debolezza umana, lanciata attraverso l'avvicendamento di trasformazioni organiche, frutto della ricerca di un'artificialità che sconfigga l'ineluttabile destino di dissoluzione, l'ineludibile, per quanto allontanata, tappa finale del cammino individuale. I tossicomani folli di Un Oscuro Scrutare e le creature perdute di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, sbigottiti e dolenti, nel loro tormento senz'anima (?), nella loro caparbia coazione, inconsapevoli kipple umani e ignoranti kipple tecnologici, brandelli vaganti di paura e stupidità, vanificato ogni ruolo, svanita ogni memoria, spenta la frenesia e sbiadita l'anempatia, aspettano comunque il tempo della morte. Un tempo che non dipana più i propri fili, che non scorre più, non spiana le proprie pieghe, non illumina giorni nuovi, il tempo dell'ombra funesta, dell'oblio totale, del mistero ultimo in cui si smarrisce la speranza e si illanguidisce la conoscenza.






Opere di Philip K. Dick citate:
Solar Lottery, 1955 (trad. it. di L. Grimaldi, Il disco di fiamma, Mondadori, Milano,
1992).
The Three Stigmata of Palmer Eldritch, 1965 (trad. it. di G. Pannofino, Le tre
stimmate di Palmer Eldritch, Sellerio, Palermo, 1996).
Now Wait for Last Year, 1966 (trad. it. di G. Tamburini, Illusione di potere,
Mondadori, Milano, 1993).
Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968 (trad. it. di R. Duranti, Ma gli androidi
sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000).
Flow My Tears, the Policeman Said, 1974 (trad. it. di V. Curtoni, Scorrete lacrime,
disse il poliziotto, Mondadori, Milano, 2000).
A Scanner Darkly, 1977 (trad. it. di G. Frasca, Un Oscuro Scrutare, Fanucci, Roma,
1998).

Bibliografia critica:
E. Carrère Je suis vivant et vous êtes morts, 1993 (trad. it. di S. Papetti, Io sono vivo e voi siete morti, Theoria, Roma-Napoli, 1995).
G. Di Costanzo Introduzione, in Gioco all'alba. Napoli nelle foto di Paolo Pelli, Hidra, senza indicazione di città, 1991.
"Il narratore del raggio rosa", in "Il Mattino", 1 marzo 1992.
"1994, allarme morte", in "Il Mattino", 11 aprile 1994.
A. Fattori Di cose oscure e inquietanti, Ipermedium, Napoli, 1995.
Memorie dal futuro, Ipermedium, Napoli, 2001.
G. Frasca La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, 1996.
D.J. Haraway Modest_Witness@FemaleMan(c)MeetsOncoMouse(tm), 1997 (trad. it. di M. Morganti, rev. di L. Borghi, Testimone_Modesta@FemaleMan(c)_incontra_Oncotopo(tm), Feltrinelli, Milano, 2000).
D. de Kerckhove The Skin of Culture, 1995 (trad. it. di M. T. Carbone, La pelle della cultura, Costa & Nolan, Genova, 1996).
C. Lévi-Strauss La pensée sauvage, 1962 (trad. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1996).
M. McLuhan The Man and His Message, 1989 (trad. it. di F. Gorjup Valente in coll. con S. Lepore, L'uomo e il suo messaggio, Sugarco, Milano, 1992).
C. Pagetti "Uomini e androidi", in Ph. K. Dick, Cacciatore di androidi, Editrice Nord, Milano, 1986.
"La vita degli androidi è sogno", in Ph. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000.
L. Sutin (a cura di) The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, 1995 (trad. it. di G. Pannofino, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997).


1 "Le controversie che hanno circondato la brevettazione e la commercializzazione del 'topo di Harvard' sono state al centro dell'attenzione della stampa scientifica e popolare in Europa e negli Stati Uniti . [...] Il 12 aprile 1988 l'ufficio federale dei marchi e brevetti concesse un brevetto a due ricercatori genetici, Philip Leder della Scuola di medicina di Harvard e Timothy Stewart di San Francisco, che lo intestarono al presidente e agli amministratori dell'Harvard College. L'ulteriore concessione del brevetto alla E. I. Du Pont de Nemours & Co. per lo sviluppo commerciale è diventata il marchio della simbiosi tra industria e accademia nel campo della biotecnologia dalla fine degli anni settanta in poi. Con una concessione illimitata a Philip Leder per lo studio della genetica e del cancro, la Du Pont è stata uno dei maggiori sponsor della ricerca. La Du Pont fece successivamente degli accordi con i laboratori Charles River di Wilmington nel Massachussets, per commercializzare OncoTopo(tm). Nel suo Listino Prezzi del 1994, Charles River pubblicava cinque versioni di questi topi portatori di differenti oncogeni dei quali tre si traducevano in tumori del seno. Questi roditori possono contrarre molti tipi di cancro, ma quello del seno è stato quello semioticamente più potente nella stampa come nel brevetto originale" (Haraway, p. 120).

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