uno dei due è l'altro

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mercoledì 19 ottobre 2016

Scenari di guerra III


La Siria, la Russia e l’elefante nella stanza: 
la bolla di Wall Street






La tensione tra Washington e Mosca assume, giorno dopo giorno, le caratteristiche di un inquietante crescendo: da ambo le parti, c’è l’apparente determinazione a difendere le rispettive posizioni sul dossier siriano fino alle estreme conseguenze. Di recente abbiamo analizzato la natura dell’attuale sistema internazionale, dove il declinante angloamericano è tentato dall’eliminare gli sfidanti emergenti finché ha i mezzi per farlo. È tempo di indagare perché Washington sente di avere poco tempo a disposizione e freme per la guerra: lo scoppio della bolla speculativa di Wall Street che pende sull’establishment atlantico come una spada di Damocle.






Un inquietante crescendo di tensione

L’Occidente, ed in particolare l’Europa, è anestetizzato: le opinioni pubbliche sono troppo assorbite da una molteplicità di crisi concomitanti per metabolizzarne un’altra e le classi dirigenti troppo succubi ai poteri atlantici per immaginare anche soltanto una reazione.

Così, nel tardo 2016, quando i rischi di un conflitto tra la Russia e la NATO sono maggiori che nel momento più buio della Guerra Fredda, nessun partito si mobilita, nessuna piazza si riempe, nessun appello è lanciato: è un sistema, quello euro-atlantico, che ha sopito qualsiasi coscienza e soffocato qualsiasi voce fuori dal coro, riuscendo ad accompagnare i popoli europei, mano nella mano, ad un passo dal precipizio. L’operazione è un capolavoro di manipolazione di massa: come trascinare una società verso la guerra senza che se accorga e riuscendo, addirittura, a dipingere il novello dottor Stranamore, Hillary Clinton, come la paladina dei diritti umani e delle minoranze etniche, religiose e sessuali.


Che i rischi di un conflitto internazionale siano più alti che durante la Guerra Fredda, l’abbiamo recentemente sottolineato in un nostro articolo: l’accento era posto, in particolare, sulla natura dell’attuale sistema internazionale. Se durante la Guerra Fredda l’obbiettivo di fondo delle due superpotenze era la conservazione dello status quo e vigeva l’accordo, mai dichiarato ed indichiarabile, di non ledere gli interessi vitali dell’avversario, il contesto di oggi è molto più dinamico e, di conseguenza, più rischioso: assistiamo ad una potenza egemone che, creato un mondo unipolare grazie all’harakiri del nemico, ha oggi l’acqua alla gola ed è atterrita dall’inesorabile avanzare degli sfidanti alla supremazia mondiale.

È la stessa posizione in cui si trovò Sparta di fronte alla crescente forza di Atene, inducendola a dichiarare guerra finché aveva buone probabilità di sopraffare la nascente potenze ateniese. Scrive Tucide sulle ragioni della Guerra del Peloponneso:

“Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni, fino a provocare la guerra”.

In queste condizioni, come già evidenziammo, le ostilità tra Washington e Mosca trascendono il conflitto in Siria e riguardano piuttosto l’assetto globale: sono lo sfaldarsi dellUnione Europea (la testa di ponte angloamericana sul continente euroasiatico), il crescente dinamismo economico e politico delle grandi potenze terrestri, la determinazione degli avversari a costruire un sistema finanziario alternativo al dollaro ed al duo FMI-Banca Mondiale, la percezione che sempre più alleati guardano altrove (si veda la clamorosa decisione del presidente filippino Rodrigo Duterte di sospendere la collaborazione militare con gli americani1a spingere gli USA verso il conflitto.






La “guerra per l’egemonia” che si profila all’orizzonte, come già sottolineammo, può deflagrare in Siria, ma qualsiasi altro degli innumerevoli teatri di crisi (l’Ucraina, il Golfo Persico, il mar Baltico, il mar meridionale cinese) può fungere da innesco: è, ad esempio, la decisione americana di schierare uno scudo missilistico in Sud Corea che ha contribuito ad inasprire ulteriormente i toni nelle ultime settimane, compattando Mosca e Pechino2.


I segnali di una vera escalation abbondano, lasciando ipotizzare che il punto di non ritorno sia imminente o forse già superato: Mosca schiera gli Iskander a Kaliningrad, Washington accelera la costruzione dello scudo missilistico; Mosca invita il personale pubblico a riportare in patria i famigliari, Washington è pronta ad inasprire l’isolamento economico della Russia; un alleato politico di Vladimir Putin pronostica la guerra nucleare nel caso di una vittoria di Hillary Clinton3, il vice-presidente americano Joe Biden minaccia esplicitamente azioni di guerra cibernetica; Vladimir Putin sottolinea che non dipende dalla Russia se qualcuno cerca il “confronto”, il ministro inglese Boris Johnson minaccia di trasformare “in cenere” le ambizioni di Mosca; etc. etc.






Ad aver ipotizzato una “guerra regionale o globale” nel caso in cui Mosca e Washington non raggiungano un accordo sul futuro della Siria è stato il primo ministro turco, Numan Kurtulmus4: affermazione corretta, che però confonde il fine (la “guerra globale”) con i mezzi (il futuro della ben più modesta Siria).

Se Washington e Mosca entrassero in guerra, infatti, la causa del conflitto non sarebbero certo da ricercarsi né nel futuro della base navale di Tortosa, né in quello di Bashar Assad, né in quello dei suoi alleati libanesi ed iraniani (benché la questione stia oggettivamente a cuore ad Israele ed all’influente lobby ebraica statunitense). Al contrario, l’impero angloamericano sfrutterebbe la Siria come casus belli per una guerra di cui ha disperato bisogno. Ora.

Un fattore che spinge le potenze declinanti a lanciarsi in una “guerra per l’egemonia” è la percezione che un mutamento storico è imminente e si ha poco tempo a disposizione prima che il vantaggio economico e militare sugli sfidanti si dissolva. L’impero angloamericano si trova oggi in questa condizione: la sua situazione economica è così precaria che non esistono alternative tra l’implosione o la guerra verso l’esterno, unica soluzione per puntellare il sistema, eliminando qualsiasi centro di potere alternativo.

Può sembrare un discorso logoro, simile a quello dei vecchi marxisti che pronosticavano saltuariamente il collasso del capitalismo occidentale e vedevano nelle guerre imperialiste l’extrema ratio per risolvere i difetti congeniti del sistema: qualche semplice dato, indica invece che lo scenario di un imminente tracollo economico e finanziario degli USA è più che concreto.





L’elefante nella stanza: la bolla di Wall Street

Le condizioni dell’economia statunitense sono il classico elefante nella stanza: un problema macroscopico, di cui tutti tacciano, anche perché parlarne significherebbe ragionare sulle vere cause della crisi internazionale in atto.

L’impero angloamericano è fondato su un capitalismo finanziario, noto anche come “capitalismo anglosassone”. Preferendo i titoli mobili (azioni, obbligazioni, derivati) ai beni immobili (imprese, terreni, edilizia), la mondializzazione sfrenata al protezionismo, la speculazione alla produzione, la deflazione all’inflazione, le politiche lato offerta (l’austerità ed il neoliberismo) alle politiche della domanda, questo tipo di capitalismo non genera una crescita economica stabile e costante (basata su attività reali e su salari crescenti che alimentino la richiesta di beni e servizi), ma una serie costante di bolle speculative che si susseguono l’una dopo l’altra.

Il fenomeno è esploso dopo la dissoluzione dell’URSS (1991) e l’abolizione negli USA della legge Glass–Steagall (1999), seguita dall’abrogazione in Europa di norme analoghe: in sostanza, il capitalismo anglosassone si è palesato in tutta la sua virulenza con l’avvento del Nuovo Ordine Mondiale.

Da allora è stato un susseguirsi incessanti di bolle speculative, caratterizzate da vertiginosi rialzi in borsa, accompagnati dall’illusione di una ricchezza diffusa, seguiti da clamorosi tonfi, accompagnati da recessioni e povertà invece molto concrete. Si comincia con la bolla dot.com che nell’ultimo scorcio del 1999 porta il Nasdaq a valori record: la FED spinge il saggio di risconto fino al 6,5% nella seconda metà del 2000 per sgonfiare la corsa dei titoli tecnologici.

Prontamente questi si accartocciano su se stessi ed il Nasdaq perde oltre il 50% in un anno. La FED risponde alla recessione tagliando i tassi, che scendono fino all’1% nel 2004: il denaro facile alimenta così la nuova bolla, quella legata agli immobili ed alla materie prime, proiettando l’SP500 verso un nuovo record nel luglio 2007. La FED, fedele allo stesso copione del 1929 e del 2000, rialza i tassi, che toccano il 5,25%5 nel 2007: segue un primo scossone di assestamento, cui succede nell’autunno 2008 lo scoppio di quella bolla che trascina nel baratro Lehman Brothers e l’economia americana.

Non pago, l’establishment atlantico concepisce un ingegnoso piano per uscire dalle secche della crisi: alimentare una bolla speculativa, maggiore della precedente.





La FED porta il tasso di risconto allo 0% (dov’è tuttora, a distanza di otto anni), inondando di liquidità i mercati azionari, obbligazionari e delle materie prime. Come evidenziammo in un articolo di un anno fa6, la bolla creata presenta diverse analogie con quelle precedenti e con il rally che precedette il crack del 1929 (investimenti a forte leva finanziaria, aziende che riacquistano i propri titoli, indice Shiller Price/Earnings a livelli di guardia). Wall Street sale incessantemente, mese dopo mese, sino a portare nell’estate 2016 l‘SP500 a valori mai visti prima (2.168 punti a luglio).

C’è un problema: la bolla speculativa dei mercati regala lauti guadagni alla City ed a Wall Street, ma è incapace di risollevare le sorti dell’economia attraverso il cosiddetto “effetto ricchezza” (un aumento dei consumi dovuto alla percezione di una più alta disponibilità): è lo Stato che si fa carico dell’impoverimento generalizzato causato dalla Grande Recessione (il debito pubblico americano raddoppia sotto Obama, passando dai 10.000$ ai 20.000 $mld), e se i numeri dell’occupazione sono rosei, bisogna solo ringraziare il sempre maggior numero di disoccupati che smettono di cercare un impiego, uscendo dalla forza lavoro.
Dopo otto anni di tassi a zero, l’economia statunitense è in aereo in perfetto stallo.

Se la FED alza i tassi (si cominciò a parlare per la prima volta nel lontano 2013), schianta le borse come nel 2008 e provoca negli USA una Grande Depressione simile a quella degli anni ’30; se mantiene nullo il costo del denaro, gonfia ulteriormente la bolla speculativa, ampliando il divario tra i mercati finanziari e l’economia e rendendo ancora più drammatico l’inevitabile impatto finale. Già, perché diversi fattori, primi fra tutti la recente gelata degli utili aziendali e la prima riduzione di consumi delle famiglie dal lontano settembre 20097, indicano che mentre Wall Street mancina nuovi record, l’economia statunitense si dirige verso la recessione.

Si profila quindi all’orizzonte una crisi peggiore della precedente: spazi per tagli dei tassi non c’è ne sono più, l’indebitamento pubblico è già raddoppiato in otto anni, le tensioni sociali (come testimoniano lo stillicidio di rivolte razziali) sono già a livello di guardia, il margine per finanziare la ripresa a carico di Paesi terzi molto modesto (si veda l’accumulo di riserve auree in sostituzione del dollaro ed il continuo declassamento del debito pubblico americano da parte della agenzie di rating cinesi8). Anche lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva sarebbe messo a repentaglio, di fronte a finanze pubbliche sempre più dissestate.




L’impero angloamericano si avvicina ad una crisi strutturale, tale da causarne il collasso: è possibile tenere testa a Mosca e Pechino, proiettarsi su cinque continenti e controllare i mari, mentre l’economia affonda ed il debito pubblico cresce al ritmo di 10.000 $mld ogni otto anni? La risposta è no.

È in questa prospettiva che vanno lette le affermazioni di Donald Trump: il repubblicano è consapevole che un crack del mercato azionario è ineluttabile (“If rates go up, you’re going to see something that’s not pretty”9) ed ha contemplato, nel caso in cui la situazione per le finanze statunitense si facesse critica, una ristrutturazione del debito pubblico o l’emissione massiccia di dollari così da alimentare l’inflazione10


La prima ipotesi è un tabù per le oligarchie finanziarie, custodi dell’ortodossia finanziaria, la seconda ipotesi è una blasfemia. Così facendo, Donald Trump sarebbe il primo presidente ad adottare un approccio post-imperiale: un taglio del debito all’argentina, od una politica monetaria alla venezuelana, accelererebbe il tramonto del dollaro come valuta di riserva mondiale e la parallela eclissi dell’impero angloamericano. Senza più la possibilità di comprare dal resto del mondo beni e servizi in cambio di pezzi carta (i dollari americani stampati a piacimento ed accettati solo perché valuta di riserva), come farebbero gli USA a finanziare le spese militari e le basi all’estero? 

Su posizioni opposte, è ovviamente la democratica Hillary Clinton, la candidata di quelle oligarchie finanziarie che siedono ai vertici dell’impero e scandiscono i tempi dell’economia statunitense con un crack borsistico dopo l’altro: può la favorita di Goldman Sachs avanzare l’ipotesi di una ristrutturazione del debito pubblico o di un’inflazione a due cifre che spazzi via i debiti (ossia i crediti nel portafoglio delle banche) mentre le riserve mondiali migrano verso lo yuan, il rublo e l’oro? Certo che no.


L’unica soluzione che rimane ad Hillary Clinton per evitare che il tracollo di Wall Street trascini con sé l’impero ed il dollaro, è quindi l’azzardata scommessa di una guerra preventiva contro Mosca e Pechino: l’eliminazione degli sfidanti all’egemonia mondiale, il congelamento del debito pubblico statunitense in mano ai cinesi (possibile con la stessa norma che permise a Bush Junior di bloccare gli investimenti delle “organizzazioni terroristiche”), e l’inflazione bellica, sono gli unici strumenti per scongiurare l’inevitabile collasso.

Si parla di Aleppo, di Siria, di Russia e di guerra, ma il motore è sempre la grande finanza: dopo aver trascinato gli USA nel baratro nel 2008, questa volta mammona si prepara a trascinare negli inferi il mondo intero.







1http://www.aljazeera.com/news/2016/10/duterte-philippines-open-china-russia-war-games-161017173207768.html
2http://www.bloomberg.com/news/articles/2016-10-13/xi-putin-bromance-grows-in-security-bond-as-u-s-spats-escalate
3http://www.reuters.com/article/us-usa-election-russian-trump-idUSKCN12C28Q?il=0
4https://www.rt.com/news/362572-us-russia-syria-proxy-war/
5https://fred.stlouisfed.org/series/FEDFUNDS
6http://federicodezzani.altervista.org/il-giovedi-che-cambiera-il-mondo/
7https://www.ft.com/content/e772ac50-bd09-11e0-bdb1-00144feabdc0
8http://www.cnbc.com/2013/10/17/chinese-agency-downgrades-us-credit-rating-should-you-care.html
9http://www.cnbc.com/2016/08/09/donald-trump-on-the-stock-market-its-all-a-big-bubble.html
10http://www.forbes.com/sites/timworstall/2016/05/07/donald-trumps-glorious-threat-to-default-on-the-national-debt-is-just-the-conventional-wisdom/#7e30e2355308







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