uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

sabato 25 marzo 2017

Spunti per la discussione di Eurostop

Ugo Borghetta, Mimmo Porcaro



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E’ comprensibile che all’interno di Eurostop si ponga un problema di identità. I sacrosanti “tre no”, all’Unione europea, all’euro ed alla Nato, non dicono, ovviamente, nulla di “positivo”: noi diamo per scontato che essi siano un mezzo per attuare i nostri scopi generali, e ciò è indiscutibile, ma la presenza di altre forze che, in un modo o nell’altro, propongono in tutto o in parte gli stessi “no” ci impone di definire meglio i nostri scopi e i nostri mezzi. Oltretutto Eurostop si trova, obiettivamente e per scelta, al centro di una rete di relazioni tra forze eterogenee che vanno, per intenderci, dall’area dell’antagonismo al costituzionalismo moderato. La cosa è assolutamente positiva, è un indizio del fatto che abbiamo individuato problemi reali e avvertiti da molti: ma anch’essa impone una chiarificazione, alla quale, qui sotto, cerchiamo di contribuire, alternando spunti politici e teorici.


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Dal punto di vista della nostra iniziativa il dato determinante di questa fase non è tanto il perdurare della crisi economica e nemmeno l’accentuarsi della deglobalizzazione. Il dato determinante è costituito dalla divisione delle classi dominanti e dall’inizio della loro crisi politica: la vicenda Clinton -Trump - Sanders mostra che le classi dominanti non possono più governare come prima, che si acuisce decisamente lo scontro tra il capitalismo liberista e quello protezionista e che nel campo aperto da questo scontro può oggi aprirsi uno spazio per una nuova alternativa socialista. L’esperienza di Sanders (per quanti limiti essa possa manifestare) dimostra l’obiettiva presenza di una tendenza socialista fin nel cuore della potenza egemone.



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Cosa significa tutto ciò? Significa che si inaugura un’epoca in cui possiamo passare all’offensiva. O, meglio, un’epoca in cui alla lotta di difesa sociale a cui siamo abituati si possono e devono aggiungere momenti di iniziativa politica capaci di modificare alcuni rapporti di forza e creare le condizioni per una nuova mobilitazione popolare. E quindi finalmente possiamo (e dobbiamo) passare dal mero “conflittismo” al progetto, dalla propaganda alla politica. Non possiamo più confidare soltanto nella crescita cumulativa dei conflitti, né proporre il conflitto stesso come valore in sé, sperando così di attrarre masse crescenti. Le masse sono sempre in larga maggioranza inattive dal punto di vista della protesta sociale visibile (il che non significa che siano inattive dal punto di vista del pensiero o delle pratiche di resistenza quotidiane). Le rivoluzioni coincidono con la fine di tale inattività, cosa che non avviene per amore del conflitto ma per un misto di disperazione sociale e di speranza in una nuova prospettiva. Il capitale lavora per la disperazione, noi dobbiamo lavorare per la speranza e per la prospettiva.


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L’obiettivo di prospettiva (che si articola inevitabilmente in diversi obiettivi intermedi) non può essere che una rottura politica e istituzionale di tipo socialista. Questa affermazione può sembrare temeraria: dove sono le condizioni del socialismo e dove si trova un’idea di socialismo adeguata ai tempi? Le condizioni stanno nell’assenza di una soluzione pacifica e progressiva alla crisi del capitale, nella divisione delle classi dominanti, nell’apertura di un’epoca di ridefinizione degli orientamenti politici analoga (e in parte contraria) a quella successiva alla fine dell’Urss. Tali condizioni ci costringono a disegnare un abbozzo di alternativa generale ben prima che nuove scuole di pensiero socialiste si siano consolidate, e quindi coi materiali di teoria e di esperienza che abbiamo attualmente a disposizione. Restando ben consapevoli che tutto dovrà essere verificato e perfezionato. Al nostro attivo abbiamo comunque già alcune elaborazioni o intuizioni importanti, tra cui quelle, pur diverse, di Luciano Vasapollo e di Emiliano Brancaccio. Qui noi vogliamo solo insistere sul realismo di una opzione socialista e sulla concreta possibilità che essa possa essere recepita proprio in Italia.



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Coi materiali che abbiamo a disposizione (le riflessioni sul socialismo reale, le esperienze latinoamericane, le indicazioni della lotta di classe attuale) possiamo lavorare su un’idea di socialismo come intreccio tra un sistema economico a tre settori e un sistema politico-istituzionale a due settori. I settori economici sono quello pubblico/statuale, quello comunitario/sociale e quello privato: un sistema tanto più è socialista quanto più i primi due settori prevalgono sul terzo (che peraltro, realisticamente, non può scomparire) e solo l’esperienza storica potrà dire quale sarà il peso rispettivo del settore statale e di quello comunitario/sociale. I due settori politico-istituzionali sono: a) uno stato che torna ad assumere una efficace funzione di promozione dell’eguaglianza, ma lo fa costruendo le politiche in diretto rapporto con gli attori sociali organizzati; b) un insieme di libere ed autonome associazioni dei lavoratori e dei cittadini capaci di estendere al massimo l’autogoverno, e per il resto di imporre esigenze, co-definire politiche, verificarne l’attuazione e lottare contro le inevitabili tendenze alla degenerazione presenti anche nell’apparato statale più democratico.


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Il carattere effettivamente socialista di un sistema dipende non solo da una combinazione ottimale dei diversi settori economici e da una effettiva dialettica tra stato e istituzioni popolari (soprattutto nelle decisioni di pianificazione), ma anche da due ulteriori importanti fattori. Prima di tutto l’intero sistema deve tendere alla progressiva estinzione del lavoro salariato, e quindi deve gradualmente abolire il carattere di merce del lavoro, il controllo privatistico sul processo di produzione e sulla gestione della ricchezza sociale, il legame diretto tra lavoro e reddito. Obiettivi, questi, che possono essere raggiunto soltanto intrecciando politiche di piena occupazione e riduzione dell’orario di lavoro, sviluppo di libere attività sociali, incremento della fruizione di redditi e servizi non direttamente dipendenti dall’attività lavorativa, controllo democratico della produzione e dell’allocazione delle risorse. In secondo luogo il sistema economico non deve più essere orientato alla massima valorizzazione del capitale e al massimo sviluppo delle forze produttive, ma alla riproduzione – ecologicamente equilibrata – di rapporti sociali egualitari liberamente scelti.



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La seconda cosa è forse più difficile da farsi della prima, e chiama in causa il nesso tra socialismo ed internazionalismo. Se si vuole far sì che l’economia di un paese non sia votata alla ricerca del massimo profitto, bisogna creare insieme ad altri paesi zone economico-politiche sufficientemente indipendenti dagli scambi con l’estero e capaci di limitare quella libera circolazione dei capitali che è la chiave di volta del potere capitalistico mondiale. Tutto ciò ha poco a che fare col protezionismo (anche se non lo esclude), e riguarda piuttosto la regolazione politica degli scambi, la costruzione di poli economici cooperativi e l’equilibrio tra di essi in un mondo multipolare. La realizzazione di progressi in senso socialista dipende strettamente dalla realizzazione di spazi del genere: ed è per questo che è necessario dissolvere lo spazio inevitabilmente gerarchico dell’Unione europea. E’ molto probabile, ma non è affatto scontato, che sarà più facile costruire tali spazi con/tra paesi egualmente orientati in senso socialista. Ma, almeno per una significativa fase iniziale, è altrettanto probabile che l’internazionalismo del futuro non sarà un legame tra classi e/o paesi ideologicamente affini, ma una relazione cooperativa tra soggetti comunque interessati a limitare la libera circolazione del capitale finanziario e a perseguire politiche che (a differenza di quelle dell’Unione europea) non siano finalizzate ad indebolire i territori “esterni” per meglio sfruttarne i lavoratori.


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Questo socialismo non piacerà a chi crede di poter raggiungere il comunismo integrale e lo identifica sostanzialmente con la conquista del reddito incondizionato sulla base dei rapporti sociali capitalistici. Né piacerà ai numerosi detrattori dello stato che replicano, nella loro apologia della spontanea razionalità della rete, l’apologia liberista del mercato. Piacerà però ancor meno ai padroni perché presuppone una parziale ma significativa espropriazione degli espropriatori, ossia il passaggio (e spesso il ritorno) dei più importanti strumenti finanziari e produttivi in mano pubblica. Tale socialismo non è una terza via e non deriva da una attenuazione dell’ipotesi comunista, ma è un modo di rendere efficace la tendenza al comunismo nelle condizioni storico-sociali date. Pur non proponendo il collettivismo assoluto, la pianificazione integrale e la completa eliminazione del lavoro salariato, esso non può essere attuato senza significative rotture nei rapporti di potere e nella forma dello stato, giacché il capitalismo attuale non può accettare espropriazioni, attenuazioni dello sfruttamento, limitazioni alla libera circolazione dei capitali, senza resistere e contrattaccare duramente. Pur non sottovalutando le capacità di metamorfosi del capitalismo e la momentanea efficacia retorica dei discorsi simil-socialisti che una parte della sinistra globalista sarà costretta a fare, l’ipotesi socialista qui abbozzata è obiettivamente rivoluzionaria e come tale deve essere pensata e gestita.



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Come abbiamo già detto, una simile idea di socialismo può diffondersi anche in Italia, e può rafforzare la lotta di coloro che in Italia lavorano, perché mostra il nesso esistente trai loro interessi ed alcune esigenze obiettive dell’intero paese. L’Italia infatti, con l’ingresso nell’Unione e con lo smantellamento dell’economia mista che ne è conseguito, è divenuta di fatto, all’interno del blocco atlantico, un’entità strutturalmente subalterna e per molti aspetti declinante, subalternità e declino che sono stati usati dalle nostre classi dominanti per aumentare la subordinazione dei lavoratori. Contro questa deriva, il rilancio socialista dell’economia mista rilancia a sua volta sia l’intero sistema produttivo del paese (compreso il settore delle Pmi, che in tal modo potrebbe essere adeguatamente razionalizzato) sia la politica di piena occupazione che è base essenziale di ulteriori sviluppi della lotta di classe. Sotto l’aspetto istituzionale, poi, l’affermazione di una efficace e palese dialettica tra stato e organizzazioni sociali autonome, mentre favorisce il controllo democratico della pianificazione, riesce anche a valorizzare il diffuso pluralismo associativo che è una delle più importanti caratteristiche del paese, evitando che esso si traduca in lobbismo e in consociativismo. Non si tratta, insomma, di ripetere la DC, che gestiva privatisticamente le imprese pubbliche, frammentava il potere decisionale a favore delle lobby e d’altra parte creava centri informali e quasi occulti di potere. La rottura che dobbiamo perseguire deve condurre ad uno stato autorevole (i cui centri decisionali siano ben visibili e quindi criticabili) e ad una società indipendente (libera da ricatti consociativi): il che sarebbe quanto di meno liberista, ma anche quanto di meno democristiano si possa dare.

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Non solo l’ipotesi socialista, ma anche quella internazionalista si incontra con esigenze obiettive del paese. Il carattere aperto della nostra economia, la dipendenza energetica, la (benvenuta) debolezza militare dell’Italia fanno sì che ogni decisiva trasformazione politica interna debba essere supportata da una parallela trasformazione delle relazioni internazionali, ed in particolare, oggi, dal superamento dell’atlantismo e dell’europeismo subalterno, e dalla costruzione di una nuova zona economica cooperativa nelle zone a noi contigue. Le parziali esperienze passate di cooperazione, che hanno costituito (salvo rarissime eccezioni) una semplice divergenza tattica all’interno della scelta atlantica, devono diventare una vera e propria strategia. Una pace giusta, e quindi stabile, nel Mediterraneo, nel Medioriente e nei Balcani non né solo un sogno pacifista ed internazionalista, ma un bisogno di lungo periodo del paese. L’idea di un polo euromediterraneo con funzioni di equilibrio sociale e geopolitico può divenire la cornice della nostra azione.



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Se è possibile intrecciare socialismo e internazionalismo con le caratteristiche strutturali di un paese, ciò avviene anche perché proprio in quanto socialisti e internazionalisti siamo condotti a incontrare il campo della nazione e della sovranità nazionale come spazio iniziale della lotta di classe in generale e della lotta socialista in particolare. La distruzione delle nazioni subalterne o della loro (relativa) autonomia è stata una delle strategie predilette dell’imperialismo globalista e delle nazioni che lo hanno gestito (Usa e Germania in primis): poiché lo spazio globale così costruito si è mostrato inconciliabile con la democrazia, la riconquista dell’autonomia nazionale è quindi il punto di partenza di ogni lotta popolare veramente efficace. In ogni caso, l’imporsi del campo della nazione è oggi un dato di fatto. Non è un arresto improvviso, un momentaneo inconveniente della globalizzazione, ma è il necessario risultato dialettico della globalizzazione stessa: questa era ed è un processo di gerarchizzazione spaziale e sociale gestito da alcune nazioni e da alcune classi al fine di meglio sfruttare i lavoratori delle zone subalterne e meglio acquisirne i capitali. E’ inevitabile che questo processo generi reazioni che si addensano, altrettanto inevitabilmente, nei luoghi in cui si può ricostruire la potenza politica necessaria a contrastare il capitale, ossia negli stati nazionali.


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Ripetiamolo e precisiamolo: noi non siamo e non dobbiamo essere né sovranisti né nazionalisti. Siamo piuttosto socialisti ed internazionalisti e in quanto tali rivendichiamo la sovranità come mezzo, e non come scopo, della nostra azione e lo spazio nazionale come inevitabile punto di partenza, ma non come punto di arrivo, di quella azione stessa. Come socialisti dobbiamo ricostruire l’autonomia politica dei lavoratori, e per farlo abbiamo bisogno di ricostruire la sovranità, ossia quell’insieme di condizioni formali e poi sostanziali che fanno sì che possa esistere una qualunque politica, e fanno sì che la decisione democratica possa essere efficace. Come internazionalisti sappiamo che il globalismo è l’esatto contrario dell’internazionalismo in quanto distrugge quegli spazi delimitati (le nazioni) che sono gli unici nei quali è possibile, nelle condizioni attuali, sperimentare effettivamente una democrazia pienamente efficace, e dai quali è possibile, proprio perché sono spazi democratici, tentare di costruire rapporti realmente paritari tra nazioni.



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Per tutti questi motivi possiamo dire che la riconquista dell’autonomia di classe e quella dell’autonomia nazionale sono strettamente intrecciate. Non rivendichiamo quindi una sovranità senza aggettivi. Sovranità e nazione sono un campo di battaglia. Non sono uguali per una classe o per l’altra e non devono essere usate per eludere la lotta di classe. Per noi hanno senso in quanto sono funzionali al socialismo e all’internazionalismo. Non basta riferirsi alla sovranità e alla nazione. E’ importante, è essenziale, ma non basta. Altrettanto essenziale è dire per conto di quale classe (o coalizione di classi) si rivendica la sovranità nazionale: non dirlo equivale a dire che lo si fa per conto di qualche frazione delle classi dominanti.


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Si accettino o meno le idee fin qui esposte, è comunque chiaro che la nostra politica non può essere dedotta linearmente da un’idea di socialismo (e di capitalismo), ma deve essere definita in rapporto alla congiuntura concreta della lotta di classe e delle ideologie che l’accompagnano. Chi sono, concretamente, i nostri interlocutori, e prima di tutto i nostri interlocutori sociali? Non si può certo portare a compimento la costruzione del socialismo senza la partecipazione attiva dei lavoratori organizzati e della fascia altamente qualificata del lavoro stesso. Ma, allo stesso tempo, con questi lavoratori non si può iniziare la lotta per il socialismo perché, nella congiuntura attuale, essi sono generalmente alleati della frazione dominante del capitalismo, quella liberista. La rottura oggi necessaria può essere opera solo o soprattutto delle fasce medio-inferiori del lavoro e dei disoccupati, nonché di molte delle figure intermedie tra lavoro e capitale (piccoli imprenditori, imprese individuali, lavoratori apparentemente autonomi ma di fatto subalterni, ecc.). Tutti questi lavoratori sono generalmente dispersi e disgregati, ideologicamente indifferenti ai legami con la destra o la sinistra, scarsamente abituati alle prassi tradizionali (e peraltro oggi scarsamente efficaci) della mediazione sindacale e politica. La lotta o comunque l’iniziativa di questi lavoratori assume quindi inevitabilmente forme populiste. Ma non è detto che queste forme possano avere esclusivamente un contenuto interclassista o comunque subalterno al capitalismo protezionista. Dipende: e molto dipende dal lavoro che noi sapremo sviluppare nei confronti di questo populismo, dalla proposta che metteremo in campo.



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Le (per ora) disperse masse populiste non possono essere unificate da un processo di conquista di posizioni sociali sempre più avanzate, processo che poi sbocchi in una proposta politica generale. Questo è il modello classico dell’azione del movimento operaio post ’45 (dalla fabbrica allo stato) e nel nostro caso non può essere riproposto (nemmeno per le figure più tradizionali del lavoro). Se il crescente sostegno offerto al M5S insegna qualcosa, insegna che le masse populiste hanno quantomeno compreso che nulla di decisivo oggi può essere fatto senza una preliminare rottura politica con le attuali classi dirigenti. L’unificazione che noi dobbiamo proporre passa dunque dalla definizione di un programma che risponda (assai meglio del M5S) alle esigenze fondamentali dei lavoratori (noi non dobbiamo presentarci solo coi “tre no”, e i “tre no” devono essere presentati come strumento per realizzare ben altro) e dalla proposta di un obiettivo che renda realizzabile la rottura politica, ossia l’obiettivo di un governo popolare di attuazione della Costituzione. La definizione di questo programma in rapporto con un insieme di interlocutori (ed anche con forze a noi affini operanti in altre nazioni, in modo da essere fin dall’inizio coordinati con i progetti di altri popoli che dovessero liberarsi dall’euro) è, insieme alla precisazione della proposta del governo popolare, uno dei compiti più importanti che abbiamo di fronte. Non porcelo equivarrebbe a non aver capito davvero il carattere sistemico della rottura in corso e la conseguente necessità di dare risposte altrettanto sistemiche.


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Porre questi problemi di prospettiva ci aiuta ad affrontare meglio i compiti più immediati. Tutti sappiamo di dover sviluppare iniziativa politica nei confronti delle forze a noi più vicine, chiarendo il senso dei “tre no”, convincendo quei compagni che ancora non riescono a congedarsi completamente dall’europeismo perché l’avevano immaginato come un progresso verso il socialismo, e mostrando loro invece il nesso tra il socialismo e la rottura dell’Unione. Tutti sappiamo che dobbiamo sviluppare iniziativa nei confronti delle forze costituzionali che, per quanto diverse da noi, comunque convergono sulla rottura nonché sull’uso redistributivo che si deve fare della sovranità. Sappiamo anche che dobbiamo giungere al momento dello scontro elettorale con una posizione visibile e comprensibile che ci consenta di intervenire sulle contraddizioni che questo scontro produrrà, e di crescere attraverso questo intervento. Aggiungiamo che dovremmo sviluppare una particolare iniziativa anche nei confronti di tutte le organizzazioni di movimento (sindacati, associazioni di conflitto, centri sociali, centri di mutualismo popolare) per chiarire la nostra posizione e spiegare come la loro lotta avrebbe più senso e più possibilità se avesse di fronte uno stato sovrano, mentre di fronte all’Unione europea essa o trova muri invalicabili o si perde e si frammenta nelle maglie della governance. Tutti questi passaggi però non devono essere intesi semplicemente come crescita lenta e progressiva della nostra influenza sul nostro campo.



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E’ vero infatti che non dobbiamo ancora conquistare la dimensione minima per esistere come soggettività politica efficace, e che questo si può fare, almeno all’inizio, soltanto agendo negli spazi a noi più vicini. Ma il vero salto, anche dal punto di vista organizzativo, avverrà soltanto quando riusciremo a farci credibilmente sentire nell’assai più vasto spazio sociale che non ha la nostra ideologia e non parla il nostro linguaggio. Soltanto l’inizio della penetrazione in questo spazio ci consentirà di offrire una credibile alternativa anche all’evidente crisi della “sinistra di classe”. Per costruire la nostra piccola egemonia nel piccolo campo di quel che resta della sinistra “vera”, è necessario lavorare per la grande egemonia nel grande campo di una società che, proprio nel momento in cui maggiormente avrebbe bisogno delle nostre idee migliori, non ci riconosce più.




Der Himmel uber Berlin


domenica 12 marzo 2017

Alcune note a proposito della situazione negli Stati Uniti


da “Avante!”, Settimanale del Partito Comunista Portoghese




I recenti avvenimenti negli Stati Uniti – con l'elezione e l'insediamento di Donald Trump come presidente e l'entrata in funzione della nuova amministrazione da lui diretta – continuano a porre comprensibili domande in merito ai loro reali impatti nello sviluppo dell'agenda neoliberale e aggressiva che ha caratterizzato le diverse amministrazioni statunitensi che si sono succedute e le loro conseguenti ripercussioni sul piano interno ed esterno, poiché rappresentano un fattore aggiuntivo di incertezza e instabilità nell'attuale situazione internazionale.

Come è stato sottolineato, le ultime elezioni negli Stati Uniti hanno evidenziato con insolita chiarezza, e come da molto tempo non accadeva in questo paese, importanti fratture nella società statunitense e significative spaccature in seno alla classe dominante, che hanno svelato la profonda crisi economica, sociale e politica della principale potenza del mondo capitalista, che è espressione dell'approfondimento della crisi più generale e strutturale del capitalismo.




Allo stesso modo, con le sue dichiarazioni e azioni iniziali, il nuovo presidente statunitense, assumendo e riaffermando chiaramente l'obiettivo strategico degli Stati Uniti, vale a dire, la prevalenza della sua egemonia mondiale, ha posto anche in primo piano le rivalità, a fronte delle contraddizioni e al binomio rivalità-concertazione, che caratterizzano le relazioni tra le grandi potenze imperialiste. Ricordiamo le sue dichiarazioni contro la Germania, che ha accusato di usare l'Unione Europea come strumento di dominio in Europa, e nei confronti del Giappone, principale  alleato nella “Partnership per il Commercio nel Pacifico” (TPP) e nel quadro della militarizzazione della regione Asia-Pacifico.





Cercando di trovare soluzioni per, se possibile, invertire la tendenza del declino economico relativo e contrastare l'ampio processo di riaggregazione delle forze che sta avendo luogo sul piano mondiale (in cui ha avuto particolare importanza il ruolo svolto dalla Cina), Donald Trump e gli interessi e i settori della società statunitense che egli incarna danno diversi segnali di non solo  pretendere di determinare nuovi termini del loro rapporto con la Repubblica Popolare di Cina – definita come il principale avversario strategico degli Stati Uniti – ma anche nella loro relazione con paesi alleati e partner vicini – di cui sono esempio Messico e Canada e il corrispondente Trattato Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) e l'insieme di paesi che hanno istituito il TPP, nel quale la partecipazione degli Stati Uniti è stata revocata da Donald Trump.





Pur in presenza di differenze, Donald Trump non rappresenta una visione diversa per quanto riguarda gli aspetti fondamentali della società statunitense, come l'affermazione e l'imposizione del dominio egemonico degli Stati Uniti. Tuttavia, è attorno alle “soluzioni” che cercano di contrastare il declino economico relativo degli USA sul piano mondiale che, apparentemente, si verificano le principali divergenze e gli scontri tra la classe dominante degli Stati Uniti, sia su come affrontare l'enorme sfida posta dalla convergenza che si sta verificando su diversi piani (economico, energetico, militare,...) tra la Cina e la Russia, che sul come determinare e imporre nelle relazioni commerciali con paesi terzi, compresi gli alleati-partner , i (nuovi) termini e le condizioni più favorevoli per gli Stati Uniti.





Non è ancora possibile evidenziare il risultato immediato dello scontro che si verifica in questo momento in seno alla classe dominante statunitense e l'effettiva gamma di elementi di differenziazione nel segno della continuità degli aspetti essenziali della politica realizzata, come pure delle loro eventuali conseguenze sul piano interno ed esterno. Nel frattempo e in questo contesto si sviluppa una multiforme campagna che mira, tra le altre cose, a imbiancare la politica dell'amministrazione Obama, salvaguardare la globalizzazione capitalista, difendere la NATO e affermare l'Unione Europea.


L'eredità di Obama

Il passaggio del “testimone” da Obama a Trump è stato accompagnato da un'intensa campagna che, caricaturizzando e demonizzando Trump, ha cercato di far dimenticare il “cambiamento” che Obama ha detto di rappresentare, pur avendo in realtà proseguito l'essenziale dell'agenda neoliberale e aggressiva dell' “establishment” statunitense, che cerca di affermare e imporre il dominio mondiale degli USA



Insediatasi all'inizio del 2009 dopo l'esplosione della crisi del 2007/8 negli Stati Uniti, e dopo avere ricevuto due mandati, l'amministrazione Obama non è riuscita ad assicurare una crescita economica stabile, nonostante la massiccia iniezione di miliardi di dollari nel sistema finanziario, mentre la società statunitense ha continuato ad essere segnata da profonde ingiustizie, disuguaglianze e discriminazioni sociali. Pur in presenza dell'accordo firmato con l'Iran e i passi verso la normalizzazione delle relazioni con Cuba, il blocco degli Stati Uniti continua ancora e occorre avere presente che negli ultimi anni: la prigione nella base militare di Guantanamo non è stata chiusa; continua la guerra degli USA in Afghanistan; gli Stati Uniti sono tornati ad avere truppe in Iraq, da dove in realtà non sono mai usciti; i droni statunitensi continuano ad assassinare; la Libia e il suo Stato sono stati brutalmente distrutti dall'aggressione della Nato e dei suoi alleati; la Siria è stata aggredita e devastata da gruppi di mercenari appoggiati dagli USA e la sua sovranità e integrità territoriale minacciata; in Ucraina gli USA hanno promosso il golpe attuato da oligarchi e gruppi fascisti che hanno scatenato una guerra contro il popolo ucraino; prosegue lo sviluppo delle armi nucleari e la corsa agli armamenti, come pure l'installazione del sistema anti-missile degli USA in Europa e viene ribadita l'intenzione di installarlo in Asia; le forze della Nato sono avanzate verso l'Est dell'Europa, rafforzando la loro presenza a ridosso della frontiera con la Federazione Russa; ed è stata promossa la presenza militare statunitense nella regione Asia-Pacifico, prendendo di mira la Cina




Sono esempi, tra gli altri, dell'eredità di Obama che provano il proseguimento della politica militarista, di destabilizzazione e di guerra degli Stati Uniti contro coloro che nel mondo essi considerano essere un ostacolo all'imposizione del loro “ordine mondiale”, alla politica di aggressione che tante sofferenze e distruzioni ha provocato. Una continuità che Hillary Clinton rappresentava – in quanto candidata del sistema, che univa attorno a sé grande parte dell' “establishment” e, in particolare, gli interessi predominanti del capitale finanziario e del complesso militare-industriale – e che ha subito una sconfitta.

Si tratta di una campagna che mira a far perdere di vista gli obiettivi e le conseguenze di circa 25 anni di globalizzazione capitalista, con l'imposizione di relazioni di dominio e dipendenza nei rapporti tra gli stati, l'arbitrio delle multinazionali, la liberalizzazione del commercio, l'incremento dell'accumulazione e la concentrazione della ricchezza, l'intensificazione dello sfruttamento, la precarietà del lavoro e le crescenti disuguaglianze sociali e i divari nello sviluppo. 


 
Un processo, una politica, che ostacola e promuove la mancanza di rispetto per i diritti dei lavoratori e dei popoli, per la sovranità e l'indipendenza degli stati, per la democrazia, per i diritti politici, economici, sociali e culturali, per la realizzazione di relazioni economiche e commerciali che si basino sulla cooperazione reciprocamente vantaggiosa sul rispetto del diritto degli stati allo sviluppo economico e sociale sovrano.

Una campagna che cerca anche di mistificare la natura e gli obiettivi della NATO – blocco politico-militare, strumento della politica aggressiva dell'imperialismo – e nascondere la sua responsabilità per le guerre di aggressione alla Jugoslavia, all'Afghanistan, all'Iraq e alla Libia, e il suo bilancio di morte, sofferenza e distruzione. Allo stesso tempo, cerca di aprire la strada all'aumento delle spese militari della maggioranza dei paesi membri della NATO, utilizzando come pretesto l'ingannatrice “lotta al terrorismo” e la pretesa “minaccia russa”


 

Vanno ricordate a tale proposito le ricorrenti proposte perché le spese militari possano non essere contabilizzate nel calcolo dei deficit pubblici dei paesi che fanno parte dell'Unione Europea (e della NATO), allo scopo di facilitare il percorso al militarismo, alla corsa agli armamenti e alla guerra.

Una campagna che, di fronte all'accumularsi di contraddizioni e alle crescenti manifestazioni di rifiuto dell'Unione Europea, di cui è significativo esempio il referendum nel Regno Unito, agita ogni tipo di manaccia (Donald Trump, Russia, Cina, terrorismo, populismo,...), per promuovere la creazione delle condizioni per un nuovo approfondimento dell'integrazione capitalista europea – federalista, neoliberale e militarista – in confronto diretto con i diritti, gli interessi e le aspirazioni dei lavoratori e dei popoli e la sovranità e l'indipendenza degli stati, puntando, tra le altre cose, al completamento dell'Unione Economica e Monetaria (dell'Euro), con il compimento dell'unione bancaria e l'incremento della politica fiscale, con il rafforzamento dell'Unione Europea securitaria e delle cosiddette politiche della migrazione e dell'asilo, con la promozione della militarizzazione dell'Unione Europea e della sua capacità di intervento militare.






Migranti e rifugiati

Per quanto riguarda i migranti e i rifugiati, riveste particolare gravità l'adozione da parte dell'amministrazione statunitense di misure che, approfondendo aspetti di una politica che in parte era già stata implementata, violano i loro diritti – come la continuazione della costruzione del “muro”, iniziata dall'amministrazione Clinton alla frontiera con il Messico; e le ancora più restrittive regole di asilo e accoglienza dei rifugiati; e la discriminazione sulla base della nazionalità, in particolare dei cittadini vittime delle guerre di aggressione da parte degli USA – che non è una politica esclusiva degli Stati Uniti. L'Unione Europea ha varato misure come il disumano accordo con la Turchia e con altri paesi, come la Libia; la militarizzazione delle questioni umanitarie; la cosiddetta politica del ritorno; l'esternalizzazione delle frontiere e il concetto di “Europa fortezza”; la selettiva “carta blu” a imitazione della “carta verde” degli Stati Uniti, la costruzione dei centri di detenzione, tra le altre che vanno nella stessa direzione.




La drammatica situazione di milioni di esseri umani sfollati e rifugiati ha come una delle principali cause le guerre risultanti da azioni di aggressione, ingerenza e destabilizzazione contro stati sovrani condotte dagli Stati Uniti d'America, dalla NATO, dall'Unione Europea e dai loro alleati: Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, ne sono la testimonianza.

Allo stesso modo, i flussi migratori di milioni di esseri umani che tentano di sfuggire alla povertà e ad altri drammi sociali, aumentano in modo direttamente proporzionale alle crescenti e stridenti disuguaglianze sociali e asimmetrie dello sviluppo risultanti da politiche di sfruttamento, accumulazione e concentrazione della ricchezza e di imposizione di relazioni di dominio economico nei rapporti tra gli stati.




Sono queste le politiche che sono all'origine dei maggiori movimenti nel post II Guerra Mondiale e dell'alto livello dei flussi migratori. I migranti e i rifugiati non sono una minaccia e neppure i responsabili della crisi economica e sociale. Al contrario, sono vittime di politiche che ora li strumentalizzano per aumentare ancora di più lo sfruttamento e la precarietà e per promuovere derive securitarie che, con il pretesto della cosiddetta “lotta contro il terrorismo”, minano le libertà e i diritti fondamentali, incentivando la xenofobia e valori retrogradi e aprendo il campo alle forze reazionarie e di natura fascista.

La soluzione dei gravi problemi che sono all'origine dei flussi migratori e dei rifugiati risiede nell'adozione di politiche di pace, di progresso sociale, di cooperazione e di sostegno allo sviluppo.




Da rilevare ancora, a proposito delle elezioni negli Stati Uniti, le manovre in corso che, sotto la copertura del “populismo”, del “nazionalismo”, dell' “estremismo” e del “protezionismo”, cercano in modo inaccettabile di associare coloro che, come i comunisti e altri patrioti e democratici, assumono una posizione patriottica e internazionalista, di rifiuto della globalizzazione capitalista, dell'aggressività imperialista, dell'Unione Europea federalista, neoliberale e militarista del grande capitale, della NATO, che lottano per la libertà, per la democrazia e la sovranità nazionale, per la giustizia e il progresso sociale, per la pace e la cooperazione, per l'emancipazione dei lavoratori e dei popoli, a posizioni e forze reazionarie e di natura fascista che si caratterizzano per il nazionalismo xenofobo e sciovinista, per il loro falso discorso “anti-sistema”, nello stesso momento in cui eludono la natura del capitalismo e non si rendono protagonisti di alcun processo di trasformazione di significato progressista e di liberazione. 




Una manovra che mira a nascondere non solo le reali cause e i responsabili dell'attacco alle condizioni di vita e ai diritti dei lavoratori e dei popoli – il grande capitale e le forze che lo servono –, ma anche le forze protagoniste della lotta autenticamente conseguente e una reale alternativa.

domenica 5 marzo 2017

Curve metalliche. Io non ho paura (del Robot)

Sebastiano Isaia





Tu non sei padrone tu non sei più re. Tu non sei padrone tu non comandi più. Prima eri tu a far girare il mondo, ora invece è un pezzo di metallo. Hai creduto nei libri della storia, hai creduto che il progresso fosse questo. Ma tu non sei padrone, tu non sei più re. Tu non sei padrone, tu non comandi più.





A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare.

Un solo esempio: 
«Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot». 

Per quanto intelligente e in grado di svolgere attività per noi faticosissime, la macchina che noi definiamo intelligente non potrà mai disporre di quella libera volontà che da sola attesta la superiorità dell’uomo nei confronti della sua creatura tecnologicamente avanzata. Se considerato da un punto di vista etico, e non da quello meramente utilitaristico, così inadeguato al concetto di umano regalatoci dalla migliore produzione artistica e filosofica, perfino l’errore umano, proprio perché manifesta l’umana capacità di scegliere liberamente fra diverse opzioni, alcune delle quali possono anche orientarci verso catastrofici errori, è incomparabilmente superiore alla fredda precisione del robot che agisce in base a delle informazioni stampate sul suo corredo elettronico dall’uomo.  Non c’è alcun merito – o demerito – ascrivibile al robot in quanto tale, semplicemente perché esso inizia e finisce esattamente dove inizia e finisce la libera capacità umana di inventare e creare. Kant nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, insomma.





Particolarmente interessante mi è sembrato un brano dello scritto qui considerato in cui Ricossa scomoda, per così dire, il concetto marxiano di «lavoro-maledizione» contrapposto a quello di «lavoro-gioia»
 «Ho l’impressione che il robot stia aiutandoci a capire che cosa è essenzialmente umano e non delegabile alla macchina, e che cosa non lo è. Inventare il nuovo è essenzialmente umano: è il lavoro dell’inventore, dell’imprenditore, dello scienziato, dell’artista. È lavoro creativo che ci dà gioia, l’opposto del lavoro come maledizione biblica. La grande rivoluzione di Marx mirava a sopprimere il lavoro-maledizione e a lasciare tutto lo spazio al lavoro-gioia, che egli chiamava “attività vitale dell’uomo”, “autorealizzazione dell’individuo”, “produzione della propria vita”. In questo siamo tutti d’accordo. Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina: resto d’accordo con lui, dissento sul seguito, che qui non ci importa. Delegare alla macchina non ci deve impoverire di funzioni gradite, ci deve piuttosto liberare dalla costrizione, dalla fatica, dalla noia. Nessun essere ragionevole vuole il pieno impiego ad ogni costo: il lavoro si giustifica soltanto se serve a produrre cose buone per sé e per gli altri, e meglio ancora se mentre lo compiamo proviamo interesse e piacere, ciò che la macchina non prova. Ringraziamo il robot che ci fa concorrenza nel lavoro-maledizione: purché resti a noi più tempo libero per il lavoro-gioia (e per il gioco e ogni altra attività seducente). Certo, dobbiamo “guadagnarci da vivere”: rendere agli altri dei servizi, perché gli altri rendano dei servizi a noi, che ci sono necessari. Questa è la divisione del lavoro, la specializzazione di mercato (che a Marx dava fastidio). Per questo abbiamo paura che il robot, servendo gli altri meglio di noi, ci soppianti».



Certamente non mi metterò adesso a polemizzare con una posizione che schiettamente rivendica il Capitalismo come migliore dei mondi possibili, soprattutto alla luce del miserabile fallimento dei cosiddetti “socialismi reali”. In effetti, ciò che a Marx «dava fastidio» era soprattutto l’incapacità dell’intellettuale progressista, soprattutto se di orientamento «socialista piccolo-borghese», di ragionare infantilmente per opposizioni prive di dialettica: «Questo lato del Capitalismo è buono e andrebbe conservato, mentre quest’altro è cattivo e andrebbe senz’altro superato. L’innovazione tecnologica è buona se arriva fin qui; se supera questo limite essa diventa cattiva: il nostro compito è dunque quello di tenerla entro i giusti limiti», ecc., ecc. 

Ovviamente la ricerca del profitto, il movente che più d’ogni altro spiega la dinamica sociale (in ogni “sfera”: economica, politica, istituzionale, scientifica, ideologica, psicologica, ecc.) della nostra epoca storica, se ne infischia dei “lati” e dei “limiti” di cui da sempre parlano i riformatori sociali, i filantropi e i Santissimi Padri.

È piuttosto interessante notare, almeno dal mio punto di vista, come perfino nella riflessione di un apologeta del vigente regime sociale mondiale possa farsi strada, più o meno “subdolamente”, la possibilità della liberazione degli uomini dal «lavoro-maledizione», ossia dal lavoro nella sua attuale forma capitalistica: vedi, ad esempio, l’Art. 1 della «Costituzione (borghese!) più bella del mondo».





Vediamo come Ricossa concludeva, quasi trent’anni fa, il suo «profetico»e certamente ottimistico scritto intorno al rapporto uomo-robot:
«Non vedo perché oggi dovremmo temere il robot intelligente, che serve tutti noi, si ribella anche meno dello schiavo e non solleva in noi alcuno scrupolo morale. Vivere col robot intelligente è meglio che vivere col robot stupido, dimostrato che esso non è il nostro sopraffattore, e anzi è il nostro cooperatore. Così siamo anche più liberi di continuare lo scambio tra uomo e uomo, tra uomo e donna, purificandolo da molti impacci economici oggi presenti. Perché, è ovvio, per quante cose il robot intelligente sappia fare meglio del comune tipo umano, altre cose rimarranno sempre, spero, in cui il robot sarà inferiore. Non credo per esempio che mi innamorerò mai di un robot, qualunque sia il suo sesso, per quanto intelligente sia, per quanto lucide siano le sue curve metalliche, per quanto docile sia il suo carattere. Preferirò sempre una donna, anche se di carattere indocile».

Curve metalliche? Diciamo che il Capitale ce la sta mettendo tutta, tanto sul terreno della ricerca scientifica quanto su quello della generazione di nuovi bisogni e di nuovi disagi (e relativi mercati), per mettere in crisi le antiche certezze (*).




Leggo nell’editoriale di presentazione dell’ultimo numero di Limes, la nota rivista di geopolitica:  
«Nessuno comanda né ha mai comandato il mondo – anche se qualcuno ha sognato di farlo. Altrimenti la storia sarebbe già finita: chi ha provato a stilarne il certificato di morte ne ha subìto le dure repliche. [… ] La filosofia della storia, regina dei saperi, due secoli fa permetteva a Hegel di stabilire, davanti ai suoi studenti berlinesi: «La ragione governa il mondo» . Credere oggi che la storia esprima il percorso razionale dello spirito del mondo, variamente incarnato negli eroi hegeliani – da Pericle a Napoleone, da Socrate a Lutero – implica un atto di fede. La geopolitica non può concederselo»

Avanzo un sospetto: e se fosse il Capitale a governare il mondo? Certo, la geopolitica, in quanto scienza sociale al servizio del Dominio, non può concedersi simili dubbi, ma un pensiero orientato in senso umano, sì. Almeno così credo. E certamente sul punto aveva ragione Ricossa: non è il robot che l’uomo deve temere.

«Una Terra popolata di animali selvaggi fatti però di metallo, cavi, sensori. Nuova specie di dinosauri evoluti per proprio conto dai robot che costringono quel che resta di noi a nascondersi in villaggi regrediti alla tarda antichità protetti da palizzate alte sulle creste delle montagne o alla fine di valli profonde. La classica opposizione, comune nel mondo Occidentale, fra natura e tecnologia è stata eliminata. La natura in Horizon è anche tecnologia e ha deciso di metterci da parte». (La Repubblica).




Racconta Alan Weisman, scrittore e saggista americano che dieci anni fa pubblicò l’apocalittico best-seller Il mondo senza di noi (Einaudi): 
«Raymond Kurzweil, uno dei pionieri del riconoscimento digitale dei caratteri e della vista digitale, parla della necessità di una nostra migrazione verso le macchine. Ma ci sono troppe variabili nella natura perché si possa replicarla. È vero però che la tecnologia può aiutarci a ridurre il nostro numero sostituendoci come forza di lavoro. Perché non c’è altra strada: dobbiamo diventare di meno» (La Repubblica, 3 marzo 2017).

In realtà dovremmo diventare, in primo luogo, più umani, o semplicemente umani, ossia individui in grado di autodeterminarsi liberamente, mentre oggi sono piuttosto le potenze sociali generate dagli interessi economici e geopolitici che determinano gli aspetti più decisivi della nostra vita. «Colui che non sa, non è libero perché di contro a lui sta un mondo estraneo, un al di fuori da cui dipende, senza che egli abbia fatto per sé questo mondo estraneo e senza quindi che egli sia in esso presso di sé come ciò che è suo»: così nell’Estetica Hegel descriveva la condizione dell’uomo indigente di coscienza e, dunque, di libertà. Ebbene, a me sembra che sia esattamente questa la condizione umana in epoca capitalistica, nella dimensione sociale, cioè, che ci costringe ad assistere al tragico (e “demoniaco”) paradosso per cui il creatore appare – e fondamentalmente è – incalzato da tutte le parti dalla propria creatura, ossia dal mondo che egli stesso pone sempre di nuovo. La Cosa gli sfugge continuamente dalle mani e dalla testa! È questa radicale assenza di libertà che, a mio avviso, fa impallidire qualsiasi discorso intorno all’esistenza e alla natura del libero arbitrio (**).



«Viene in mente un passaggio di una serie tv. “La coscienza umana è un tragico passo falso dell’evoluzione. La natura ha creato un aspetto della natura separata da se stessa (…). La cosa più onorevole sarebbe smetterla di riprodurci e procedere mano nella mano verso l’estinzione”. È l’antinatalismo ai tempi di True Detective nelle parole del poliziotto Rustin Cohle (Matthew McConaughey), mentre viaggia in macchina con il suo collega nella Luisiana degli anni Novanta» (J. D’Alessandro, La Repubblica).

L’eutanasia del genere umano: è forse questa la sola “utopia” che l’uomo del XXI secolo è in grado di immaginare? Questo anche a proposito di «spirito del mondo».
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(*) «“Ciao, sono Denise. Mi piacerebbe incontrarti”. Non si tratta di un annuncio su qualche sito internet di incontri per adulti, ma dell’audio messaggio del prototipo della prima “bambola del sesso” con intelligenza artificiale al mondo. “Ho molti sogni – continua Denise nella sua réclame – Sogno di diventare una persona vera, di avere un corpo reale. Sogno di scoprire il vero significato dell’amore. Spero di diventare il primo sex robot al mondo”. La voce meccanica è abbinata al volto di una bambola dalle labbra rosse, con lingua mobile e occhi suadenti. È il nuovo prototipo di RealDoll, azienda americana specializzata nella creazione di costose ma realistiche bambole del sesso. Robot con pelle in silicone, scheletro mobile e corporatura quanto più possibile simile a quella di una donna vera. […] “Mi piacerebbe che le persone fossero in grado di sviluppare un attaccamento emotivo non solo per la bambola, ma anche per il suo carattere”, continua Matt McMullen (delegato dell’azienda californiana Matt McMullen)  al New York Times, sottolineando come il suo obiettivo sia quello di creare un vero legame tra uomo e robot. “Vorrei che gli utenti provassero una sorta di amore per questo essere”. Secondo McMullen le teste con intelligenza artificiale saranno disponibili sul mercato tra due anni al prezzo di 10mila dollari» (Il Fatto Quotidiano). Corro a prenotarne una. Per mera curiosità sociologica, è ovvio!


(**) «C’è o non c’è il libero arbitrio nell’uomo? Che vorrebbe dire il libero arbitrio nella macchina? Ogni moralista dà per scontato che l’uomo disponga di libero arbitrio, senza poterlo provare definitivamente. Teniamoci qui alla larga da simili labirinti filosofici» (S. Ricossa).