Che genere di film gireranno in futuro i registi di Hollywood sul Covid-19 che attualmente ci affligge? Horror o commedie? Ma soprattutto, chi saranno i cattivi? Naturalmente non possiamo saperlo. Molto dipenderà dagli sviluppi che in futuro vi saranno nella nostra società, allo stato attuale imprevedibili.
Per dirla in parole molto povere e fin troppo banali: chi pagherà i registi? Ma soprattutto, i film verranno ancora girati a Hollywood?
Basta osservare cosa è capitato ai nativi americani e come è stato raccontato il loro genocidio, per intuire cosa voglio dire. In bocca al lupo.
Per
secoli è stata celebrata come se fosse una storia di successo per
l’intero pianeta. Ancora nel 1992, in occasione del
cinquecentenario, in tutto il mondo si sono organizzate celebrazioni
solenni. Il 12 ottobre rimane conosciuto nel mondo come il Columbus
Day, ricorrenza che negli Usa è festa nazionale. Tra le tante pagine
oscure della storia poche hanno goduto di una falsificazione tanto
sfacciata quanto il genocidio dei nativi americani, dove i crimini
commessi sono stati non solo rimossi ma anzi invertiti di senso e
glorificati. Solo da pochi anni, a oltre mezzo millennio di distanza,
si fa luce sulla vera storia della conquista delle americhe.
La
pagina più nera nella storia della civiltà occidentale.
È
il 1519 quando il conquistadores spagnolo Hernan Cortés parte da
Cuba, dove Colombo aveva costituito i primi insediamenti europei,
alla volta del Messico con l’obiettivo di sottomettere l’antica
civiltà azteca. Gli avventurieri spagnoli sono numericamente
inferiori ma hanno dalla loro due assi nella manica: le armi in
acciaio, che gli permettono di surclassare militarmente i rivali, e
le malattie infettive.
I conquistatori spagnoli sono portatori di
virus mai esistiti nelle americhe e verso i quali i nativi non hanno
anticorpi. Il contatto con il vaiolo e la peste stermina gran parte
degli aztechi, che sono costretti a capitolare in pochi mesi. La
terza arma dei conquistatori è la crudeltà. Questa viene
utilizzata a piene mani nella più difficile guerra contro gli inca,
autori di una resistenza valorosa sotto gli ordini di Tupac Amaru,
che verrà spezzata solo dopo decine di assedi ed esecuzioni di
massa.
Nella seconda metà del XVI secolo gran parte dell’America
del centro-sud è sotto il giogo degli spagnoli. Al posto delle loro
civiltà millenarie i conquistatori creano latifondi e miniere di oro
e argento, dove far lavorare in condizione di schiavitù i nativi
rimasti in vita.
All’inizio
del Cinquecento, mentre gli spagnoli dilagano nella parte centrale e
meridionale del continente, francesi ed inglesi iniziano a esplorare
le coste atlantiche della sua parte settentrionale.
La
situazione nelle terre settentrionali era molto differente rispetto
al sud delle grandi civiltà mesoamericane. A nord del fiume Rio
Bravo la popolazione indigena non superava i 12 milioni di persone,
riunite in tribù indipendenti che vivevano secondo i precetti di
dignità, fierezza e simbiosi con la terra. I primi coloni si
stabiliscono in Florida, New Messico e in Qebec: gli indiani non li
trattano con ostilità e lasciano loro prendere i terreni. Non hanno
il concetto di proprietà privata e secondo il loro modo di vedere il
mondo la terra appartiene a tutti gli animali e a tutti gli uomini,
inclusi quei bianchi arrivati via mare. Ma ben presto scoprono che
gli europei la pensano diversamente e non vogliono solo stabilirsi in
qualche terra, vogliono possederle tutte quante. Gli inglesi partono
dalla costa est spingendo progressivamente gli indigeni verso ovest.
Alcune
tribù non si ribellano apertamente, continuano a credere che il nord
sia abbastanza grande per tutti e fare la guerra per il possesso non
è nella loro indole, tuttavia non accettano neppure di essere
colonizzati, non è nella loro indole neppure diventare schiavi. Si
sentono, e sono, uomini liberi. Altre tribù invece capiscono da
subito che gli uomini bianchi sono assetati di dominio e ricchezze, e
decidono di provare a fermarli prima che sia troppo tardi.
Le tribù
più numerose, come i Sioux e gli Apache, decidono di opporsi con le
armi. Per oltre tre secoli la conquista del nord continua a dare
problemi ai coloni euro-americani, essi riescono ad avanzare verso
ovest ma la resistenza dei nativi è indomita, inoltre il loro
rifiuto categorico di lavorare al soldo dei bianchi, preferendo la
morte alla schiavitù, rende l’occupazione molto meno fruttuosa di
quella degli spagnoli nel sud. Verso metà del 1800 il presidente
americano Grant ordina la soluzione finale, dando carta bianca ai
generali. Il 26 dicembre 1862 si tiene l’esecuzione di massa di 38
capi Sioux, i cui corpi rimangono esposti per giorni come monito per
i nativi. Pochi mesi dopo riescono a catturare il vecchio capo Apache
Mangas Coloradas, lo torturano prima di decapitarlo e poi inviano il
teschio al governo, che lo espone in un museo. Nel ’64 ecco il
massacro di Sand Creek, i coloni conquistano il territorio Apache, i
nativi vorrebbero arrendersi e trattare la resa, si avvicinano
sventolando bandiere bianche. Ma hanno osato resistere e questo non è
accettabile per i coloni, tutti i 200 prigionieri vengono fucilati
mentre gli scalpi dei capi vengono amputati ed usati come ornamenti.
Lo
sterminio dei nativi del nord America in questi decenni è tanto più
raccapricciante perché portato avanti in modo scientifico. Nel 1800,
gli Usa sono ormai una nazione e lo sterminio viene pianificato con
agghiacciante freddezza. Gli indigeni che si ribellano vengono
massacrati, mentre quelli risparmiati vengono rinchiusi nei campi di
concentramento, le cosiddette “riserve indiane”. Mentre il
Parlamento americano crea leggi apposite per autorizzare la pulizia
etnica, come l’Indian Removal Act col quale nel 1830 si autorizzava
la deportazione dei nativi per ragioni di sicurezza nazionale.
Nel
1890 la “conquista del selvaggio west” come la retorica Usa ama
ancora oggi chiamare questo genocidio, può dirsi conclusa. In tutto
il nord America rimanevano in vita appena 250mila nativi. Erano 12
milioni quattro secoli prima.
Nelle
americhe, sia del nord che del sud, tra il 1492 e il 1890 sono stati
sterminati un numero compreso i 70 e il 115 milioni di nativi. Di
gran lunga il più lungo e sanguinoso genocidio mai
commesso
nella storia umana.
Un
genocidio che, esattamente come quello nazista, si è alimentato
innanzitutto di pregiudizi culturali e religiosi, verso il quale
nessuna delle istituzioni dell’epoca può essere considerata
innocente, tanto meno la chiesa cattolica. Alla guida dei
conquistadores spagnoli vi erano infatti vescovi e cardinali, che si
spinsero fino a benedire le spade con le quali si fecero i massacri.
I nativi venivano considerati esseri adoratori di divinità
diaboliche e secondo la chiesa era legittimo sottometterli e
costringerli alla conversione con ogni mezzo.
Con il tempo poi alle
giustificazioni religiose se ne sommarono altre che si pretendevano
scientifiche, come le teorie sull’evoluzionismo culturale che
legittimavano la sottomissione dei nativi, chiamandola
“civilizzazione”. Mentre la nascente industria culturale, prima
con i romanzi western e poi con i film contribuì a radicare
l’immagine dei “pellerossa” barbari e violenti per natura, ai
quali si opponeva l’epopea degli eroici bianchi alla scoperta del
selvaggio West. Una falsificazione storica.
Oggi
le vicende dei nativi americani possono sembrare racconti lontani nel
tempo, ma non è così. Nonostante il massacro sono molti i nativi
che vivono ancora nelle americhe. Nel centro e nel sud del continente
ne rimangono decine di milioni che, dopo secoli di sfruttamento e
privazioni in alcuni paesi stanno conoscendo finalmente il riscatto
sociale.
Le rivoluzioni bolivariane nate nel continente sul finire
degli anni ’90, hanno portato in molti paesi alla nascita di
governi più sensibili ai loro diritti, un processo culminato
nell’elezione di Evo Morales a presidente della Bolivia nel 1998,
il primo indios americano al potere dopo oltre quattro secoli.
Non
si può dire lo stesso dei nativi rimasti in nord America. Nonostante
vi sia stato un lento riconoscimento dei crimini commessi, culminato
nelle scuse ufficiali presentate dal senato statunitense nel 2005, i
nativi continuano a vivere in condizioni di drammatica esclusione
sociale. Tra i giovani indigeni che vivono nelle riserve il tasso di
suicidi è ancora oggi 150 volte superiore rispetto a quello dei
coetanei bianchi, mentre l’alcolismo e la disoccupazione sono
piaghe che colpiscono un nativo su cinque.
Così
come non è ancora cessata neanche la presunzione da parte del
governo Usa di poter disporre dei territori nativi come se fossero i
propri. Lo dimostra il recente caso del Dakota Access Pipeline, il
grande oleodotto in costruzione nelle zone sacre della nazione Sioux
in Nord Dakota. I nativi hanno protestato per mesi, ottenendo in
cambio ancora una volta una spietata repressione con cariche e
arresti da parte della polizia. Un secolo fa per i bianchi la vita
dei nativi non valeva più di quella degli animali, oggi non è più
così, ma i loro diritti valgono comunque meno di un barile di
petrolio.