uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

giovedì 27 ottobre 2016

La migrazione come rivolta contro il capitale


 Prabhat Panaik
 facciamosinistra





Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano.  

Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.

 
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera. Nei tempi moderni si possono distinguere tre grandi ondate migratorie, ognuna delle quali dettata dalle necessità del capitale. 
 

 
La prima è stata il trasporto di milioni di persone ridotte in schiavitù dall’Africa alle Americhe, per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni al fine di produrre le materie prime da esportare così da far fronte alle richieste del capitale metropolitano. Dal momento che le vicende riguardanti la tratta degli schiavi sono presumibilmente ben note, non discuterò ulteriormente questa particolare ondata migratoria.
Una volta terminato il periodo di fioritura del commercio degli schiavi, ci fu un nuovo tipo di migrazione. Nel corso di tutto il XIX secolo e dell’inizio del XX, il capitale metropolitano aveva imposto un processo di “deindustrializzazione” al terzo mondo, non solo alle colonie tropicali come l’India ma anche alle semi-colonie e dipendenze come la Cina

Allo stesso tempo aveva “drenato” una parte del surplus economico di queste società attraverso svariati mezzi, dalla pura e semplice appropriazione di merci senza alcun quid pro quo, ricorrendo alle entrate fiscali delle colonie amministrate direttamente, all’imposizione dello scambio ineguale nella valutazione dei prodotti del terzo mondo, sino all’estrazione di profitti monopolistici nel commercio. Le popolazioni delle economie del terzo mondo impoverite tramite tali meccanismi erano state forzate, viceversa, a restare dove si trovavano, intrappolate all’interno dei propri universi.



Tuttavia nel XIX secolo, ben presto, si svilupparono due flussi migratori per volontà del capitale metropolitano. Uno proveniente dalle regioni tropicali del mondo e diretto verso altre regioni tropicali, mentre l’altro partiva da quelle temperate verso altre dal clima analogo, in particolare dall’Europa verso le aree temperate di insediamento bianco quali Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Ai migranti provenienti dalle regioni tropicali non era concesso entrare liberamente in quelle temperate (di fatto non lo è ancora). Essi venivano trasportati come coolies o lavoratori vincolati (indentured labourers) dai loro habitat nei paesi tropicali o sub-tropicali, come India e Cina, là dove il capitale metropolitano li voleva, per lavorare nelle miniere e piantagioni in altre terre tropicali. Le loro destinazioni di lavoro includevano le Indie Occidentali, le Fiji, Ceylon, l’America Latina e la California (dove i lavoratori cinesi venivano impiegati nell’estrazione dell’oro).

   
La migrazione da regioni temperate ad altre zone temperate è stata parte del processo di diffusione del capitalismo industriale dalle metropoli europee a queste nuove terre. Si è trattato di una migrazione ad alto reddito, nel senso che i migranti provenivano da aree in cui esso era relativamente alto, per muoversi verso altre nelle quali avrebbero goduto di un alto livello di sussistenza. In contrasto, l’altra tipologia di migrazione, da regioni tropicali ad altre sempre tropicali, non ha avuto niente a che fare con una qualsivoglia diffusione del capitalismo industriale; ed è stata una migrazione a basso reddito.

 

La ragione di tale differenza, il fatto che la migrazione fra regioni temperate fosse generalmente ad alto reddito, mentre quella tra aree tropicali invece a basso reddito, è stata spesso attribuita alla maggiore produttività del lavoro dei migranti europei rispetto a quelli indiani o cinesi. Si tratta di una visione erronea. I redditi dei lavoratori sotto il capitalismo sono raramente determinati dal livello di produttività del lavoro di per sé; al contrario, ciò che conta è la dimensione relativa dell’esercito di riserva del lavoro: anche con rapidi incrementi nella produttività del lavoro, i salari reali dei lavoratori possono risultare stagnanti a un livello di sussistenza, se la riserva di lavoro è abbastanza grande. 

Inoltre, la produttività del lavoro da prendere in considerazione, nel contesto di una simile argomentazione, non è quella dei lavoratori impiegati nell’industria capitalista, bensì di quelli al di fuori di essa, dal momento che si tratta di coloro con più probabilità di migrare; e non vi è ragione di credere che la produttività del lavoro degli ultimi sia stata più alta di quella dei loro omologhi nei tropici, se si ignora l’impatto del “drenaggio” e della “deindustrializzazione” inflitti alle terre tropicali.

La vera ragione alla base della differenza di reddito dei due flussi migratori risiedeva altrove, nel fatto che nelle regioni temperate in cui migravano, gli europei potevano semplicemente soppiantare gli abitanti locali (come gli amerindi) e impossessarsi delle loro terre per la coltivazione. Tutto ciò non solo garantiva a questi migranti alti redditi, ma teneva alti anche i salari nei paesi d’origine dai quali si erano trasferiti, aumentando quello che gli economisti definiscono “salario di riserva”

Nessuno o nessuna, ovviamente, avrebbe lavorato per un tozzo di pane in Europa, avendo la possibilità di migrare verso regioni temperate di insediamento all’estero, guadagnando un reddito molto più alto con le terre prese agli amerindi; era una simile prospettiva a mantenere alti alti i salari in Europa.


La migrazione fra regioni tropicali era al contrario  a basso reddito, dal momento che i migranti provenivano da popolazioni impoverite dal “drenaggio” e dalla “deindustrializzazione”, oltre a non poter contare sulla prospettiva di stabilirsi come agricoltori su terre strappate agli abitanti originari.
W. Arthur Lewis, il noto economista originario delle Indie Occidentali, ha stimato che ciascuno di questi flussi migratori del XIX secolo è stato dell’ordine di 50 milioni di persone; poco importa che si accetti un simile calcolo, i numeri coinvolti sono senza alcun dubbio enormi. Utsa Patnaik, stima che quasi la metà del numero rappresentante l’incremento di popolazione annuale in Inghilterra, tra il 1815 e il 1910, ha migrato verso il “nuovo mondo”, nel quale il capitalismo industriale si stava diffondendo dall’Europa.

Il terzo grande flusso migratorio si è verificato nel periodo del secondo dopoguerra. Un periodo, la cui estensione va dai primi anni cinquanta ai primi Settanta, che è stato definito da alcuni “l’epoca d’oro del capitalismo”, in quanto testimone di elevati tassi di crescita del prodotto interno lordo nelle economie metropolitane, in particolare quelle europee, a causa del boom post-ricostruzione e dell’intervento dello stato nella “gestione della domanda”. Anche se i tassi di crescita della produttività del lavoro erano anch’essi alti, non lo erano quanto quelli del PIL, il che significava un aumento della richiesta di mano d’opera. 


In molti paesi europei, ciò nonostante, la popolazione cresceva con difficoltà; l’aumento della domanda di mano d’opera, pertanto, venne soddisfatta attraverso l’importazione di lavoratori dalle regioni tropicali. 
Non vi era ancora la libera migrazione del lavoro dai tropici alle metropoli ma essa, sulla base di numeri specifici, era permessa al fine di andare incontro alla crescente domanda di mano d’opera.

I migranti, turchi in Germania, algerini o di altre ex-colonie francesi in Francia, asiatici del sud o delle Indie Occidentali in Gran Bretagna, prendevano i lavori a bassa retribuzione, liberando i lavoratori locali precedentemente impiegati in tali attività, i quali potevano ora muoversi verso l’alto nella gerarchia del lavoro. Il capitalismo nel periodo post-bellico, in breve, ha assistito all’enorme crescita di un sottoproletariato di lavoratori migranti stanziati nella metropoli.

Ma col collasso del boom post-bellico, o della cosiddetta “epoca d’oro, i lavoratori migranti e i loro discendenti hanno trovato una rappresentanza sproporzionata nelle file dei disoccupati e dei sottooccupati. Con l’inizio della crisi capitalista nel secolo corrente, la loro posizione è divenuta sempre più precaria. Le conseguenze sociali di tale fenomeno sono state ampiamente discusse e non è necessario ritornare a soffermarcisi.

Il punto, tuttavia, è il seguente: a parte le guerre e le aggressioni che il capitalismo metropolitano scatena ovunque, anche il suo “normale” modus operandi comporta l’espropriazione e l’impoverimento delle popolazioni dall’altra parte del mondo. L’obiettivo consiste nel tenerli intrappolati nei loro universi, quale riserva di lavoro situata a distanza, alla quale attingere, di volta in volta, consentendo migrazioni accuratamente controllate verso regioni nelle quali è richiesta mano d’opera.




Il suo assunto è che in tal modo essi possono rimanere intrappolati nei loro universi senza proferire la minima lamentela, quale che sia la loro condizione. Ed è naturalmente sulla base di un simile assunto che scatena le guerre imperialiste sulle popolazioni del terzo mondo. il modus operandi del capitalismo metropolitano esige l’adempimento di tale presupposto.

La cosiddetta “crisi di rifugiati” sta dimostrando che questo presupposto non può più essere soddisfatto. Ancor più significativo, il capitalismo metropolitano non ha alcuna risposta al problema dei “rifugiati alle porte”. Non può consentire loro di entrare; e non può trovare soluzioni ai loro problemi nei paesi d’origine. Entrambi potrebbero essere percorsi umani, ma nel capitalismo non è questione di umanità. Ed è un fatto che sta arrivando per perseguitarlo.





Prabhat Patnaik è un economista marxista indiano.

Link all’articolo originale in inglese MRZine, originariamente pubblicato in People’s Democracy
Fonte: Traduzioni Marxiste 








lunedì 24 ottobre 2016

Scenari di guerra IV


Il primo conflitto globale 
Pierluigi Fagan 
Sinistrainrete






Nominare cose e fenomeni è un esercizio delicato. Da come nomineremo un fatto ne determineremo la percezione e la categorizzazione con conseguenze seconde su gli atteggiamenti ed i giudizi che prenderemo nei suoi confronti. La ricerca del nome da dare alla situazione internazionale nella quale siamo capitati, va avanti da un po’ di tempo. Si va dalla nuova guerra fredda 2.0, alla guerra ibrida, alla Terza guerra mondiale portata avanti a pezzi ma sempre passibile di precipitare in un unico vortice fuori controllo dalle conseguenze terrificanti. Le prime parti di queste definizioni però sembrano concordare sul fatto che siamo in guerra. E’ invece proprio questo fatto a dover esser discusso.


Tutte le definizioni summenzionate ed in particolare la seconda che con “ibrida” tenta di relativizzare i significati ben precisi del termine “guerra”, vertono su un concetto di cui poi si cerca di modificare il significato. In questi casi, dove si tenti ripetutamente di forzare un significato dato per allargarne lo spettro, si fa prima a cercare un altro termine, soprattutto se l’esercizio viene condotto sul termine “guerra” il cui significato è inequivoco da qualche migliaia di anni.

Guerra è decisamente ed apertamente confronto armato tra due o più contendenti. Al momento, abbiamo effettivamente una serie di guerre nel pianeta ma quella che potrebbe degenerare in una guerra mondiale è solo una, la Siria mentre in Ucraina c’è uno scontro locale ad intermittente e bassa intensità. In Siria, l’ultimo strato della cipolla conflittuale vede Stati Uniti e Russia con la Cina interessata ma poco partecipe al momento ma vi sono poi molti altri strati che vedono Turchia, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Qatar, indirettamente Yemen ed Israele che avvolgono curdi frazionati in cerca della da sempre agognata statualità, l’improbabile Stato Islamico e una variegata composizione di forze anti Assad, oltre al legittimo esercito siriano. 

E’ sempre possibile che i due maggiori contendenti, quelli che porterebbero il conflitto locale a diventare mondiale, saltino gli intermedi e decidano per il faccia a faccia ma è poco probabile. Primo perché hanno molti attori terzi da muovere prima di impegnarsi nel confronto diretto, secondo perché sul quadrante hanno forze aeree e navali ma non di terra cosa che renderebbe lo scontro inconcludente, terzo perché comunque, sono impegnate in un confronto su un territorio terzo la cui terzietà si può mantenere senza per questo giungere a lanciarsi le più di 7000 testate nucleari in testa, l’uno su quella dell’altro. 





Eppure, c’è qualcosa unanimemente riconosciuto come allarmante, qualcosa molto più grande del pur tragico conflitto siriano. Sul piano militare, per il momento, di schieramento e non ancora di aperto conflitto, la lista dei fatti si va pericolosamente allungando. Da Nord a Sud e poi da Ovest ad Est abbiamo l’ipotesi che la Finlandia stia pensando di rivedere la sua storica posizione di neutralità per entrare in orbita NATO, ci sono gli schieramenti di truppe NATO nei paesi baltici ed in Polonia, non tanto da paventare una invasione della Russia ma quel tanto da far scattare l’articolo 5 dell’Alleanza nel caso fossero i russi ad invadere, ci sono i missili schierati in Romania, c’è sempre la tensione ucraina, Ucraina che con la Georgia potrebbe sempre entrare nella NATO, c’è stato il fallito colpo di stato in Turchia, il ginepraio siro-iracheno, il sempre possibile reintegro dell’Iran nella lista dei conflitti possibili, la tensione nel Mare cinese meridionale, le grandi manovre della flotta americana nel Pacifico e l’intensificazione di molte collaborazioni militari americane con l’Australia, il Vietnam, la Corea del Sud mentre in Giappone, da un po’ di tempo, va avanti il ripensamento progressivo della scelta di disarmo imposta dalla Costituzione post bellica. 

Quello citato è in pratica un cordone che gli Stati Uniti stanno stendendo intorno all’asse russo-cinese. Al momento, questo cordone serve per mettere in difficoltà l’espansione cinese con i quali però gli USA hanno forti rapporti di interdipendenza mentre con la Russia l’obiettivo è far fallire la sua attuale amministrazione, il regime change. Inoltre, l’obiettivo secondo è quello di isolare il continuum russo-asiatico dall’Europa affinché non si saldi il temuto sistema euroasiatico.



Non c’è solo il piano militare. Ci sono continui attacchi informatici tra Cina – Stati Uniti – Russia. Alcuni ci sono noti ma c’è da pensare che molti vengano tenuti ancora al riparo dalla pubblicità presso le rispettive opinioni pubbliche. Probabilmente ci sono anche reciproche attività spionistiche in intensificazione. Ci sono attività di pressione economica come le sanzioni comminate ai russi, le minacce di esclusione dai circuiti bancari internazionali come il SWIFT, il crollo del prezzo del petrolio, attacchi alle valute, attacchi alla stabilità dei mercati borsistici come avvenuto in Cina qualche mese fa. C’è poi una gigantesca guerra informativa che ha il fine di mobilitare le rispettive opinioni pubbliche che, piano-piano, si stanno accorgendo di avere un nemico che appena qualche anno fa era impensato come tale. Generali e think tank, analisti e commentatori stanno indossando l’elmetto e moschetto già da tempo, o di qua o di là, polarizzarsi è necessario. Tra un po’, i non allineati saranno -come di norma-, ritenuti ignavi, vigliacchi, pavidi. 


Il tutto avviene in un mondo, inteso nel senso più ampio, in cui l’economia ristagna e sembra ristagnerà a lungo. La globalizzazione comincia la sua parabola discendente, si parla apertamente di ripresa del protezionismo, il commercio estero segna il terzo anno di contrazione dentro una crescita mondiale sempre più anemica la cui percentuale media gli indici ancora ben positivi degli asiatici con quelli degli zero-virgola dei mercati più maturi, falliscono i grandi sea-carrier. La finanza cresce di volume ormai senza limiti possibili e disordina sempre più l’economia ristagnante creando l’inedito fenomeno dei vortici nello stagno. 





L’indebitamento che noi ossessionati dalla Germania leggiamo soprattutto come pubblico ma la cui dimensione privata, sul piano globale, si fa ogni giorno più rilevante, cresce senza sosta e senza ormai la più pallida possibilità di esser onorato. La fragilità dell’intermediario bancario, dopo gli armageddon delle banche investors (Lehman Bro) si manifesta addirittura nel cuore di un gigante retail come Deutsche bank, oltretutto di un paese ritenuto sano, ricco e consistente come la Germania. Gli squilibri dello sviluppo, le guerre ed i conflitti a cui l’inedito islamismo armato manovrato dai petrolieri wahhabiti, l’erratico ed acefalo procedere della mano invisibile globale, le sempre più numeroso deficienze climatiche, le vistose asimmetrie demografiche, accendono potenti treni migratori che agitano vieppiù lo stagno. 

Per le questioni ambientali basta la citazione stante che i loro tempi medio-lunghi ci danno la fallace impressione che le urgenze siano sempre dilazionabili, rendendole così sempre più potenzialmente drammatiche ed irrisolvibili. Sul piano culturale sembra che ci si dia la triste alternativa tra la sociologia della suburra dei social network, Zizek che rivaluta la fenomenologia di Kim Kardashian e l’esasperato tecnicismo che ci aiuta a fare meglio cose sempre più insulse ed inadeguate ai tempi complessi che ci è toccato in sorte di vivere. Idee poche, energie nulle, confusione tanta. Del resto, in Occidente ma più nello specifico noi europei ed i giapponesi, invecchiamo, viviamo sempre più a lungo (per cui dobbiamo lavorare sempre più a lungo, stante che di lavoro ce ne è sempre meno) e facciamo sempre meno figli. Quindi?





Quindi siamo entrati nel primo conflitto globale. Globale per estensione ed intensione. Per estensione perché non è più l’Europa il teatro del conflitto ma il mondo intero (oltre all’Eurasia ed la sempre instabile Medio Oriente, c’è competizione in Africa e Sud America), per intensione perché non è più solo il piano militare ma anche quello cibernetico, economico, finanziario, demografico, culturale, religioso, politico ed ambientale a veicolare frizioni, attriti, sortite ed attacchi, capovolgimenti ed improvvise riconfigurazioni sistemiche (Brexit), paralisi e dinamiche atipiche fuori controllo. Conflitto perché la categoria sociologica del conflitto è più ampia e comprensiva di quella strettamente polemologica della guerra anche intendendo questa nel nuovo senso ipermoderno e quindi non tradizionale. Conflitto include vari tipi di guerre ma anche molto altro. Primo perché è la prima volta che registriamo un fenomeno del genere.




Questa “prima volta” spiega anche perché falliscono i tentativi di nominare una cosa inedita usando categorie sedimentate nella storia precedente. Questa “prima volta” consegue il nuovo stato del mondo ovvero 7,5 miliardi di individui prossimi 10 miliardi, cresciuti di quattro volte in un secolo, di 7-10 volte in un secolo e mezzo o poco più, sempre più interconnessi ed interdipendenti, ormai tutti alle prese con le ambizioni di vita spinte dal modo economico moderno quale ordinatore unico per tutte le partizioni politiche del pianeta, partizioni (cioè Stati) che erano cinquanta appena sessanta anni fa ed oggi sono più di duecento e crescenti nonostante si vaticini la fine dello Stato da decenni. 


Dentro questo quadro tellurico e nuvoloso, la potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, viziata dalla recente condizione di unicità a sua volta derivata da un lungo condominio con una forza che le resisteva (Unione sovietica) ma lasciandole ampio spazio di potere su porzioni molto vaste di mondo ed una macedonia di non allineati sottosviluppati, è l’agente che più ha più da perdere da praticamente ogni possibile previsione si possa credibilmente e razionalmente fare su cosa sarà il mondo tra dieci, venti, trenta anni.

Gli USA non possono perdere l’essenziale dominio sull’Europa perché è questa l’estrema propaggine orientale del sistema occidentale di cui loro sono il centro sistemico e perché l’Europa è il loro pied-à-terre per evitare la tragedia che più di un secolo di riflessione geopolitica di marca anglosassone ha paventato sotto ogni profilo ed angolo d’analisi: il formarsi di un macrosistema euro-asiatico. Il sistema euroasiatico, il 70% del pianeta interrelato, farebbe degli Stati Uniti una periferia ed in periferia si vive male, con poca libertà e limitata speranza. Quindi gli USA faranno di tutto, fino all’estrema volontà mossa dalla più profonda spinta imperativa ontologia, affinché non si saldi alcun sistema tra Europa – Russia – Cina. 



George F. Kennan, uno dei massimi strateghi americani della guerra fredda, alla fine degli anni ’40 commentava

“Possediamo circa il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione … . In questo contesto, non possiamo che essere oggetto d’invidia e risentimento. Il nostro vero compito nell’immediato futuro è individuare un modello di relazioni che ci permetta di conservare questa posizione di disparità”. 

Oggi, gli americani sono solo il 4,4% della popolazione mondiale e la loro percentuale di Pil è il 24% e scende costantemente di anno in anno. C’è un limite a questa discesa, un limite oltre il quale l’intero sistema americano e parliamo di economia ma anche di sociologia, cultura, contratto sociale, tradizione storica, mentalità, eterogeneità etnica e piramide delle classi con finto ascensore per elevare la speranza e sopportare la sudditanza, si disintegra. Quel limite non deve esser raggiunto per nessun motivo, costi quel che costi, sapendo che a loro, al riparo tra due oceani, in una terra che dall’agricoltura all’energia ha ampi margini di autosufficienza, costerà sempre meno che a noi europei. I due occidenti si trovano così e per la prima volta, in conflitto di interessi.


Queste le ragioni del primo confitto globale che sarà lungo, aspro, cattivo, confuso e disordinante ma solo nella migliore delle ipotesi. Altrimenti sarà breve il che però non è una bella ipotesi per ragioni che si possono facilmente intuire. 



Questa quella che Mao Zedong chiamava la “contraddizione principale”. La pseudo-democrazia occidentale, il neoliberismo, l’euro, Renzi, il PD, la Raggi, il battesimo del figlio di Vendola, sono solo strati interni. Pensare globale per agire locale fu l’imput distillato dal movimento alter-globalista. La sinistra occidentale oggi è difficile dire se è meno capace di agire nel locale o di pensare globale e forse l’una cosa dipende dall’altra.












mercoledì 19 ottobre 2016

Scenari di guerra III


La Siria, la Russia e l’elefante nella stanza: 
la bolla di Wall Street






La tensione tra Washington e Mosca assume, giorno dopo giorno, le caratteristiche di un inquietante crescendo: da ambo le parti, c’è l’apparente determinazione a difendere le rispettive posizioni sul dossier siriano fino alle estreme conseguenze. Di recente abbiamo analizzato la natura dell’attuale sistema internazionale, dove il declinante angloamericano è tentato dall’eliminare gli sfidanti emergenti finché ha i mezzi per farlo. È tempo di indagare perché Washington sente di avere poco tempo a disposizione e freme per la guerra: lo scoppio della bolla speculativa di Wall Street che pende sull’establishment atlantico come una spada di Damocle.






Un inquietante crescendo di tensione

L’Occidente, ed in particolare l’Europa, è anestetizzato: le opinioni pubbliche sono troppo assorbite da una molteplicità di crisi concomitanti per metabolizzarne un’altra e le classi dirigenti troppo succubi ai poteri atlantici per immaginare anche soltanto una reazione.

Così, nel tardo 2016, quando i rischi di un conflitto tra la Russia e la NATO sono maggiori che nel momento più buio della Guerra Fredda, nessun partito si mobilita, nessuna piazza si riempe, nessun appello è lanciato: è un sistema, quello euro-atlantico, che ha sopito qualsiasi coscienza e soffocato qualsiasi voce fuori dal coro, riuscendo ad accompagnare i popoli europei, mano nella mano, ad un passo dal precipizio. L’operazione è un capolavoro di manipolazione di massa: come trascinare una società verso la guerra senza che se accorga e riuscendo, addirittura, a dipingere il novello dottor Stranamore, Hillary Clinton, come la paladina dei diritti umani e delle minoranze etniche, religiose e sessuali.


Che i rischi di un conflitto internazionale siano più alti che durante la Guerra Fredda, l’abbiamo recentemente sottolineato in un nostro articolo: l’accento era posto, in particolare, sulla natura dell’attuale sistema internazionale. Se durante la Guerra Fredda l’obbiettivo di fondo delle due superpotenze era la conservazione dello status quo e vigeva l’accordo, mai dichiarato ed indichiarabile, di non ledere gli interessi vitali dell’avversario, il contesto di oggi è molto più dinamico e, di conseguenza, più rischioso: assistiamo ad una potenza egemone che, creato un mondo unipolare grazie all’harakiri del nemico, ha oggi l’acqua alla gola ed è atterrita dall’inesorabile avanzare degli sfidanti alla supremazia mondiale.

È la stessa posizione in cui si trovò Sparta di fronte alla crescente forza di Atene, inducendola a dichiarare guerra finché aveva buone probabilità di sopraffare la nascente potenze ateniese. Scrive Tucide sulle ragioni della Guerra del Peloponneso:

“Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni, fino a provocare la guerra”.

In queste condizioni, come già evidenziammo, le ostilità tra Washington e Mosca trascendono il conflitto in Siria e riguardano piuttosto l’assetto globale: sono lo sfaldarsi dellUnione Europea (la testa di ponte angloamericana sul continente euroasiatico), il crescente dinamismo economico e politico delle grandi potenze terrestri, la determinazione degli avversari a costruire un sistema finanziario alternativo al dollaro ed al duo FMI-Banca Mondiale, la percezione che sempre più alleati guardano altrove (si veda la clamorosa decisione del presidente filippino Rodrigo Duterte di sospendere la collaborazione militare con gli americani1a spingere gli USA verso il conflitto.






La “guerra per l’egemonia” che si profila all’orizzonte, come già sottolineammo, può deflagrare in Siria, ma qualsiasi altro degli innumerevoli teatri di crisi (l’Ucraina, il Golfo Persico, il mar Baltico, il mar meridionale cinese) può fungere da innesco: è, ad esempio, la decisione americana di schierare uno scudo missilistico in Sud Corea che ha contribuito ad inasprire ulteriormente i toni nelle ultime settimane, compattando Mosca e Pechino2.


I segnali di una vera escalation abbondano, lasciando ipotizzare che il punto di non ritorno sia imminente o forse già superato: Mosca schiera gli Iskander a Kaliningrad, Washington accelera la costruzione dello scudo missilistico; Mosca invita il personale pubblico a riportare in patria i famigliari, Washington è pronta ad inasprire l’isolamento economico della Russia; un alleato politico di Vladimir Putin pronostica la guerra nucleare nel caso di una vittoria di Hillary Clinton3, il vice-presidente americano Joe Biden minaccia esplicitamente azioni di guerra cibernetica; Vladimir Putin sottolinea che non dipende dalla Russia se qualcuno cerca il “confronto”, il ministro inglese Boris Johnson minaccia di trasformare “in cenere” le ambizioni di Mosca; etc. etc.






Ad aver ipotizzato una “guerra regionale o globale” nel caso in cui Mosca e Washington non raggiungano un accordo sul futuro della Siria è stato il primo ministro turco, Numan Kurtulmus4: affermazione corretta, che però confonde il fine (la “guerra globale”) con i mezzi (il futuro della ben più modesta Siria).

Se Washington e Mosca entrassero in guerra, infatti, la causa del conflitto non sarebbero certo da ricercarsi né nel futuro della base navale di Tortosa, né in quello di Bashar Assad, né in quello dei suoi alleati libanesi ed iraniani (benché la questione stia oggettivamente a cuore ad Israele ed all’influente lobby ebraica statunitense). Al contrario, l’impero angloamericano sfrutterebbe la Siria come casus belli per una guerra di cui ha disperato bisogno. Ora.

Un fattore che spinge le potenze declinanti a lanciarsi in una “guerra per l’egemonia” è la percezione che un mutamento storico è imminente e si ha poco tempo a disposizione prima che il vantaggio economico e militare sugli sfidanti si dissolva. L’impero angloamericano si trova oggi in questa condizione: la sua situazione economica è così precaria che non esistono alternative tra l’implosione o la guerra verso l’esterno, unica soluzione per puntellare il sistema, eliminando qualsiasi centro di potere alternativo.

Può sembrare un discorso logoro, simile a quello dei vecchi marxisti che pronosticavano saltuariamente il collasso del capitalismo occidentale e vedevano nelle guerre imperialiste l’extrema ratio per risolvere i difetti congeniti del sistema: qualche semplice dato, indica invece che lo scenario di un imminente tracollo economico e finanziario degli USA è più che concreto.





L’elefante nella stanza: la bolla di Wall Street

Le condizioni dell’economia statunitense sono il classico elefante nella stanza: un problema macroscopico, di cui tutti tacciano, anche perché parlarne significherebbe ragionare sulle vere cause della crisi internazionale in atto.

L’impero angloamericano è fondato su un capitalismo finanziario, noto anche come “capitalismo anglosassone”. Preferendo i titoli mobili (azioni, obbligazioni, derivati) ai beni immobili (imprese, terreni, edilizia), la mondializzazione sfrenata al protezionismo, la speculazione alla produzione, la deflazione all’inflazione, le politiche lato offerta (l’austerità ed il neoliberismo) alle politiche della domanda, questo tipo di capitalismo non genera una crescita economica stabile e costante (basata su attività reali e su salari crescenti che alimentino la richiesta di beni e servizi), ma una serie costante di bolle speculative che si susseguono l’una dopo l’altra.

Il fenomeno è esploso dopo la dissoluzione dell’URSS (1991) e l’abolizione negli USA della legge Glass–Steagall (1999), seguita dall’abrogazione in Europa di norme analoghe: in sostanza, il capitalismo anglosassone si è palesato in tutta la sua virulenza con l’avvento del Nuovo Ordine Mondiale.

Da allora è stato un susseguirsi incessanti di bolle speculative, caratterizzate da vertiginosi rialzi in borsa, accompagnati dall’illusione di una ricchezza diffusa, seguiti da clamorosi tonfi, accompagnati da recessioni e povertà invece molto concrete. Si comincia con la bolla dot.com che nell’ultimo scorcio del 1999 porta il Nasdaq a valori record: la FED spinge il saggio di risconto fino al 6,5% nella seconda metà del 2000 per sgonfiare la corsa dei titoli tecnologici.

Prontamente questi si accartocciano su se stessi ed il Nasdaq perde oltre il 50% in un anno. La FED risponde alla recessione tagliando i tassi, che scendono fino all’1% nel 2004: il denaro facile alimenta così la nuova bolla, quella legata agli immobili ed alla materie prime, proiettando l’SP500 verso un nuovo record nel luglio 2007. La FED, fedele allo stesso copione del 1929 e del 2000, rialza i tassi, che toccano il 5,25%5 nel 2007: segue un primo scossone di assestamento, cui succede nell’autunno 2008 lo scoppio di quella bolla che trascina nel baratro Lehman Brothers e l’economia americana.

Non pago, l’establishment atlantico concepisce un ingegnoso piano per uscire dalle secche della crisi: alimentare una bolla speculativa, maggiore della precedente.





La FED porta il tasso di risconto allo 0% (dov’è tuttora, a distanza di otto anni), inondando di liquidità i mercati azionari, obbligazionari e delle materie prime. Come evidenziammo in un articolo di un anno fa6, la bolla creata presenta diverse analogie con quelle precedenti e con il rally che precedette il crack del 1929 (investimenti a forte leva finanziaria, aziende che riacquistano i propri titoli, indice Shiller Price/Earnings a livelli di guardia). Wall Street sale incessantemente, mese dopo mese, sino a portare nell’estate 2016 l‘SP500 a valori mai visti prima (2.168 punti a luglio).

C’è un problema: la bolla speculativa dei mercati regala lauti guadagni alla City ed a Wall Street, ma è incapace di risollevare le sorti dell’economia attraverso il cosiddetto “effetto ricchezza” (un aumento dei consumi dovuto alla percezione di una più alta disponibilità): è lo Stato che si fa carico dell’impoverimento generalizzato causato dalla Grande Recessione (il debito pubblico americano raddoppia sotto Obama, passando dai 10.000$ ai 20.000 $mld), e se i numeri dell’occupazione sono rosei, bisogna solo ringraziare il sempre maggior numero di disoccupati che smettono di cercare un impiego, uscendo dalla forza lavoro.
Dopo otto anni di tassi a zero, l’economia statunitense è in aereo in perfetto stallo.

Se la FED alza i tassi (si cominciò a parlare per la prima volta nel lontano 2013), schianta le borse come nel 2008 e provoca negli USA una Grande Depressione simile a quella degli anni ’30; se mantiene nullo il costo del denaro, gonfia ulteriormente la bolla speculativa, ampliando il divario tra i mercati finanziari e l’economia e rendendo ancora più drammatico l’inevitabile impatto finale. Già, perché diversi fattori, primi fra tutti la recente gelata degli utili aziendali e la prima riduzione di consumi delle famiglie dal lontano settembre 20097, indicano che mentre Wall Street mancina nuovi record, l’economia statunitense si dirige verso la recessione.

Si profila quindi all’orizzonte una crisi peggiore della precedente: spazi per tagli dei tassi non c’è ne sono più, l’indebitamento pubblico è già raddoppiato in otto anni, le tensioni sociali (come testimoniano lo stillicidio di rivolte razziali) sono già a livello di guardia, il margine per finanziare la ripresa a carico di Paesi terzi molto modesto (si veda l’accumulo di riserve auree in sostituzione del dollaro ed il continuo declassamento del debito pubblico americano da parte della agenzie di rating cinesi8). Anche lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva sarebbe messo a repentaglio, di fronte a finanze pubbliche sempre più dissestate.




L’impero angloamericano si avvicina ad una crisi strutturale, tale da causarne il collasso: è possibile tenere testa a Mosca e Pechino, proiettarsi su cinque continenti e controllare i mari, mentre l’economia affonda ed il debito pubblico cresce al ritmo di 10.000 $mld ogni otto anni? La risposta è no.

È in questa prospettiva che vanno lette le affermazioni di Donald Trump: il repubblicano è consapevole che un crack del mercato azionario è ineluttabile (“If rates go up, you’re going to see something that’s not pretty”9) ed ha contemplato, nel caso in cui la situazione per le finanze statunitense si facesse critica, una ristrutturazione del debito pubblico o l’emissione massiccia di dollari così da alimentare l’inflazione10


La prima ipotesi è un tabù per le oligarchie finanziarie, custodi dell’ortodossia finanziaria, la seconda ipotesi è una blasfemia. Così facendo, Donald Trump sarebbe il primo presidente ad adottare un approccio post-imperiale: un taglio del debito all’argentina, od una politica monetaria alla venezuelana, accelererebbe il tramonto del dollaro come valuta di riserva mondiale e la parallela eclissi dell’impero angloamericano. Senza più la possibilità di comprare dal resto del mondo beni e servizi in cambio di pezzi carta (i dollari americani stampati a piacimento ed accettati solo perché valuta di riserva), come farebbero gli USA a finanziare le spese militari e le basi all’estero? 

Su posizioni opposte, è ovviamente la democratica Hillary Clinton, la candidata di quelle oligarchie finanziarie che siedono ai vertici dell’impero e scandiscono i tempi dell’economia statunitense con un crack borsistico dopo l’altro: può la favorita di Goldman Sachs avanzare l’ipotesi di una ristrutturazione del debito pubblico o di un’inflazione a due cifre che spazzi via i debiti (ossia i crediti nel portafoglio delle banche) mentre le riserve mondiali migrano verso lo yuan, il rublo e l’oro? Certo che no.


L’unica soluzione che rimane ad Hillary Clinton per evitare che il tracollo di Wall Street trascini con sé l’impero ed il dollaro, è quindi l’azzardata scommessa di una guerra preventiva contro Mosca e Pechino: l’eliminazione degli sfidanti all’egemonia mondiale, il congelamento del debito pubblico statunitense in mano ai cinesi (possibile con la stessa norma che permise a Bush Junior di bloccare gli investimenti delle “organizzazioni terroristiche”), e l’inflazione bellica, sono gli unici strumenti per scongiurare l’inevitabile collasso.

Si parla di Aleppo, di Siria, di Russia e di guerra, ma il motore è sempre la grande finanza: dopo aver trascinato gli USA nel baratro nel 2008, questa volta mammona si prepara a trascinare negli inferi il mondo intero.







1http://www.aljazeera.com/news/2016/10/duterte-philippines-open-china-russia-war-games-161017173207768.html
2http://www.bloomberg.com/news/articles/2016-10-13/xi-putin-bromance-grows-in-security-bond-as-u-s-spats-escalate
3http://www.reuters.com/article/us-usa-election-russian-trump-idUSKCN12C28Q?il=0
4https://www.rt.com/news/362572-us-russia-syria-proxy-war/
5https://fred.stlouisfed.org/series/FEDFUNDS
6http://federicodezzani.altervista.org/il-giovedi-che-cambiera-il-mondo/
7https://www.ft.com/content/e772ac50-bd09-11e0-bdb1-00144feabdc0
8http://www.cnbc.com/2013/10/17/chinese-agency-downgrades-us-credit-rating-should-you-care.html
9http://www.cnbc.com/2016/08/09/donald-trump-on-the-stock-market-its-all-a-big-bubble.html
10http://www.forbes.com/sites/timworstall/2016/05/07/donald-trumps-glorious-threat-to-default-on-the-national-debt-is-just-the-conventional-wisdom/#7e30e2355308







giovedì 13 ottobre 2016

Scenari di guerra II


Pape satàn, pape satàn Aleppo!

 ilsimplicissimus 







« «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
 
cominciò Pluto con la voce chioccia;
 
e quel savio gentil, che tutto seppe,


disse per confortarmi: «Non ti noccia
 
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
 
non ci torrà lo scender questa roccia.» »




Bombardamento di Pescara - 31 agosto 1943



La verità, di per sè assolutamente evidente, è questa: se la regione di  Aleppo viene riconquistata dall’esercito siriano, la guerra è finita e addio ai piani di Washington, (con Parigi e Londra in funzione di valletti) sulla sistemazione neocoloniale del medio oriente e delle zone petrolifere. Addio ai miliardi spesi per importare e armare terroristi raccolti un po’ dovunque, addio alle gite segrete di Mc Cain, agli altrettanto segreti stanziamenti del congresso, addio ai generali francesi in gita ai confini con la Turchia, addio alla falsa guerra contro l’Isis. Ma il fallimento di un’operazione dal cinismo agghiacciante che finora è costata un numero incalcolabile di morti e un’incalcolabile danno alla verità, soppressa da ogni tipo di bugie rischia di ripercuotersi su altri fronti, Ucraina in primis.

Per questo si moltiplicano gli “errori” degli Usa  che attaccano apertamente le truppe siriane, salvo dire che si sono sbagliati, è per questo che è ricominciata senza sosta il “trattamento” mediatico che cerca di raccontare una verità completamente inventata a suon di vittime civili e di bambini morti sotto gli attacchi russi e siriani, di corrispondenze dai grandi alberghi o embedded, mentre spesso si tratta di scenari preparati ad hoc oppure si spacciano le bombe dei cosiddetti ribelli come quelle di Assad o non si ammette che i terroristi si facciano scudo dei civili, la scusa standard per le stragi occidentali. Per questo quando vedo l’orrido crapone del plagiario Saviano presentare, non a gratis evidentemente, un polpettone di Canal + che attraverso Vivendi è legata a Universal television, una delle più atroci  multinazionali dell’informazione Usa,  sulla propaganda dell’Isis mi vengono i brividi e mi viene da pensare che tutti hanno una loro Gomorra e qualcuno più degli altri.



Pescara, ponte della ferrovia


Lo scopo della grande campagna pseudo umanitaria, mai accompagnata da così grandi grancasse mediatiche, è quello di far cessare gli attacchi russo siriani che stanno distruggendo le fila di un terrorismo camaleontico e ogni tempo, di un terrorismo crudele e mercenario che poi schizza le sue schegge impazzite negli scenari della vecchia Europa, per arrivare a una tregua in modo da far riorganizzare i tagliagole amici e aspettare che il nuovo presidente, preferibilmente la Clinton per l’oligarchia globalista, decida cosa fare. O meglio, decida come raggiungere l’obiettivo di mandare all’aria Assad e la Siria, perché gli Usa  non vogliono e non possono permettersi una sconfitta che metterebbe a rischio tutte i rapporti coloniali costruiti dal dopoguerra (vedi Arabia Saudita, una costruzione di servizio totalmente artificiale)  e soprattutto non quando l’avversario reale è la Russia

D’altra parte Mosca di certo non può cedere, non comunque con la situazione ucraina aperta. Quindi  una guerra globale è più vicina di quanto non si pensi o non si tema, anche perché le oligarchie cominciano ad avvertire il pericolo che il loro potere possa essere messo in discussione man mano che procede il degrado economico favorito dall’universo di teorizzazioni prive di senso che hanno organizzato e e pagato attraverso  un sistema accademico privato, centralizzato in Usa e proprietario. Quello che per sette miliardi di persone è una tragedia, per poche milioni è una chance.


Anzi secondo alcuni analisti, forze del potere grigio Usa starebbero pensando, in accordo e complicità con qualche fazione militare, di arrivare a un conflitto prima che la nuova amministrazione, magari anche quella del semi isolazionista Trump, possa cercare una qualche onorevole via d’uscita. Si tratta ovviamente di speculazioni indimostrabili e probabilmente esagerate nel senso che trasformano possibili umori e suggestioni, in piani e disegni, ma gli errori “impossibili” con la tecnologia attuale compiuti dall’aviazione Usa e sempre contro i siriani, inducono a pensare che da qualche parte esistono disponibilità al colpo di mano. 

Del resto non è certo difficile creare le condizioni per un un incidente, anzi a volte è persino facile inventarseli come quello celebre del golfo del Tonchino che diede inizio alla guerra del Vietnam e che non è mai avvenuto. Quindi dietro le foto da studio di un bambino ferito, si nascondono pericoli e visioni ben più feroci ,viene implicata un’umanità ridotta a volgare spot e umiliata ogni verità.  E’ già propaganda di guerra.




Sulmona, stazione ferroviaria