uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

domenica 26 agosto 2018

Piero Chiara - La Stanza del Vescovo. Combinati disposti e luoghi casuali.





Palata, basso molise, quarantaduesimo parallelo, scossa or ora dai tremori e i timori di un inaspettato terremoto. Lì passo da diversi anni una parte delle mie vacanze estive. E lì ogni estate ritrovo un libro che, scovato casualmente alcuni anni fa nella piccola biblioteca di casa, immancabilmente rileggo con grande e crescente piacere. 

Un’abitudine fascinatoria e forse anche po’ misterica o rituale che, mano a mano, lettura dopo lettura, estate dopo estate, si carica di stratificate, complesse e reiterate sensazioni, e che vive in uno spazio altro e nel tempo vacuo di un ozio che si vorrebbe eterno, a ridosso o forse nel pieno di una crisi economica, politica, esistenziale (epocale?) che pare non debba mai finire, fra ponti che crollano, avveniristici, e certezze che declinano inermi, anche adesso in questo fresco luminoso e quieto pomeriggio lombardo.

Il romazo è La Stanza del Vescovo di Piero Chiara. Magistrale e onirica, intima e malinconica, sarcastica e avventurosa vicenda che oziosamente si svolge nelle stagioni a ridosso della seconda guerra mondiale sul Lago Maggiore: fra le sue superbe ville, i suoi misteriosi venti e le sue acque oscure... a pochi chilometri dal luogo dove casualmente vivo da diversi anni.



***


Di fronte a me e alle spalle di Matilde, sedevano a un tavolino come il nostro una donna e una ragazza vestite in nero da capo a piedi, reduci certamente dal mortorio del loro rispettivo marito e padre. La ragazza, che non aveva più di diciotto anni, mi fissava ma come se guardasse nel vuoto, in cerca dell’immagine paterna. Aveva i capelli neri, un volto pallido e delicato sopra un collo lungo, bianco e tenero, che usciva come il gambo d’un fiore dal busto strettissimo e sicuramente marmoreo. Era il vero ritratto di un’orfana, un po’ alla Cremona o alla Ranzoni.

Non potevo fare a meno di studiarla. E passavo dalle impercettibili asperità della sua fronte alla peluria scura del suo labbro superiore, incrociandone sempre lo sguardo severo e dolce, che si posava su di me per fuggire dalle viste dolorose, in cerca di quella freschezza della vita che nessun giovane può lasciarsi rubare per più d’un giorno.

Matilde, che senza voltarsi aveva capito quale poteva essere l’oggetto della mia distrazione, forse per distogliermi, parlò con un filo di voce: «Quando verrà alla villa?»

«Appena tornerò da Milano» risposi. «Fra qualche giorno.»

Dopo quelle poche parole non ci riuscì più di avviare un qualsiasi discorso per tutto il pranzo. Speravo di trovare una frase per salutarla, ma non mi venne altro, mentre saliva sulla macchina, che un banale "arrivederci presto".

Lasciai passare quindici giorni prima di tornare a Oggebbio, dove la Tinca mi aspettava nella darsena di Villa Cleofe. Ci andai, col battello fino a Cannero, poi a piedi lungo la strada nazionale per non farmi vedere dal Cavallini che non perdeva mai l’arrivo dei battelli e delle corriere.



 
Camminavo, nella bella mattinata estiva, lungo i muri delle ville, dentro e fuori dall’ombra dei parchi, guardando in basso i barbagli del lago ad ogni insenatura e poi l’altra sponda, nera nel controluce. Nei tratti battuti dal sole mi investiva l’odore delle felci e delle erbe che parevano prorompere dal fianco della montagna, tagliata quasi a picco sul lago e gonfia di verde. Nei tratti d’ombra, al riparo dei cedri, delle canfore o delle magnolie, sentivo il rumore dei miei passi sull’asfalto, davanti alle soglie dei cancelli o delle porticine ammuffite e sempre chiuse che interrompevano i muri di cinta delle ville. 

Non avevo pensieri, e mi pareva di essere un viandante abituato alle lunghe camminate e sicuro d’arrivare ogni giorno a qualche tavola d’osteria e a qualche letto, sempre pronto per chi non ha casa e va per il mondo di buon animo, sicuro di trovarlo, il mondo, sempre praticabile e qualche volta addirittura benigno.

Arrivai alla villa verso le undici e trovai il cancelletto aperto.

Domenico era in giro per il parco, Martina certamente in cucina e la Lenin forse dietro la portineria, occupata in qualche sua faccenda. Matilde era sulla terrazza verso il lago e la raggiunsi traversando inosservato tutto il pianterreno della villa.

Sedeva dentro un’ampia poltrona di vimini a forma di semicupio nella mezza ombra del glicine, vicino alle colonnine di ferro della balaustra, in aspetto di grande abbandono, come una convalescente sulla terrazza di una clinica. Poggiava il capo a un cuscino rosso allacciato alla poltrona e teneva gli avambracci stesi sui braccioli, con le mani che pendevano mollemente nel vuoto e sembravano accennare verso il pavimento.

Girai largo intorno alla poltrona e andai ad appoggiarmi alla balaustra. Il suo sguardo, che vagava nel gran vuoto del lago, si ritrasse e si fermò su di me.





«Buongiorno» dissi. «Mi perdoni se non mi sono fatto annunciare, ma non ho trovato nessuno dal cancello fin qui.»

Non parve far caso alle mie parole, e senza muoversi ma sempre guardandomi come in sogno, mormorò: «Prenda una poltrona e si metta qui, vicino a me.»

Presi da sotto il coperto una poltrona di vimini simile alla sua e le sedetti di fianco.
«Dunque è qui» disse.
E dopo una sosta:
«Lei saprà che l’ingegner Berlusconi è partito per Addis Abeba...»

«Non so nulla.»

«Sì. È partito, questa volta per sempre, dopo avermi fatto donazione della villa con tutto quello che contiene. In riparazione, ha detto, del danno che mi ha recato influendo così sinistramente sul mio avvenire.»

«Allora lei d’ora in avanti vivrà sempre qui?» domandai. «Sola?»

«Non sola. Con Domenico, la Lenin e Martina...»
Mi guardò intensamente ed aggiunse:
«E con lei, se vorrà.»

Abbassai il capo e rimasi in silenzio. Stando con gli occhi verso il pavimento vedevo i suoi polpacci tondi incrociati e i suoi piedi un po’ larghi, calzati in scarpe strettissime. Sentivo che aspettava la mia risposta, e che alzando il capo avrei dovuto dargliela, in un modo o in un altro.

Provai a immaginarmi padrone di Villa Cleofe, con la Tinca nella darsena, Martina che al mattino mi portava il caffè a letto, Domenico che si toglieva il cappellone di paglia quando mi incrociava nei viali del parco, la Lena che mi serviva a tavola, dove sedevo di fronte a Matilde.
Intanto le guardavo i piedi e mi domandavo come potessero stare, senza dolore, in scarpe così strette. Ma non dovevo divagare. Matilde, che aveva ripreso a fissare il gran vuoto del lago, aspettava.


 

Dormire, avrei dormito abitualmente nella stanza del Vescovo, per essere più libero e perché sapevo che Matilde amava star sola nella sua camera: l’aveva sempre detto, anche prima di sposare l’Orimbelli.
Il quadro diventava completo se, da buon marito, mi vedevo al mattino o nelle prime ore della notte traversare in pigiama il corridoio e bussare discretamente alla sua camera.

Alzai il capo con gli occhi rivolti verso il lago. In quel momento, dal promontorio di Cannero spuntò come un fantasma la grande barca del signor Kauffmann. Con tutte le sue quattro vele al vento, di un bianco abbagliante sullo sfondo della costa lontana, la Lady passava in silenzio. La randa, la mezzana, il fiocco e il contro-fiocco, tesi con le mura a diritta, nascondevano tutto il soprabbordo della barca, che sembrava deserta. In pochi minuti la Lady doppiò un altro promontorio e sparì.

Mi sembrò a quella vista che la grande barca del signor Kauffmann, apparsa come una visione, fosse passata per dirmi che la vita è un misterioso viaggio e che era tempo per me di riprendere la strada e passare ad altri capi, ad altri porti.

Mi alzai lentamente, mettendomi di fronte a Matilde che aveva sollevato gli occhi verso di me.
«Me ne vado» dissi. «Mi perdoni, ma debbo andarmene. Scendo in darsena a prendere la barca.»

Dieci minuti dopo uscivo con la Tinca dal porticciolo di Villa Cleofe. Era mezzogiorno e avevo deciso di pranzare al Vittoria dal Cavallini. Passando davanti alla villa guardai sulla terrazza. Matilde si era ritirata. Restavano solo visibili, tra le colonnine di ferro della balaustra, le due poltrone di vimini col poggiatesta rosso e le frange dei cuscini che si muovevano al vento.









giovedì 9 agosto 2018

I sentieri praticabili - György Lukács*





Felice il tempo nel quale  la volta stellata è la mappa
dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore
delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l'avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come
la propria casa, perché il fuoco che arde nell'anima
partecipa dell'essenza delle stelle: come la luce dal fuoco, cosi il mondo è nettamente separato dall'io, epperò mai si fanno per sempre estranei l'uno all'altro. 

Perché il fuoco è l'anima di ogni luce e nella luce si avvolge ogni fuoco. Così ogni atto dell'anima riceve un senso e giunge al compimento entro questa duplicità: esso è compiuto nel senso e compiuto per i sensi, è perfetto perché l'anima riposa in se stessa mentre muove all'azione; 
è perfetto, ancora, perché il suo agire si
stacca da essa e, fattosi autonomo, perviene al proprio
centro e si inscrive in un suo conchiuso ambito. "Filosofia è propriamente nostalgia -dice Novalis- anelito a fare di ogni dove la propria casa". 

Pertanto la filosofia, sia come forma di vita che in quanto elemento formante e contenuto della poesia, è sempre il sintomo della scissura fra interno e esterno, il segno della intrinseca discrepanza  fra io e mondo, della non-conformità fra anima e azione. È per questo che le età felici mancano di filosofia. Perché qual'è infatti il compito della vera filosofia, se non quello di disegnare quella mappa che contenga e proponga I modelli originari? E cos'altro è il problema dell'individuazione di un "luogo" trascendentale, se non la ricerca volta alla sistemazione di ogni pulsione originante dai più profondi
recessi dell'interiorità in una forma ad essa ignota e
nondimeno assegnatale ab aeterno, che la involga elevandola a valenza simbolica che la riscatti?

Solo allora la passione è il tramite pre-determinato dalla ragione sulla via della compiuta realizzazione della propria individualità', e nel delirio del vagheggiamento
si manifestano segni misteriosi eppure intelligibili di
una forza trascendente altrimenti condannata a restare muta. 





Solo allora non vi è ancora interiorità,
perché non sussiste ancora alcunché che sia altro ed
esterno all'anima. Ove questa si accinge a gettarsi nell'avventura e ne esce vincitrice, ignoti le sono il vero
tormento della ricerea ed il reale pericolo della conquista: mai l'anima arrischia se stessa. Essa non sa
ancora che può smarrirsi, né pensa mai che deve cercarsi. È, questo, lo stadio storico-universale dell'epos.

Qui, non già l'assenza del dolore o la certificazione dell'essere calano uomini e azioni entro i netti contorni
di un "luogo" pervaso da una felicità gioiosa (l'Assurdo e il Dolore inerenti all'accadere del mondo non
si sono accresciuti dall'inizio del tempi, solo il canto
consolatorio risuona ora più forte ora più sommesso), bensì questa conformità e adeguatezza delle gesta alle esigenze intere dell'anima di grandezza di dispiegamento di totalità. Ove l'anima non conosca 
ancora l'abisso che è in lei, tale da invitarla a tuffarvisi o da sospingerla ad altezze impraticabili; finchè la divinità che governa il mondo  partisce gli ignoti e ciechi doni del fato, oscura epperò familiare e imminente si erga davanti agli uomini come un padre a guida del suo piccolo, allora ogni atto aderisce alla realtà dell'anima. 

Essere e destino, avventura e compimento, vita ed essenza sono allora concetti identici.

Perché così suona la domanda a cui l'epos dà risposta: come può la vita pervenire all'essenza e nutrirsene?
Ora, l'inimitabilità e l'inattingibilità di Omero
-a rigore solo i suoi poemi sono epici- risiedono nel
fatto che egli ha trovato la risposta prima che l'incedere
dello spirito sui cammini della storia rendesse incalzante ed esplicita la domanda.












* Tratto da "Teoria del Romanzo" di György Lukàcs Newton Compton Editori, 1975. Traduzione di Antonio Liberi.

















domenica 5 agosto 2018

Ancora sulla strada di Zenna

Vittorio Sereni





Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse, finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore...
ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano...
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.