Demetrio Stratos, Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene. Straordinarie voci del '900. Voci che abbiamo amato e che continuiamo ad amare, che ci hanno stupito per quello che dicevano ma anche per come lo dicevano. Di Demetrio e degli Aerea ci siamo occupati in passato. Di Pierpaolo ( mai manca nel ricordo la dolcezza del suo parlare) speriamo di riuscire a presentare qualcosa in futuro... Ora Carmelo. Il suo "Amleto da Shakespeare a Laforgue" rivisto casualmente qualche tempo fa, dopo oltre trent'anni, mi ha rifolgorato!
Concepita per la televisione dopo precedenti altri lavori su Amleto e a dispetto del tempo trascorso, la forza di sintesi direi minerale di quest'opera, la sua colossale, astratta e antiretorica concisione ne fanno un'opera magistrale. Per rifarsi gli occhi.
"Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.
Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento."
***
L’estetica del piacere: conversazione con Carmelo Bene
Maurizio Grande
Lo spettatore dovrebbe sapere tutto, dovrebbe essere ideale, quindi uno che sa tutto. Non intendo il critico. Critico e artista sono la stessa cosa, se il critico capisce, al di là della specializzazione, cioè dello scaffale. Viceversa l’operazione critica di un artista è anche una operazione teorica. Quindi il pubblico deve sapere tutto, ma fino a che punto? E tutto di che?
Io direi che sapere tutto equivale anche, almeno, a non sapere niente. La cosa grave, invece, è che il pubblico sa qualcosa, qualcosa che gli hanno da sempre propinato. Ecco, quello che guasta non è il sapere tutto, che equivale al non sapere niente (il che sarebbe perfetto), ma sapere quel tantino che crede di sapere perché glielo hanno dato da portarselo a spasso. Il pubblico purtroppo sa qualcosa, ma qualcosa di sbagliato.
Il
pubblico non sa, non sempre almeno, che la tecnica è un fatto di linguaggio,
è linguaggio e «arte» allo stesso tempo. Il pubblico pensa che la
tecnica sia un fatto neutro, e che vedere una cosa in televisione sia
lo stesso che vedere qualsiasi altra cosa con un mezzo di
comunicazione di altro tipo.
La
televisione appare soltanto come un canale di registrazione e di emissione,
e non come un apparato linguistico e simbolico dotato di senso,
dotato di tanto più senso quanto meno evidente il problema del senso
si pone.
Certo.
Perché nessuno glielo ha mai insegnato. Si bada troppo ai contenuti,
ai contenuti pseudopolitici, si lavora troppo sui campi medi.
Lavorare su campo medio è lavorare sulla mediocrità. Quindi si
filmano, si recitano, si registrano cose morte, restaurazione
imbecille del testo, cattiva scuola…
Questo Amleto più che un
esperimento segna già un risultato avanzato di quanto si può fare
con il mezzo televisivo, al di là di tutti i pregiudizi della
critica che pretende sempre di dire e non dire o dire poco. Una
critica impotente o reticente, imbavagliata dalle regole di scuderia
o impacciata dai luoghi
comuni di una ideologia o di ideologie mal digerite, non meditate e
non trasformate in contenuti sociali, in ricchezza di senso sul piano
della comunicazione e del dibattito culturale.
Questo Amleto appare
come il prodotto di una profonda riflessione sulla televisione come
linguaggio.
Ho
lavorato già nei poeti russi a un approccio a ciò che è la camera,
l’elettronica, l’ampex, e ritengo questo Amleto un fatto
televisivo. Non sono d’accordo né con Strehler né con Squarzina,
né alla fine con il concetto stesso di regista. Io qui sono in
mezzo, come tutti gli altri. Ma non è lo sbaraglio, è piuttosto la
definizione che Pasternak dà del poeta: colui che vede al tempo
stesso ciò che è visibile a due isolatamente. Il che è il
paradosso dell’attore, anche, tutto sommato, e il paradosso del
linguaggio.
Credo
che con Artaud mi sarei inteso, e credo che anche con Mejerchol’d
mi sarei inteso. Io dico: o questo o quello. Lasciamo andare dove sia
il niente e dove il tutto, dove sia il buono o dove sia il non buono.
Io credo che i signori dovrebbero provare un po’ prima di dire che
cos’è il mezzo televisivo, veramente ridotto a elettrodomestico, e
che Eduardo giustamente mette in contatto con l’aspirapolvere.
Ecco, io penso che si possa anche disinnestare l’aspirapolvere, e
allora diventa un grande mezzo che tocca l’intimità imbarazzante
dello spettatore senza che abbia accanto un vicino che tossisce. Ma
questo è il lato pratico. Se poi scendiamo a esaminare i vantaggi
che offre dal punto di vista tecnico, allora questi sono veramente
infiniti, non si discute. Visto che in teatro si fa della cattiva
televisione e in cinema si fa del cattivo teatro e della cattiva
televisione insieme, in televisione si fa pessimo teatro e pessimo
cinema, allora si scende a vedere che cosa è veramente la
televisione. [...]
Quello
che deve fare la televisione è sviluppare il mezzo televisivo.
Quello che non deve fare assolutamente è la riproposta del teatro
morto e lo scemeggiato, quello con la emme. Noi abbiamo lavorato con
una console che fa miracoli nel montaggio, ma ricorrendo anche alla
taglierina, come al cinema, per fare delle «operazioni», come le
chiamano. Questi mezzi sono a disposizione anche degli altri,
soltanto che non vengono usati, perché si dice che il pubblico non
li vuole, che il pubblico non vuole niente.
Piantiamola con la storia
del pubblico che non vuole niente. È un errore madornale. Si sta
sempre su un testo morto, poi in tv non sanno che fare e dicono: il
piccolo mezzo non si presta, il piccolo schermo non ha il fascino,
anzi, per l’errore di stampa del Corriere della Sera, non ha il
fascismo del teatro... Un titolo molto eloquente per un fortunato
errore del proto. Io dico che quell’errore è giusto in fondo: il
piccolo schermo non ha il fascismo del teatro. Sì è vero.
All’opposto di questo non c’è il talento, ma una cosa più
umile, il genio, qualcuno che possa capire il video di qua e di là
della telecamera, e questo è importante.
Sarebbe
interessante sapere qualche cosa di più del rapporto fra tecnica e
linguaggio televisivo. Per esempio conoscere il modo in cui in questo
Amleto è stata usata la camera, quale ruolo ha avuto il montaggio,
quale il significato della macchina ferma e del forte contrasto dei
piani, perché ci sono soltanto tre o quattro lievissimi carrelli; e,
infine, quali soluzioni originali per il linguaggio del piccolo
schermo ha apportato questo modo di vedere il bianco e il nero e la
soppressione dei grigi e delle «velature» dei toni. Se questo
«linguaggio dei contrasti netti» è un limite paradossale,
raggiungibile soltanto in questi tipi di spettacolo o se, invece, può
essere esteso ad altri «generi» televisivi.
Il
paradosso del linguaggio nasce dal fatto di lasciare le camere ferme
facendo grosse operazioni nelle cabine di controllo per quella che
viene chiamata «tosatura», cioè il contrasto, che è anche un
grosso aiuto elettronico
che si porta al datore luci che opera in studio. La camera ferma non
è alla Straub o alla Bergman, ma serve per proiettare gli attori in
piena violenza, con testoni in PPP e campi lunghi, eliminando del
tutto il campo medio, il cosiddetto «totalino» televisivo.
La
novità è pensare all’ambiente come a qualcosa da calzare e
gettare via subito, come un guanto, per dare un suggerimento quasi
«mentale» dell’ambiente. Le assolvenze e dissolvenze fatte in
macchina, in diretta durante la ripresa, danno proprio l’invenzione
di un personaggio in quanto «io ti penso tu mi appari», e non come
le dissolvenze da Carosello. E poi una strapotenza dell’audio,
difficilissima da ottenere perché dal campo lungo al primo piano
bisogna escludere i microfoni al volo. Insomma un estremo rigore,
estrema umiltà e coraggio, molto coraggio soprattutto.
Musica,
montaggio, assolvenze e dissolvenze in diretta danno la misura
estetica di questo virtuosismo tecnico che è un fatto di linguaggio,
che è potenziamento del mezzo televisivo e di quanto appare sul
piccolo schermo. Con queste macchine stupende si può fare. Nel
cinema devi fare la truka dopo, devi stampare, eccetera; invece in
televisione si stampa subito e si fanno subito i contrasti. È un
mezzo veramente stupendo che invece usano malissimo. Spero che
nell’Amleto questo venga fuori, anche se, preciso, chi vedrà lo
spettacolo con un televisore a colori senza l’automatico o la
levetta che esclude il colore non vedrà il bianco e nero che io ho
realizzato.
Questo
lavoro si volge contro l’identificazione, contro tutti quei codici
mimetici, naturalistici o realistici, che assimilano lo spettatore
allo schermo senza lasciargli lo spazio di un’invenzione estetica
individuale e personale, ma riducendolo a parte dell’arredamento e
dell’amministrazione normalizzata del senso, di quel doppio –
falso negato – che sta al fondo della rappresentazione, o dell’uso
mimetico dei codici e delle tecniche rappresentazionali.
L’ambiente
come un guanto da mettere e sfilare subito dà la misura di questa
astrazione «mentale», ma anche della produzione dell’estetico al
di là dei canoni pacificatori della psicologia o della messa in
scena di un rispecchiamento forzato. Il linguaggio si pone come
invenzione e stimolo, punto di partenza delle letture diverse e delle
diverse stratificazioni della produzione del senso da parte dello
spettatore.
Questo
è linguaggio. Eliminazione dei magenta, dei viola. Ma questo è un
discorso che interessa meno il pubblico. Quello che interessa è il
colore dei bianchi
e dei neri con la eliminazione dei pastelli. Il colore, che
sperimenterò con la stessa équipe nel Riccardo III, o il bianco e
nero come fatti finalmente e veramente estetici e non etici, come
invece sono stati sempre visti dalla critica. È un fatto di
latitudine, come diceva Pascal, non di morale.
In
un’operazione del genere, che considera la regia come calcolo
matematico e geometrico molto preciso di ciò che può essere
l’invenzione estetica, il ruolo dell’attore è evidentemente
molto diverso dal ruolo solito o che si è soliti attribuirgli nella
divisione in «parti» da giocare sulla scena o sul set, o nella
illusione realistica che raddoppia il corpo in personaggi e tipi,
maschere pronte a tutte le proiezioni.
L’attore
è l’autore della stipula metodologica del linguaggio, nel momento
in cui sfida tutto quello che sa e lo mette in crisi allo stesso
tempo. Ora, questa sfida non è possibile nel piccolo schermo perché
lo specchiarsi nel teleschermo, nel monitor, inverte tutte le
prospettive e l’ordine stesso del linguaggio. Ecco che allora la
regia interviene per tirare le somme, di sequenza in sequenza,
proprio giocando col monitor e con questi effetti di inversione, di
specchio, anche quando il linguaggio si nega come involucro, come
pura forma, per restituire l’urgenza dei contenuti, non contenuti
inerti.
Così
viene fuori un’urgenza che non si può scindere dal fatto tecnico.
È il fatto tecnico come tale che diventa urgenza, urgenza del
linguaggio delle possibilità del mezzo. Quando ti guardi in questo
specchio e ti riconosci imbecille e ti accorgi e sai benissimo che
tutto quello che stai facendo è irrappresentabile. Nasce lì
l’irrappresentabilità, lì davanti a te, davanti a te riproposto
nello specchio del monitor nasce l’impossibilità di rappresentare.
Qui
il linguaggio, direi, non solo si rovescia, ma qui nasce, qui nasce
il linguaggio, in questa esperienza rivoluzionaria; nasce in un
presente che è «l’innocenza del divenire» e nell’amor fati
dettati dal coraggio, perché l’intelligenza è coraggio. Se
l’intelligenza non è coraggio non è nemmeno intelligenza, cioè
non serve più a fare niente.
Da
questo Amleto non solo vengono fuori i momenti in cui nascono assieme
il linguaggio e la tecnica del mezzo televisivo, il linguaggio colto
sul nascere e nell’affermarsi della tecnica (una tecnica che è a
fondamento del linguaggio in quello specchio delle operazioni che il
monitor rilancia indietro a chi si guarda nello e si vede guardato
dallo specchio tecnico); ma nasce anche
una coscienza della tecnica che non è soltanto tale, puro strumento
dell’arte e del linguaggio, ma è linguaggio essa stessa, che non è
più «mezzo» ma ha assunto dignità di «arte». Ecco, non solo
viene fuori la dimensione linguistica della tecnica, ma addirittura
le sue capacità illusionistiche e il suo distendersi in altre
dimensioni estetiche.
Nonostante l’abbattimento dei grigi;
nonostante il perforamento della illusione di profondità nella
direzione di una prospettiva rinascimentale forse nell’inquietudine
di una orizzontalità ritrovata e non perduta, non più azzerata dai
significati che la scalzano; nonostante la cancellatura
dell’illusione di profondità nella direzione di una prospettiva
rinascimentale forse negata o travolta, poiché viene fatta apparire
con lampi improvvisi e altrettanto improvvisamente svanisce, nella
negazione di un’illusione appena accennata. Ecco, nonostante tutto
questo, c’è qualcosa d’altro che viene fuori, che si accenna in
un nuovo spessore del gioco: quello per cui vengono annullate le
dimensioni stesse del piccolo schermo in quanto piccolo; perché
vengono abolite e retrocesse le illusioni dimensionali e i confini
materiali dello schermo televisivo, per conquistare uno spazio e una
profondità diversa e addirittura una «idea» diversa dello spazio e
delle sue costituenti: profondità, spessore, colore, forme. [...]
Proprio
il piccolo schermo, allora, offre la possibilità paradossale di
intervenire nelle dimensioni. Non per negare lo schermo, come si fa
in televisione, quando con la scusa dello schermo piccolo si nega
proprio lo schermo in quanto tale, schermo usato contro se stesso,
negazione dello schermo, ma per stravolgere le dimensioni imposte e
canonizzate come marginatura del senso, come arresto della
produttività del testo e del lavoro estetico dello spettatore. [...]
La musica non può essere arredamento, neanche arredamento
mentale. Ho troppo rispetto per la musica e per i cantanti per
accettare un architetto cretino, strapagato, che arriva lì e ti fa
un arredamento di Verdi o ti fa di Verdi un arredamento. È la storia
di Marinetti. Dice: È morto. Perché? Cercava cosa. Poi l’ha
trovata? Sì. E come è stato? Be’, è morto. Perché è morto? No,
quando un signore entra nell’appartamento è già grave, ma se poi
l’appartamento entra nel signore, allora è la morte.
Questa è
un’illustre lezione per i signori scenografi, per i registi e
scenografi d’opera, del melodramma nostrano, per i costumisti: che
non facciano né costumi né abiti. Che non facciano niente. E
quindi, quando si apre il boccascena, immenso, della Scala, io vedo i
difetti del piccolo schermo. Come dice Kipling quando cita un verso
di Keats: Questo è grandezza. Tutto il resto è poesia. Io direi
allora: questo Amleto è qualcosa. Tutto il resto è teatro. Poi far
capire che cosa vuol dire «tutto il resto». Forse ciò che si
chiama «tutto il resto», e che sta fuori di questo Amleto, è
teatro della rappresentazione di cose già significate, mimesi più o
meno raffinata dei valori correnti truccati in vicende drammatiche e
scelte esemplari.
«Tutto il resto» potrebbe appartenere a una visione dell’arte che
si fa amministrazione del reale e dei suoi istituti sociali cresciuti
a ridosso di una organizzazione del dominio politico e culturale
storicamente determinata ma vista come eterna e immodificabile.
Oppure appartiene a una concezione ancora contemplativa dell’arte:
l’arte che non si sporca le mani con il potere o con la vita
quotidiana e preferisce fare da supporto al potere, sublimando le sue
tensioni in un impiego indolore dell’invenzione estetica, in un
maneggiamento subalterno del linguaggio e dei codici dominanti del
comportamento e della organizzazione del senso. Un’arte
mutualistica o ancella di scelte ideologiche extra-artistiche non
rivitalizzate dalle cariche estetiche.
Arte
e Criminalità. Contro il padronato dell’arte e per l’artigianato.
Come nel Rinascimento. Amleto è un criminale. Non ci può essere
arte che non sia delinquenziale. È giusto che l’arte poi sia
sconfitta come è giusto che entri alla fine quel Fortebraccio senza
testa che è il potere. La pazzia dell’attore che si mette in testa
di essere davvero Amleto, Riccardo III. Ma come è possibile? Anche
il boccascena d’opera, della Scala, è più piccolo del televisore,
come viene adoperato, però può essere enorme.
Più rimpicciolisci e
più ingrandisci. L’attore può solamente odiare se stesso, andare
avanti... Il morire, non la morte. Il morire è metodologia, è il
rigore. Non è fermare un attimo, è il lasciar correre un attimo.
Non fermarti, sei bello. Invece di: arrestati. Il filosofo ballerino
è quello che conta, non arrestarsi. Invece loro si arrestano. E
anche dare addosso allo spettacolo stesso è un fatto molto
importante. Perché l’immagine è la morte.
Leone, l’iconoclasta,
aveva ragione. L’immagine è la morte, l’immagine è mortale, ma
non è il morire. Il morire è il continuum, l’agonia è la crisi,
l’impasse, come il S.A.D.E., che è l’impasse fatta spettacolo.
E
dunque l’arredamento, la scenografia, ogni messa in scena che parte
da una rappresentazione mimetica, «attendibile» solo perché
recuperabile al realismo mimetico (che è il falso totale), è
impasse senza teatro, impasse dello spettacolo.
MINIMUM
FAX CINEMA
nuova
serie 8
Carmelo
Bene Contro
il cinema
I
edizione cartacea: febbraio 2011