Si sforzò di riconoscere questa voce, e fissò avidamente il viso che
lentamente s ’innalzava verso di lui.
Nessuna rassomiglianza con
quelli della Visione. Lui conosceva il proprio viso, poiché l’aveva
visto, nella cella, riflesso su qualche minuscola superficie
metallica, e confrontò il ricordo con l’immagine che gli si stava
rivelando, scoprì quant’erano simili: la stessa tinta pallida e
molliccia e tempie incavate, l’identico colore vetroso degli occhi.
Mormorò:
“Un essere umano, visibile, qui, nel Sistema? Carne... vera carne?”
L’altro
ormai sfiorava i suoi piedi: “Voglio vedere la Superficie.”
Lui non
liberò il passaggio: “Tu sei...?” L’altro l’interruppe: “lo
sono Rana... almeno attualmente. Tu mi conosci.”
Lui pensò
a tutte le conversazioni, laggiù:
“Ma
è possibile parlarsi senza l’interfono?”
“Si,”
lei disse. E ripeté: “Voglio vedere la Superficie. ” Salì un
altro gradino.
“Non
mi devi toccare, ” aggiunse lui, vivacemente.
“Perché?
Niente lo proibisce. ” .
L’eventualità
d’un contatto umano lo sconvolse. Il fatto, inspiegabilmente, lo
irritò.
Finalmente, si fece da parte sulla sbarra metallica,
permettendole di affacciarsi all’esterno. Non riuscì a reprimere
un gesto di disappunto, quando lo sfiorò. In apparenza insensibile,
lei fronteggiò la luce abbagliante del sole e le raffiche del vento.
Lanciò
un grido: “Lassù!” Indicò con la mano e lui vide un uomo,
l’incredibile spettacolo di un uomo sulla Superficie. Era
appollaiato sul punto più alto di una roccia... completamente
inserito nel mondo esterno; fissava il cielo o l’orizzonte. All’
improvviso saltò nel vuoto.
“Si
è suicidato,” osservò Rana. Indicò una massa confusa, più
vicina:
“Alberi (alberi), villosità della terra, vergogna della
roccia che li nutre.”
Blues.
Io ho. Più Blues di quelli per i quali tu puoi dimenare le chiappe.
Kierkegaard Blues, eccoli qui, ragazzo, un sussulto e una
Contorsione. Ho persino il Blues del giornale. O, completamente
folle, il Blues del Blues. Niente mi sfugge. Tutti questi Blues sono
cose nelle quali ti imbatterai. Io ho soltanto visioni e parole e
ombre. lo ho la tua visione nelle mie dita. Qui è tutto ciò che tu
pensi. E fuori di questa tenda, il resto della tua vita.”(1)
Lonesome Day Blues**
Con
Sartre, un uomo bianco, è all’ultimo
respiro. Noi preghiamo che muoia prima
d’essere ucciso. Non abbiamo plastico,
solo aguzze eroiche lame. Il rasoio.
La nostra frusta su di loro, perché portate
dei coltelli? o informi blocchi
di cuore‘? Perché restate dove loro possono
arrivare?
***
...possa
un perduto dio damballah darci salvezza o quiete contro
i ben conosciuti assassini contro i figli
di lui bianchi perduti! Dada, negro,
nichilismo negro, black dada nihilismus.
La
logica del ghetto urbano
Avevo
una donna, un tempo, che abitava sulla collina, Avevo
una donna, un tempo, che abitava sulla collina, Impazziva
per me perché lavoravo all’acciaieria di Chicago. Peetie Wheatstraw
Una
vasta serie di motivazioni, non solo storico-economiche, ma anche di
carattere psicologico, si trovava a monte del fenomeno migratorio
delle comunità nere del Sud verso le metropoli del Nord, quale andò
verificandosi fra il 1910 e il 1920, dopo che per secoli il Sud
aveva rappresentato il centro rurale più consistente entro cui
collocare un consapevole stato di degradazione umana. E certo che sul
fenomeno ha influito notevolmente il processo di trasformazione
degli USA da paese artigiano in paese industrializzato, ed è anche
vero che, almeno alle apparenze, andava realizzandosi una parallela
opera di pacificazione fra i due fronti, che la guerra civile aveva
diviso, ma accanto a tali individuazioni va considerato un
contemporaneo riscatto della coscienza che spinge l’afroamericano a
riconoscere nelle grandi città quella terra promessa che il vecchio
e decrepito Sud, con tutte le sue secolari anomalie persecutorie, non
poteva più configurare.
Quando Leroi Jones parla del Nord come di
un "nuovo Giordano" sostitutivo di quel Padre-Fiume che per
l’afroamericano rappresentava "la scena del delitto",
consumato dai bianchi attraverso tutta una densa accumulazione di
repressioni morali, civili e materiali, coglie nel segno di una
condizione psicologica che va mutando e che troverà almeno
all’esterno una nuova connotazione.
Sovraccarica e ingombra del
gran peso dei ricordi di dolore e di pena, di miseria e di morale
devastazione, la mente del nero, di fronte al sentore di liberazione,
e di guadagno, che il Nord va configurando davanti alla sua
coscienza, finisce per marcare i toni del proprio rancore verso la
terra del delta, vista ormai come luogo di dannazione, come un
infernale paesaggio da dimenticare.
La
fuga dai luoghi dove era stato consumato il crimine della schiavitù,
e poi della fittizia emancipazione, ebbe inizio appunto all’alba
degli Anni Dieci e spinse una massa enorme di neri verso le città di
Chicago, Detroit, New York, Filadelfia, alla scoperta di un’America
diversa e più umana, individuabile nella pubblicistica del tempo in
tre concetti, Lavoro, Casa, Dignità che rappresentavano per gli
afroamericani altrettanti motivi di identificazione di se stessi e
di liberazione.
Perde così il Giordano-Mississippi la sua
soprannaturale configurazione, e assume la più reale parvenza di
area liberatoria entro la quale poter sistemare la forte esigenza di
ricostruire quel nucleo comunitario che i campi di fango e di
trementina avevano rapidamente dissolto.
È chiaro che al nodo di
tali motivazioni, è possibile individuare tutta una serie di
concause che servirono ad accentuare il fenomeno, come ad esempio il
desiderio di una maggiore libertà, e magari di poter uscire la sera
dopo le dieci, consuetudine proibita in molte città del Sud.
Racconta Leroi Jones:
“Ci fu qualcuno, come mio padre, che se ne
andò dopo una serie di sterili alterchi con le zelanti maschere di
vari cinematografi; altri, come mio nonno, per mettersi in affari un
po’ più fortunati, perché due drogherie e un’impresa di pompe
funebri gli erano state bruciate in Alabama; insomma, le ragioni
potevano essere molte, ma comunque il Nord era divenuto sinonimo di
una nuova vita, forse più umana.” (2)
Furono soprattutto le
grandi fabbriche del Nord a configurarsi come la materializzazione
del sogno accarezzato nelle capanne del Sud e fra i campi di cotone:
ma la smentita non tardò molto ad arrivare e si colorò delle fosche
tinte di una nuova sopraffazione:
“Nelle acciaierie molti lavori
erano limitati ai bianchi, ma ‘ai forni’ - racconta Paul Oliver -
c’era sempre posto per i neri; pochi altri, infatti, avrebbero
accettato di lavorare a quel calore quasi insostenibile. I lavoratori
dei campi soppesavano bene gli svantaggi prima di allontanarsi dalle
loro case; ma le fabbriche di Bessemer e di Gary avevano bisogno di
manodopera, e loro partivano.” (3)
Una condizione umana degradante,
come si vede, sulla quale tuttavia agiva come momento alienante e al
contempo liberatorio, il senso di gratificazione che proveniva
all’afroamericano dall’assunzione di responsabilità mai avute
fino ad allora. Sarebbero bastati cinque dollari al giorno, amava
dire Mr. Ford, per far muovere un nero da qualunque luogo del Sud e
farlo mettere in coda davanti agli uffici di collocamento. Tutti i
blues dedicati alla Ford, del resto, testimoniano fino a qual
punto il miraggio funzionava per intere comunità vissute per tanto
tempo nella più assoluta miseria.
Se
Detroit, con la Ford e la prospettiva dei cinque dollari al giorno,
rappresentò un richiamo irresistibile per tante masse di
afroamericani in fuga verso le regioni del Nord, fu Chicago
indubbiamente il maggior punto di riferimento del fenomeno
migratorio. In dieci anni, non meno di sessantamila neri si diressero
verso la “Black Metropolis” dell’Illinois, alla disperata
ricerca di un lavoro, di una responsabilità, di una liberazione. Ma
soprattutto di una identificazione in grado di affrancarli
definitivamente da quella prigione della nothingness che per
anni aveva rappresentato il più drammatico tema dell’ esistenza. C’è anche da dire che il fenomeno, pur essendosi accentuato fra
gli Anni Dieci e Venti, si era già iniziato prima, all’indomani
della guerra civile, e non aveva riguardato soltanto le comunità
nere del Sud, ma più vastamente anche popolazioni provenienti
dall’Europa, e specialmente dall’Irlanda.
Statistiche molto
attendibili parlano di una escalation di incredibili proporzioni: nel
1900 Chicago contava 1.698.575 abitanti, con una presenza di
trentamila neri; nel 1920, su due milioni e mezzo circa di abitanti,
i neri sono già più di centomila, divengono più di duecentomila
nel 1930 e nel 1940, su una popolazione di 3.396.808 abitanti, i neri
sono 337.000. Un processo di massificazione, come si vede, al quale
inutilmente i bianchi, anche immigrati, cercarono di porre rimedio
opponendosi duramente: in alcuni casi, venivano persino accusati di
essere incitati e assoldati da spie tedesche, un luogo comune
quest’ultimo molto in voga presso la popolazione razzista della
città, secondo il quale i tedeschi si servivano dei neri per
sovvertire l’ordine costituito negli USA. Fu, proprio tale
circostanza a dar vita a quella “cintura” di sicurezza che prese
poi il nome di “ghetto”, ad indicare il recinto entro il quale
una comunità umana viene ad essere segregata, con tutti i
contraccolpi psico-sociologici che si possono immaginare.
Col
passare degli anni, il fenomeno della segregazione nel ghetto urbano
assume aspetti sempre più macroscopici e alienanti, a Chicago come a
New York, a Pittsburgh come a Cleveland, a Detroit, anche se si deve
aggiungere che tale processo di coagulazione entro quartieri e confini
ben precisi, determina talune forme di innovazione e di miglioramento
nelle strutture sociali delle comunità afroamericane. Pur non avendo
trovato quella terra promessa che pensavano di incontrare muovendosi
dal Sud, i neri immigrati non si trovarono di fronte un muro di
ostilità come era accaduto sulle rive del Mississippi, almeno in un
primo tempo: essi infatti, all’alba del flusso migratorio, ebbero
i loro giornali, i loro circoli ricreativi, le proprie organizzazioni
culturali. Solo in un secondo tempo la discriminazione si accentuò e
cominciò ad assumere gli aspetti esasperanti che sappiamo: e non
sembri ciò un paradosso, se si pensa che la popolazione bianca
cominciò ad essere impensierita e preoccupata dal dilagare di forme
di promiscuità caratterizzate da un buon numero di matrimoni misti e
di altre forme di convivenza.
Il contraccolpo di tale situazione fu
l’irrigidimento e un più severo controllo che determinò un
accentuarsi della logica del ghetto urbano, cui i neri risposero con
tutta una serie di strategie disperate nelle quali l’universo della
segregazione razziale finì per assumere un ruolo sempre più
drammatico. È vero infatti quanto afferma Gorlier:
“La grande,
fondamentale differenza tra la condizione negra nel Sud e nel Nord
consisteva nel fatto che al Nord il negro poteva essere segregato,
respinto in molti lavori pubblici, assalito a tradimento, ma rimaneva
in possesso pieno dei suoi diritti politici”; (4)
ma è anche vero
che la realtà del ghetto urbano determina una congerie di fenomeni
sociologici e psicologici di notevole entità, che agiranno sui
comportamenti e che si rifletteranno poi nei contenuti dei blues
nati da tale nuova condizione di vita.
Lo
psicologo nero Kenneth B. Clark ha esaminato attentamente le
strutture sociopsicologiche del ghetto urbano, ricavandone notazioni
di fondo essenziali per comprendere da un canto la strategia del
comportamento dell’afroamericano soggetto all’universo della
recinzione, dall’altro le ragioni di una scelta tematica come
quella del classic blues, in bilico fra una condizione umana
subliminare e disperata e quel fondo di nostalgia che sospinge di
continuo il blues-singer urbano verso il ricordo del suo fiume
e delle terre del Sud che ha dovuto lasciare.
Jimmy Rushing
Il senso percettivo del
distacco fra realtà e sogno opera in modo determinante sulla
coscienza del nero che vive nel ghetto, perché la possibilità che
gli viene offerta di uscirne quando vuole e di osservare i moduli di
vita del bianco provoca in lui una facoltà di ribellione che
altrimenti non avrebbe: in tal senso è legittima l’osservazione di
Clark secondo cui
“se il ghetto potesse essere completamente
isolato le possibilità di una rivolta sociale diminuirebbero o
addirittura scomparirebbero del tutto,” (5)
poiché il
bombardamento a tappeto cui viene sottoposto dai miti della classe
media americana agisce su di lui come notazione alienante che altera
e deforma l’equilibrio fra il vero e l’immaginario, e quindi fra
realtà e sogno:
“Gli oppressi non sapranno mai con certezza se il
loro fallimento riflette una inferiorità personale o la realtà del
colore della pelle.” (6)
Tale logica coinvolge gli abitanti del
South Side di Chicago come quelli di Harlem a New York, e ancora i
segregati di Detroit, di Cleveland, Filadelfia: si tratta di un
processo ritardato e disgregatore della maturazione che coinvolge
soprattutto i giovani e in questo senso l’autobiografia di Malcolm
X è molto probante. Ma l’universo di
alterazione psicologica non si esaurisce entro tale contesto, bensì
finisce per ampliarsi e impegnare altri fantasmi e più drammatiche
realtà...
Jimmy Yancey
***
* Tratto da Il Blues e l’America nera
di Walter Mauro. Garzanti 1977
** Lonesome Day Blues. Jesse James,
voce e piano, Chicago 3 giugno 1936. Con questo nome (o pseudonimo) si
presentò ad uno studio di incisione della Decca un carcerato probabilmente in
libertà provvisoria. Incise quattro brani ( di cui solo tre apparsi) di
straordinaria asprezza ed intensità, accompagnati da un pianoforte in vigoroso
stile barrelhouse; quindi fu di nuovo inghiottito nell’oscurità. James
ha fuso insieme con pregnante originalità strofe della tradizione carceraria
con altre che di solito vanno sotto il titolo si Stop ad Listen o di Smokestack
Lightning. (nota da Il Blues, Rurale – Jazzistico – Urbano, di Alessandro
Roffeni, Editoriale Sciascia 1978)
note
1
Leroi Jones, The System of Dante’s Hell, New York 1965; trad. it.
Il Predicatore Morto.
2
Leroi Jones, Il Popolo del Blues
3
Paul Oliver, Blues Felt This Morning, London 1960.
4
Claudio Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti
Il
percorso dell’avventura umana non è per nulla ineluttabile, lo
sappiamo bene. Se 66 milioni di anni or sono non fosse piovuto dal
cielo un certo sassolino, a dominare in questo pianeta sarebbero
probabilmente ancora dei rettili giganteschi.
E chissà quanti altri
analoghi petardi ci hanno mancato per un colpo di vento divino. Del
resto era già tutto scritto, altrimenti Gesù e Maometto non
sarebbero mai nati. Se poi siamo passati dalle palafitte ai
grattaceli, dalle lucerne ad olio alle lampade a Led, da Michelangelo
Buonarroti a Michelangelo Pistoletto, qualcosa vorrà pur dire.
Anche
se forse non ce ne rendiamo ancora ben conto, stiamo incominciando a
vivere tempi molto interessanti. Almeno noi che non viviamo sotto i
cieli intensi di Siria e Afghanistan. Per molti aspetti è in atto
non solo una cesura col Novecento ma con gran parte della nostra
storia precedente.
Nonostante miliardi d’individui stentino a
campare, si fa sempre più leggibile la possibilità di separare
l’economia dalla vita, dal nonsenso dell’impero del valore di
scambio, dalla funzione che aliena il lavoratore, dalla curva
variabile dei mercati che decide a distanza il destino dell’umanità.
Il
capitalismo esibisce la sua verità e la sua menzogna e mette in
scena il proprio fallimento con la stessa dedizione con la quale
aveva messo in piedi lo spettacolo del benessere per tutti e senza
fine. Ormai sono degli organismi privati che si sostituiscono allo
Stato borghese vacillante, gestiscono tutto, dalle carceri alla
miseria, dalla previdenza sociale al gioco d’azzardo, dall’acqua
a ogni tipo d’inquinamento.
Ciò segnala l’imminenza del diluvio
e la necessità di costruirci un’arca dove trovare posto. È già
ciò che hanno fatto, mentre molti di noi s’attardano con elezioni
e sondaggi, i ricchi nei loro rifugi esclusivi e sorvegliati.
La
disoccupazione e il precariato di massa sono aspetti della
contraddizione crescente tra sviluppo delle forze produttive e vecchi
rapporti di produzione, contraddizione che deflagrerà per alcuni dei
motivi apparentemente casuali che si sono andati accumulando.
E, al
solito, si guarderà a quei motivi trascurando il fattore dinamico
per eccellenza del capitalismo, quel fattore che il professor
Cacciari chiama “risparmio di lavoro necessario”. E tutto ciò
non perché la produttività del lavoro cade ma anzi perché è
aumentata enormemente.
Questa
realtà in qualche modo si sta chiarendo anche al senso comune,
insinuando possibilità che però non avranno futuro se non si
procederà con un violento rovesciamento dell’attuale sistema
coercitivo di estrazione del plusvalore e dunque, cosa che ogni
benpensante piccolo borghese trascura, con il superamento del
carattere di classe del processo lavorativo (e distributivo).
È
tutto interesse degli ex rigattieri del marxismo, al servizio della
borghesia, far credere ai fanciullini che blaterano di salario di
cittadinanza che attraverso un riformismo di facciata sia possibile
risolvere le catastrofi della società borghese.
Questi
fanciulli pensano che siano fatti neutrali la scienza e la tecnica,
le relazioni mercantili, il processo lavorativo capitalista e, per
analogia, quello di ricevere dei sussidi per campare senza lavorare.
Che ciò non implichi invece l’assoggettamento e l’esautorazione
dei proletari dalla sfera economica, il controllo e il ricatto
politico di qualsiasi loro iniziativa.
Allo Stato, espressione degli
interessi della borghesia, per esercitare le proprie prerogative e
rigori, basterà, in nome delle sovvenzioni accordate ai cittadini,
escludere o revocare i suoi benefici a coloro i quali avranno
demeritato i suoi temibili favori (il terrorismo previdenziale, anche
se vicenda assai diversa per certi riguardi, dovrebbe illuminare).