uno dei due è l'altro

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giovedì 15 giugno 2017

Dall'odore della carta. Alcesti. Rainer Maria Rilke










Fin dall’inizio questo artista, che nella sua fragile figura appariva la più preziosa incarnazione dell’estetismo fin de siècle, tende oltre i limiti dell’arte... Rilke doveva privarsi  negli anni di ogni più facile motivo di ricchezza. Così da trattenere per sé appena una materia, dura  ed opaca, sicuramente posseduta. Nell’aridità di questa materia, inquadrate da pochi segni astratti, egli avrebbe descritto le sue ultime figure e tentato con una voce ormai spoglia l’ultima resistenza delle cose:

Un albero forse ci resta lungo il pendio
da rivedere ogni giorno. Ci resta la strada di ieri.


da "Nota a una traduzione", di Giaime Pintor.






Alcesti


A un tratto il messo era comparso, come
un nuovo giunto, immerso nel tumulto
della festa di nozze, fra la gente.
Ed essi, i bevitori, non sentirono
il dio dal chiuso andare, che portava
la sua divinità come un mantello
umido, e parve loro uno dei tanti
mentre passava. Ma improvvisamente
vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti
a capo della tavola lo sposo
come non piú giacente, ma rapito
in alto, rispecchiare dal profondo
un’ombra estranea che paurosamente
gli si volgeva... E subito fu chiaro,
fu calma, solo con un resto
a terra di torbido rumore, un gorgogliare
di balbettii cadenti, già corrotti,
di sorde risa trattenute. Allora
riconobbero il dio, l’agile dio,
che stava, pieno della sua missione,
implacabile, – e quasi si comprese.
Pure, quando fu detto, parve piú
d’ogni scienza, non cosa da comprendere.
Deve morire Admeto. Quando? Adesso.
Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani,
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò,
come gridò sua madre al nascimento.

Ed ella venne a lui, la vecchia donna,
ed anche il padre venne, il vecchio padre,
e stettero invecchiati, incerti, presso
lui che gridava e a un tratto fissò in loro
lo sguardo, s’interruppe, inghiotti, disse:
«Padre,
importa molto a te di questo avanzo
di vita che ti vieta ormai l’amplesso?
Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna,
Matrona,
perché vivi tu ancora? Hai partorito».
E li teneva vittime all’altare
in una presa. A un tratto lasciò i vecchi,
li spinse via da sé, mentre chiamava
anelante, ispirato: Kreon, Kreon!
E solo questo, solo questo nome.
Ma sul suo viso quello che non disse
era impresso in attesa senza nome;
e ansante verso il giovane, il diletto
amico, oltre la tavola sconvolta
si protendeva: i vecchi, vedi, sono
consunti – misero riscatto – e poco
valgono, mentre tu nella pienezza...

Ma l’amico era come dileguato.
Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse piú di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene... (e subito sarà
tra le braccia che s’aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch’ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d’oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.

Nessun morente piú di me, che vengo
perché tutto, sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.
Come la brezza che si leva al largo,
il dio s’avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall’uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l’uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente...
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere piú che quel sorriso.


Traduzione di Giaime Pintor




Durante il suo soggiorno a Capri, nel 1907, Reiner Marie Rilke compose il poemetto Alkestis, che si ispira, oltre che alla tragedia di Euripide, al bassorilievo Il sacrificio di Alcesti conservato a Villa Albani a Roma. Rilke si scosta dal modello euripideo e dalla versione più diffusa del mito collocando la morte di Alcesti nel giorno stesso delle sue nozze con Admeto. Un motivo, questo, che si trova in racconti folklorici nei quali la Morte si presenta alla festa di nozze per rapire la giovane sposa. Nella prima parte del poemetto viene descritto l’arrivo alla festa nuziale di Hermes, il messaggero degli dèi e lo psicopompo, colui che accompagna i defunti nell’Ade. Egli viene ad annunziare che Admeto deve morire quello stesso giorno. Il dio si aggira nel tripudio della festa senza che nessuno degli invitati lo noti, finché uno non si accorge, dal viso turbato di Admeto, che qualcosa di orribile sta accadendo. A questo punto, cala il silenzio nella sala. Nella seconda parte del poemetto viene descritta la disperazione di Admeto, il quale chiede ai genitori di sostituirlo nella morte: essi non adducono argomentazioni per rifiutare il loro aiuto (come invece avviene in Euripide e nell’Alcestis Barcinonensis). Rimangono attoniti «davanti al figlio urlante». Ed ecco che si fa largo tra la folla degli invitati silenziosi Alcesti, nel suo abito da sposa, e si rivolge direttamente a Hermes offrendosi spontaneamente al sacrificio. Nell’epilogo il poeta descrive l’uscita di Alcesti, scortata da Hermes psicopompo. Admeto barcollando si dirige verso di loro, protendendo invano le mani «come in un sogno», mentre la sposa gli rivolge un sorriso di addio. In questa originale riscrittura del mito, Alcesti non è più modello di fedeltà e di dedizione coniugale: il suo sacrificio infatti si compie prima che la vita matrimoniale abbia inizio. Interessante è inoltre, nel poemetto di Rilke, il ricorrente riferimento all’identità ErosThànatos, esplicitata dalla frase rivolta da Alcesti a Hermes: «Non te l’ha detto, la dea che ti manda, che quel talamo, che là dentro attende, agli Inferi appartiene?» che rimanda al valore archetipico, da noi già rilevato prima, della coppia Admeto-Alcesti come doppio della coppia Ade-Persefone










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