uno dei due è l'altro

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lunedì 26 ottobre 2015

Ambigui Androidi. (P.K.Dick alla fine del millennio)






Certo l'oscurità ci avvolge minacciosa. Ma coraggio! Intanto l'articolo di Carlo Formenti che presento in questo post completa, chiarisce e focalizza su Dick alcuni aspetti del precedente "Il Dio della Rete" pubblicato qui tempo fa. 

In sostanza, come in ciascuno dei decenni appena passati, si tratta, per me, con adolescenziale emozione, di riavvicinarmi a questo scrittore.

Come il rientrare in una casa dal respiro secolare, di cui si continua nei decenni, e per tutta la vita a ripercorrere le stanze, nella speranza inconfessata di carpirne un segreto.
Dick non è per nulla sottile, ha mura solide, anche troppo massicce. Il suo pensiero rifugge la "debolezza", investe totalmente l'umano, il sacro e la merce, senza reticenze né timori, con tratti vigorosi.
La potenza della sua visione, che sfiora i territori della follia, solca il campo del cosiddetto postmoderno da mezzo secolo, sempre con ineguagliato vigore 
e sorprendente efficacia.
Da questo scritto di Formenti sono passati 18 anni. Allora si riscopriva Dick alla luce dell'ondata cyberpunk, in un clima, per molti, ancora ottimistico di "fine della storia"; nella pacificata egemonia, sembrava, di un capitalismo vincente e anche,
 per alcuni, generoso.
Da allora, un millennio è finito. Un altro è iniziato, tra i bagliori di guerre imperialistiche e le angosce di una crisi epocale e devastante che sconvolge, in nome del dio Mercato,  gli assetti del mondo e le nostre vite. Una crisi di cui stentiamo a vedere vie di uscita.
Continuiamo, come certi cari personaggi dickiani, mentre il mondo vacilla, a scrutare nel buio, circondati da feticci, tra esseri, processi e forze disumane di cui spesso ci sfugge il senso, in un intrico di false verità mediatiche e gelidi universi paralleli.
Ma, oltre alle normali incombenze e contrarietà della vita, abbiamo ancora degli amici e quindi delle speranze. Dick, per esempio, è ancora con noi. Forse non possiede il trascendentale e miracoloso Ubik con cui riparare le crepe del nostro decadente universo, ma ci porge sempre, attraverso la sua opera, la propria preziosa umanità
e il proprio profondo sguardo. A presto.




di Carlo Formenti
da erewhon (1998)





Un brillante saggio del critico americano Mark Dery (Velocità di fuga, Feltrinelli 1997) descrive le cyberculture come un insieme di culti che confluiscono in un'unica, grande rivelazione "tecnoescatologica" di fine millennio. Hacker, raver, tecnopagani, tecnofili new age, nerd: secondo Dery, sono forse trecentomila (in gran parte californiani, bianchi, artisti, intellettuali o comunque appartenenti a livelli socioculturali medio-alti) gli adepti di un sentimento religioso di tipo nuovo, che si esprime attraverso fantasie di trascendenza che alludono alla liberazione di un presunto soggetto "postumano" da ogni limite,
 fisico o metafisico.

 Il "paradiso della tecnica" su cui ironizza Emanuele Severino, nelle sue analisi critiche degli esiti della tradizione metafisica occidentale, sarebbe insomma un'immagine che, per molti americani, coincide con una rappresentazione realistica del nostro immediato futuro. Rappresentazione paradossalmente ispirata da quella visione tecnoscientifica che, dopo aver prodotto il vuoto spirituale, 
offre oggi il materiale immaginario per un reincantamento del mondo.

Dery chiarisce di non parlare della scienza e della tecnologia in quanto tali, ma delle storie che noi ci raccontiamo a proposito della scienza e della tecnica, di quella che definisce una "politica del mito". Mito che si identifica con il sogno bionico di diventare tutt'uno con la macchina: dall'estetica delle protesi, elaborata dal performer Stelarc, al cyberspazio di William Gibson; dalle battaglie fra robot messe in scena dai Survival Research Laboratories alla pornomeccanica di Ballard e Cronenberg; dalle fantasie di registrare una mente nella memoria di un computer, in modo che sopravviva alla morte del corpo, alla realtà degli esperimenti di collegamento diretto
 fra protesi elettroniche e terminali nervosi.







 Sono scenari che aiutano a rimuovere la scomoda e paradossale condizione umana, che consiste nell' "avere" e al tempo stesso "essere" un corpo. Chiedendoci perché dovremmo accettare che la nostra mente debba morire assieme al corpo che la ospita, finiamo per sognare sempre più spesso una immortalità ottenuta emancipandoci da un corpo anacronistico, "obsoleto". Abbiamo cessato di adorare Dio, "il verbo che si è fatto carne", per impegnarci a creare un Dio futuro che sarà piuttosto "carne che si è fatta verbo". E l'altare su cui si celebrano i riti della tecnotrascendenza è il computer, scatola magica capace di convertire parole in fatti, simboli numerici in realtà 
(virtuale e immortale).

Dery registra il paradossale esito della svolta "tecnofila" delle controculture americane: dopo tanto blaterare contro le concezioni meccaniciste del mondo, hanno finito per celebrare la vecchia fantasia cartesiana che induce il soggetto a identificarsi con la mente, alimentando le nostre illusioni di "avere" un corpo. Il meccanicismo trionfa, travestito da spiritualismo tecnologico. Ma l'aspetto più originale dell'analisi di Dery consiste nel rintracciare il filo rosso che, contro ogni apparenza, 
unisce la tecnofilia punk di oggi alla tecnofobia hippie di trent'anni fa.

 A parole, i freak degli anni '60 erano pastorali e romantici, antiscientifici e antitecnologici, detiti al culto della corporeità, seguaci di filosofie olistiche orientaleggianti. Nei fatti, la loro esperienza più caratteristica non consisteva nel danzare nudi nei prati, bensì nello stonarsi ai concerti di rock acido; e la "consapevolezza cosmica" preferivano realizzarla istantaneamente, attraverso mezzi chimici, piuttosto che seguendo lunghi percorsi di ricerca interiore. A cambiare, più che la "filosofia" dei movimenti, sarebbe stato insomma il tipo di tecnolgie su cui viene proiettata 
un'aura di sacralità. 

L'idea di un Dio a venire disincarnato, "mentale", era già presente nell'immaginario della teoria dei sistemi, nell'ecologia cibernetica di Gregory Bateson, nell'evoluzionismo alla Teilhard de Chardin, nella mistica New Age che ha fatto da ponte fra tradizione hippie e componenti cyberdeliche del punk.
Un indizio che conferma questa tesi "continuista" di Dery, fondata sull'elemento mistico dei movimenti controculturali, è la straordinaria popolarità postuma che sta vivendo l'opera di Philip K. Dick.

 A giustificarla non bastano lo straordinario talento visionario dello scrittore (forse il più geniale autore di fantascienza), né il successo di film come Blade Runner e Atto di Forza, tratti dai suoi racconti. Allo smaliziato pubblico del cyberpunk, infatti, il suo immaginario tecnologico dovrebbe apparire ingenuo e datato (i romanzi più importanti risalgono agli anni '60). E, a quello stesso pubblico, la filosofia dickiana dovrebbe suonare catastrofista e "tecnofoba". Ma le cose stanno davvero così?






A leggere quanto scrive Dick in alcuni saggi e articoli critici (raccolti in Mutazioni, Feltrinelli 1997), pare di sì: "Nell'universo esistono cose gelide e crudeli, a cui ho dato il nome di macchine"; "L'androide è una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile"; "L'intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono tendendoci la mano"; "Un essere umano privo di empatia 
è identico a un androide costruito senza di essa"

Non sembrano sussistere margini di equivoco: gli androidi di Dick non sono macchine "neutre" che, come i robot di Asimov, possono procurare danni solo se si guastano, ma entità demoniache, tanto più insidiose in quanto coabitano con una umanità alla quale l'alienazione tecnologica ha strappato l'empatia, la capacità di identificarsi con il prossimo, ciò che rende ancora più difficile distinguere gli originali umani 
dalle loro copie bioniche.

Ma se analizziamo i testi narrativi invece degli articoli l'ambiguità salta fuori. Esaminiamo per esempio i brani che abbiamo scelto da quattro romanzi, partendo da Abramo Lincoln Androide (We Can Build You, scritto nel 61-62 ma pubblicato solo una decina di anni dopo). Nel dialogo fra la copia bionica di Lincoln e il magnate Barrows, le simpatie dell'autore vanno evidentemente al primo più che al secondo, e non meno evidente è ciò che Dick cerca qui di dimostrare: dichiarando che "l'anima non esiste", Barrows mette il suo interlocutore artificiale nelle condizioni 
di negare ogni sostanziale differenza fra macchina, animale e uomo. 

Nell'altro brano tratto da questo romanzo vediamo il protagonista Louis Rosen che provoca il suo analista dichiarandosi convinto di essere una macchina. Ma in qualche modo finisce per credere lui stesso alla sua fantasia: reso anaffettivo dalla vita che è costretto a condurre, Rosen "sa" di non essere diverso da una macchina, 
quindi, pur mentendo, dice la verità...

Nel frammento tratto da Simulacri (The Simulacra, del '64), l'orrore torna a prevalere sulla fascinazione. "Per tutti questi anni abbiamo adorato un fantoccio. Un essere inerte e privo di vita". Così medita il dottor Superb nell'apprendere che il Presidente americano, der Alte, non è altro che una sofisticata creazione tecnologica della multinazionale tedesca Karp. In questo libro risuonano motivi analoghi a quelli trattati nella Svastica sul Sole: il conflitto con la macchina di sterminio nazista ha contaminato la cultura americana, il potere si è disumanizzato, fondandosi sul dominio e sulla manipolazione tecnologica (l'impostura mediatica) 
al punto da divenire esso stesso macchina.

Radicalmente ambiguo appare invece il lungo brano che proponiamo da Blade Runner (Cacciatore di androidi nella prima edizione italiana, Do androids dream of electric sheep? in quella originale, del '68). Il dialogo fra il protagonista Deckard e il collega cacciatore di androidi Resch è reso tragico dalla diffidenza reciproca: chi dei due è veramente umano e chi è un androide? Una paranoia circolare e senza fine, perché, come ha ben capito Deckard, è la stessa spietata indifferenza del cacciatore per la preda non umana a renderlo a sua volta non umano, e quindi del tutto simile alla preda. 

Ma è ciò che rende ancora più tragico il dialogo è il tema dell'attrazione sessuale dei cacciatori umani per le androidi femmina: Deckard sa di essere affascinato dalla preda, catturato da una splendida immagine anche se è consapevole che dietro a quell'immagine non c'è un'anima. Resch lo invita a superare il conflitto "andandoci a letto e poi ammazzandola" (tanto "amore è solo un altro nome del sesso"). Ma Deckard sa che per lui questo sarà impossibile: se non cedesse all'amore, 
non potrebbe più riconoscersi diverso da un androide...

E un'ambiguità ancora più profonda abita le pagine del romanzo Le tre stimmate di Palmer Eldritch (The Three Stigmata of Palmer Eldritch, del '64), forse il capolavoro di Philip Dick, dal quale abbiamo scelto il brano che si riferisce all'incontro del protagonista con Eldritch (o meglio con una sua immagine virtuale). Si tratta dell'incontro con un'entità tre volte ingannatrice: in primo luogo perché Eldritch non è veramente presente, poi perché il suo aspetto è parzialmente inumano (gli occhi a telecamera, il braccio e i denti d'acciaio), infine perché dietro tale aspetto si cela un essere che non è per nulla umano, un essere alieno se non addirittura divino.

 E tuttavia il romanzo non scioglie mai, nemmeno alla fine, il dubbio sulla vera natura di Eldritch: simbolo di un potere terribile perché sfrutta le illusioni indotte dalla droga, ma che potrebbe malgrado tutto rivelarsi benefico, anche se in un modo che gli esseri umani non comprendono, e che perciò li fa soffrire. Ed è proprio questa la dimensione misterico-religiosa che, secondo Dery, accomuna le controculture americane degli anni '60 a quelle di oggi: una dimensione gnostica in cui bene e male si scambiano continuamente le parti, nella quale la tecnica appare, di volta in volta, un potere demoniaco o salvifico, comunque divino.

Negli ultimi anni di vita Dick dimostrò di essere perfettamente consapevole delle venature neognostiche della sua opera, al punto da teorizzarle esplicitamente nella Esegesi (il momumentale diario di 8.000 pagine, in minima parte pubblicato, di cui si possono leggere alcuni brani nella già citata antologia critica Mutazioni).


Ricordiamo che gli antichi gnostici erano convinti che il mondo in cui viviamo è la creazione illusoria d'un cattivo demiurgo, che la realtà sensibile e il tempo sono un velo di Maja che ci impedisce di ricordare la nostra vera natura di "esuli", di frammenti della divinità trascendente dispersa nel mondo materiale e, infine, che solo riacquistando la memoria potremo liberare noi stessi e la divinità di cui siamo parte, restituendo all'universo l'unità e l'armonia primordiali. 

Dall'Esegesi apprendiamo che Dick identifica il cattivo demiurgo con la tecnica, dilatando l'ossessione dell'androide fino a qualificare l'intero universo come "macchinazione", "destino meccanico" a cui solo l'instaurazione d'un "cosmo pensante" porrà termine. Ma per instaurare il cosmo pensante occorre recuperare la nostra "vera" memoria, che non è una memoria individuale: "Siamo bobine di memoria all'interno di un sistema pensante, la nostra anamnesi è fondamentale per il funzionamento generale del sistema".

Ed è a questo punto che la condanna della tecnica si rovescia nel suo opposto, con un colpo di teatro che assimila la "teologia" di Dick a quella del più sofisticato dei maestri gnostici, Valentino. L'oblio è necessario: abbiamo dimenticato la nostra vera natura perché, ricordandola, potremo rimediare all' "errore" che nel passato ha determinato una frattura nella storia delle divinità. Ma se il male è necessario, esso non è veramente tale, nemmeno la sua incarnazione tecnica. E infatti, anticipando di vent'anni le utopie della comunicazione alla Pierre Lévy, Dick scrive: "La sfera della comunicazione ha acquistato vita propria, un Logos vivente, una mente collettiva indipendente dai nostri cervelli, un sistema titanico di intelligenza artificiale".

In altre parole, l'alienazione tecnologica ci aiuta a comprendere che la nostra vera natura è quella di "membra" della totalità divina: "Non siamo unità discrete ma campi che si sovrappongono". E ancora: "La Terra è un organismo vivente in costruzione, un Tempio in cui, non appena sarà ultimato, il Signore verrà immediatamente a dimorare"; "Egli non si limiterà a governare l'universo, sarà l'universo".

Questa professione di fede conferma la tesi di Dery in merito alla gnosi che attraversa come un filo rosso trent'anni di controculture americane, dagli psichedelici ai cyberdelici. E ci aiuta a capire perché il cyberpunk riconosca in un autore (apparentemente) tecnofobo come Dick il proprio antenato.





martedì 20 ottobre 2015

La Cantata Rossa per Tall El Zaatar

Gaetano Liguori, Giulio Stocchi, Demetrio Stratos - 1977 

Da Verso la Stratosfera




TRACKLIST:

01.  Fedayn 
02.  I 53 giorni
03.  Libertà subito
04.  Amna
05.  Piccolo Fadh
06.  La madre
07.  Sulle macerie
08.  La cantata rossa
09.  Fedayn





Il disco venne registrato nel 1976 nello Studio Zanibelli di Milano e riproposto in versione CD nel 2001 a cura dell'etichetta "Radio Popolare". E' un album assolutamente complesso, di difficile e lenta assimilazione. Le musiche sono state composte dal pianista jazz Gaetano Liguori. Le voci recitanti appartengono a Concetta Busacca, Giulio Stocchi e Demetrio Stratos (indimenticabile vocalist degli Area che ascoltiamo in Anma). Ci troviamo di fronte a 9 brani di puro free jazz, dove Gaetano Liguori è accompagnato dal fratello Pasquale alla batteria e da Roberto del Piano al basso. Sono andato a rileggermi le cronache che ricordano il massacro di Tall El Zaatar ("La collina del timo", in arabo), una bidonville alla periferia di Beirut-est, la cui popolazione, nel 1976, subì una pulizia etnica ante litteram, 
condotta dalle milizie falangiste cristiane 
per eliminare dalla parte orientale di Beirut, da loro controllata, 
qualunque presenza palestinese e musulmana. 


Gaetano Liguori

Gaetano Liguori nello stesso anno volle incidere un disco a memoria del massacro, insieme a Giulio Stocchi, poeta popolare nell'area del Movimento Studentesco. Le parti recitate, a distanza di quasi 40 anni, hanno perso il loro smalto: regge solamente il brano sorretto dalla potente voce di Demetrio Stratos, ispirato dalla drammaticità del racconto della violenza subita da Amna, una ragazzina dodicenne sopravvissuta al massacro e destinata a divertire i falangisti in un bordello. Sembra di rivivere la straziante scena di un film.  Decisamente fastidioso, in alcuni tratti, il recitato di Stocchi. Oramai perso nella memoria di quei tempi dove la canzone politica e certe sonorità jazz erano collocate nell'area della sinistra più estrema, il disco risente della polvere del passato che lo ricopre. Resta valida la riscoperta etnico-musicale di questo lavoro dimenticato dai più. 






Demetrio Stratos




Posted by George (with the help of Danilo)

giovedì 15 ottobre 2015

L’intelligenza del Capitale. Mito e realtà del General Intellect.


Contro chi per tagliare l'afferra
può vantarsi la scure?
o la sega di chi la muove può burlarsi?

Come se un bastone
volesse brandire chi lo impugna
e una verga sollevare
ciò che non è legno!*



Tratto dallo splendido
Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano 
di Sebastiano Isaia
che è possibile acquistare o scaricare in formato pdf qui.




Nell’ultimo prodotto editoriale di successo, la coppia Hardt-Negri ritorna a maltrattare indegnamente un concetto marxiano di grande significato teorico e politico: il General Intellect (1). Il loro nuovo best seller s’intitola Comune. Oltre il privato e il pubblico, ed esce in Italia sotto gli auspici del grande successo ottenuto negli Stati Uniti, non ultimo anche in grazia della crisi economica che ancora travaglia
 il Paese del Presidente «abbronzato».

venerdì 9 ottobre 2015

Il Dio della Rete

di Carlo Formenti
da erewhon (1998)






Dalla fine del passato millennio, depositato da un reflusso della Rete, che si suppone anomalo o casuale,  da virtuali abissi ora riemerge, qui fra le macerie del presente lacerato e indecifrato,  un reperto o grumo fascinoso, se non attuale, di cui a stento ancora si riconosce il senso, ormai quasi completamente  disperso. 

Ma che pure ci illumina e a tratti illumina gli odierni sinistri feticci, con quella dolce ed evasiva levità novecentesca; come se il nostro presente fosse stato, tra il sollevarsi e il ricadere di un sipario, solo uno, e fra i peggiori, possibili futuri.

 Ora si torna, fra bagliori, alla dura legge del Valore estratto con dolore: che lo scrivente allora, simile ad ameba felicemente vagante, o mistico animato pellegrino, per le vie e le estese conurbazioni, estasianti ed estenuanti, di una amèna e "reticolare" metropoli del nord, marxianamente e dickianamente, in agnostica solitudine scrutando, tra un punto luminoso e l'altro (vapori dilaganti di mercurio o sodio), ahimè, ignorò.*




sabato 3 ottobre 2015

Archie Shepp. Il Black Power, l'Africa e la palingenesi del jazz







Io sono un artista antifascista. La mia musica è funzionale. Io suono musica che parla della mia morte per mano vostra...la nostra vendetta sarà nera come è nero il colore della  sofferenza, com’è nero Fidel, com’è nero Ho Chi-minh” (Archie Shepp)



Nel giugno del 1966, il grido "Black Power!" venne lanciato da  Stokely Carmichael nel corso della marcia dei neri nella citta' di Jackson nel Mississippi. Fu uno dei momenti esplosivi di quella storica stagione, iniziata negli Sati Uniti fin dagli anni '20 con l'Harlem Renaissance  e con le teorie di Marcus Garvey sul ritorno dei neri in Africa e sul rinascimento dell'Africa nera. Ora nuovi stati   nascevano a decine nel continente africano, a prova delle virtù del popolo nero. Nuove speranze venivano suscitate. L'Africa era la nuova frontiera dei neri. Malcom X infiammava i cuori. Il Black panter party, fondato nell'ottobre del '66 da  Huey Newton e  Bobby Seale teorizzava la lotta di classe di  neri e bianchi e il rifiuto del nazionalismo culturale.
Una vecchia canzone del folklore nero veniva spesso cantata:
 We shall overcome