uno dei due è l'altro

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giovedì 22 novembre 2018

Gaston Bachelard. La Fiamma di una candela





Per far coraggio alla mia timida lampada
La vasta notte accende tutte le sue stelle.
(Tagore)




Chi può dire oggi: la mia lampadina elettrica come un tempo si diceva: la mia Lampada? Ah, come sognare ancora in questo declino degli aggettivi possessivi, di quegli aggettivi che esprimevano con tanta forza la familiarità che avevamo con i nostri oggetti?





La fiamma, tra tutti gli oggetti esistenti al mondo che evocano la rêverie*, è uno dei massimi operatori di immagini. La fiamma ci costringe a immaginare. Davanti a una fiamma, quando si sogna, quel che si percepisce non è nulla a confronto di quel che si immagina. 

La fiamma porta il suo valore di metafore e di immagini nelle più diverse sfere di meditazione. Assumetela come il soggetto di uno dei verbi che esprimono la vita, e vedrete che conferirà al verbo un supplemento di animazione. Il filosofo che corre alle generalizzazioni lo afferma con tranquillità dogmatica: 

« Quella che chiamiamo Vita nella
creazione è, in tutte le forme e in tutti gli esseri, un solo e unico spirito, un'unica fiamma ». 

Ma una simile generalizzazione va troppo rapida allo scopo. E piuttosto nella molteplicità e nel particolare delle immagini che dovremmo far sentire la funzione di operatore di immaginazione delle fiamme immaginate. Il verbo infiammare deve allora entrare nel vocabolario dello psicologo. Esso domina tutto un settore del mondo dell'espressione. 

Le immagini del linguaggio infiammato infiammano lo psichismo, conferiscono una tonalità di eccitazione che una filosofia del poetico deve precisare. Attraverso la fiamma assunta come oggetto di rêverie anche le metafore più fredde si trasformano realmente in immagini. Mentre le metafore spesso non sono che spostamenti di pensieri in una volontà di dir meglio, di dire altrimenti, l'immagine, l'immagine autentica, quando è vita primaria dell'immaginazione, lascia il mondo reale per il mondo immaginato, immaginario.

 



Nell’ immagine immaginata possiamo conoscere quell'assoluto della rêverie che è la réverie poetica. [...] Un essere sognatore felice di sognare, attivo nella sua rêverie, possiede una verità dell'essere, un avvenire dell'essere umano.

Tra tutte le immagini, quelle della fiamma - le ingenue come le più astruse, le sagge come le folli portano in sé un segno di poesia. Ogni sognatore di fiamma è un poeta in potenza. Ogni rêverie davanti alla fiamma è una rêverie che ammira. Ogni sognatore di fiamma è in stato di rêverie primaria. Questa ammirazione primaria è radicata nel nostro lontano passato. Noi abbiamo per la
fiamma
un'ammirazione naturale, oserei dire: un'ammirazione innata. 


La fiamma provoca un'accentuazione del piacere di vedere, un al di là del sempre visto. Ci costringe a guardare.
La fiamma ci chiama a vedere come se fosse la prima volta: ne abbiamo mille ricordi, ne sognamo grazie all'individualità personale di un'antichissima memoria, e tuttavia ne sognamo come ne sognano tutti, ricordiamo come tutti ricordano - allora, seguendo una delle leggi più costanti della rêverie davanti alla fiamma, il sognatore vive in un passato che non è più unicamente il suo, nel passato dei primi fuochi del mondo.


***





Certamente l’occhio si turba, la palpebra trema quando trema la fiamma.

La fiamma fruscia, la fiamma geme. La fiamma è una creatura che soffre. Da questa geenna salgono mormorii cupi. Ogni piccolo dolore è il segno del dolore del mondo.

Un tempo, in un tempo dimenticato dagli stessi sogni, la fiamma di una candela faceva meditare i sapienti: donava infiniti sogni al filosofo solitario. Sul suo tavolo, accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma della candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite. 

La fiamma era allora, per un sognatore di mondi, un fenomeno del mondo. Si studiava il sistema del mondo in ponderosi libri, ed ecco che una semplice fiamma - o derisione del sapere! - viene a porre direttamente il suo enigma. Dentro una fiamma non vive forse il mondo? E la fiamma non ha forse una vita? Non è forse il segno visibile di un essere intimo, il segno di una potenza segreta? Non contiene forse, questa fiamma, tutte le contraddizioni interne che conferiscono a una metafisica elementare il suo dinamismo? 

Perché cercare dialettiche di idee quando si hanno, nel cuore di un semplice fenomeno, dialettiche di fatti, dialettiche di esseri?  la fiamma è un essere privo di massa e tuttavia è un essere forte.

Quale campo di metafore dovremmo esaminare se, in un raddoppiamento delle immagini che uniscono la vita e la fiamma, volessimo scrivere una «psicologia» delle fiamme e al tempo stesso una « fisica » dei fuochi della vita! Metafore? In quell'età di remoto sapere in cui la fiamma faceva pensare i sapienti, le metafore erano pensieri.





Un temperamento poetico più ardente dirà con maggior passione il fuoco delle rose. L'opera di D'Annunzio è ricca di rose in fuoco. Nel grande romanzo Il fuoco leggiamo:



«Guarda le rose rosse!»
«Ardono. Sembra che abbiano nella corolla un carbone acceso. Ardono veramente! »

L'osservazione è cosi semplice! A un lettore frettoloso può sembrare persino banale. Ma lo scrittore ha voluto darci il dialogo di due amanti nel fuoco delle passioni. I
fiori rossi possono segnare una vita. 


Qualche riga più avanti, il dialogo riprende:
 

«Guarda, diventano sempre più rosse. Il velluto di Bonifazio... Ti ricordi? La stessa forza»
«L'interno fiore del fuoco »


In un'altra pagina, quando D'Annunzio segue il lavoro dei vetrai, l'immagine s'inverte. E il vetro fuso che richiama il nome di un fiore, nuova testimonianza delle
azioni reciproche dei due poli di una bi-immagine:


...le coppe nascenti oscillarono in cima dei ferri tra rosee e azzurrognole come i corimbi dell'ortensia in punto di variare

Cosi, reciprocamente, il fuoco fiorisce e il fiore si illumina.
 Si potrebbero sviluppare senza fine questi due corollari: il colore è un’epifania del fuoco; il fiore è un’ontofonia della luce.



***


*Tratto da La Fiamma di una Candela, di Gaston Bachelard. Saggi e Documenti del Novecento. SE Srl, Milano 1996. Traduzione di Guido Alberti 
**rêverie ‹revrì› s. f., fr. [der. di rêve «sogno»]. – Fantasticheria, come condizione di chi si abbandona al fantasticare e come opera che riflette questo stato: Alberto si era inabissato in una r. così profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico (Capuana). È usato in italiano soprattutto nel linguaggio della critica letteraria, artistica e musicale.
















venerdì 16 novembre 2018

Franz Kafka Diari 1910-1923*






5 febbraio. Lunedi. Stanco, rinuncio anche alla lettura di Poesia e verità. Sono duro all'esterno, freddo dentro di me. Oggi, mentre arrivavo dal dottor Fleischmann, pure incontrandoci adagio e con riflessione, pareva che ci fossimo urtati come palle che si respingono a vicenda e si perdono senza dominarsi. Gli domandai se fosse stanco: non era stanco. Perché chiedevo? Sono stanco io, risposi mettendomi a sedere.


Sollevarsi da una siffatta condizione dev'essere, a rigore, facile, anche con la voluta energia. Mi strappo dalla poltrona, giro intorno alla tavola correndo a gran passi, metto in moto la testa e il collo, colmo di fuoco gli occhi, tendo intorno ad essi i muscoli. Combatto ogni sentimento, saluto Löwy con calore ora che verrà, tollero amichevolmente mia sorella nella stanza mentre scrivo, e nonostante il dolore e la fatica assorbo in casa di Max, a lunghe sorsate, tutto ciò che viene detto.

Ora è anche possibile che qualcuna di queste cose mi riesca appieno ma con ogni errore palese (e gli errori non possono mancare) l'insieme, il facile e il difficile, dovrà arrestarsi e io dovrò rigirarmi in cerchio.

Perciò la migliore risoluzione rimane di accettare tutto con la massima tranquillità possibile, di contenersi come una massa pesante e, anche se ci si sente soffiati via, non lasciarsi indurre a compiere un passo non necessario, guardare il prossimo con occhio animalesco, non provare pentimenti, darsi all'incosciente che si reputa lontano, lasciar posare a volontà le proprie membra angolose e immutabili, insomma reprimere con la propria mano ciò che ancora resta della vita come fantasma, aumentare cioè ancora l'ultima pace sepolcrale e non lasciar sussistere null'altro che questa.

Un movimento caratteristico d'una siffatta situazione è quello di passarsi il mignolo sulle sopracciglia.







*A cura di Ervino Pocar
Oscar Classici Mondadori 1977