5 febbraio. Lunedi. Stanco, rinuncio anche alla lettura di Poesia e verità. Sono duro all'esterno, freddo dentro di me. Oggi, mentre arrivavo dal dottor Fleischmann, pure incontrandoci adagio e con riflessione, pareva che ci fossimo urtati come palle che si respingono a vicenda e si perdono senza dominarsi. Gli domandai se fosse stanco: non era stanco. Perché chiedevo? Sono stanco io, risposi mettendomi a sedere.
Sollevarsi
da una siffatta condizione dev'essere, a rigore, facile, anche con la
voluta energia. Mi strappo dalla poltrona, giro intorno alla
tavola correndo a gran passi, metto in moto la testa e il collo,
colmo di fuoco gli occhi, tendo intorno ad essi i muscoli. Combatto
ogni sentimento, saluto Löwy con calore ora che verrà, tollero
amichevolmente mia sorella nella stanza mentre scrivo, e
nonostante il dolore e la fatica assorbo in casa di Max, a
lunghe sorsate, tutto ciò che viene detto.
Ora
è anche possibile che qualcuna di queste cose mi riesca appieno ma
con ogni errore palese (e gli errori non possono mancare) l'insieme,
il facile e il difficile, dovrà arrestarsi e io dovrò
rigirarmi in cerchio.
Perciò
la migliore risoluzione rimane di accettare tutto con la massima
tranquillità possibile, di contenersi come una massa pesante e,
anche se ci si sente soffiati via, non lasciarsi indurre a
compiere un passo non necessario, guardare il prossimo con occhio
animalesco, non provare pentimenti, darsi all'incosciente che si
reputa lontano, lasciar posare a volontà le proprie membra angolose
e immutabili, insomma reprimere con la propria mano ciò
che ancora resta della vita come fantasma, aumentare cioè ancora
l'ultima pace sepolcrale e non lasciar sussistere null'altro che
questa.
Un
movimento caratteristico d'una siffatta situazione è quello di
passarsi il mignolo sulle sopracciglia.
*A cura di Ervino Pocar
Oscar Classici Mondadori 1977
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