uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

sabato 21 novembre 2020

Apocalisse e rivoluzione

Giorgio Cesarano Gianni Collu

Dedalo libri 1973



Elena Sangro

 

 12.

L’esplosione rivoluzionaria russa, se apparentemente proietta sulla scena planetaria lo spettacolo trionfale (e per la borghesia terrorizzante) di un proletariato pervenuto a incarnare la propria soggettività liberata, mette ben presto in scena, realiter, nelle forme ormai meramente fittizie della rivoluzione al potere, la mediazione recuperatrice e sostanzialmente restauratrice della controrivoluzione potente. 

Cacciati sanguinosamente dal basso, modi e rapporti di produzione essenzialmente capitalistici ricadono sanguinosamente, sopra le teste illuse (ma non tutte) del proletariato rivoluzionario, reintrodotte per decreto legge dall'alto. Il pretesto - ed è qui che appare per la prima volta il potere abbacinante della « ratio » scientifica mediatrice del capitale - è quello della necessità di conquistare, lungo un duro processo di  «transizione» cosiddetta socialista, le basi materiali per la realizzazione del comunismo.


Non è questo il luogo per perpetuare la semisecolare polemica antileninista, né ha senso chiedersi ancora una volta oggi quali potessero essere le alternative praticabili: la lotta rivoluzionaria vive sempre il presente come il terreno dello scontro tra un progetto di futuro cui è legata la sorte della specie e la somma delle sue sconfitte passate, influenti solo per quel tanto che indica le trappole in cui non può più cadere. È questo invece il luogo in cui attestare come quella lezione di realismo fu dal capitale internazionale appresa e fatta sua, a proprio esclusivo ed automatico vantaggio: la lezione che gli consentiva di non temere forza al mondo capace di distruggerne l’essenza, finché esso sarebbe riuscito ad apparire come il modo materiale di prodursi di ogni comunità umana. 

Il capitale imparò dalle sue crisi a disfarsi del proprio passato per rilanciare i suoi modi di produzione a livelli di organizzazione più alti, più integranti, più totalizzanti. Imparò a mascherare la propria facoltà di transcrescenza coprendola con trasformazioni formali, spettacolari. Imparò soprattutto a scorrere come un’acqua necessaria sotto qualsiasi bandiera, ad assumere tanto la forma quanto la sostanza di un modo d’essere basilare e neutrale, così simile alla vita e alla natura da poterne vestire le apparenze. Mediandosi attraverso scontri in cui sarebbe corsa la massima quantità possibile di sangue proletario, il capitale apprese di potersi trasformare in modi d'essere sempre meno specifici di una classe e sempre più intrinseci di un popolo superando così un primo grado (un primo livello o soglia di limiti) delle sue connaturali contraddizioni.






13.

Da quel momento il proletariato non si rappresentò più, agli occhi del capitale, esclusivamente come la forza-lavoro da esso stesso prodotta e trattata al pari di una merce, ma cominciò ad apparirgli come il suo stesso

popolo prossimo venturo. Non più dunque nella forma e nella sostanza di mera materia bruta, propellente da tenere in vita fin tanto che da forza, ma, nella forma, la materia vivente del suo stesso corpo (corpo sociale, gregario discreto del cervello sociale, incarnato dal capitale fatto scienza); nella sostanza il propellente naturale di un processo di autonomizzazione che tanto più « naturalmente » se ne sarebbe separato come da una scoria, quanto più si sarebbe mostrato capace di, integrarlo profondamente e capillarmente ai meccanismi della macchina valorizzatrice. Il processo di emancipazione del capitale dal primo grado critico del suo sviluppo (il primo livello di chiusura del sistema entro i suoi limiti, con la conseguente inevitabile « messa in blocco ») passa dunque attraverso l’emancipazione fittizia del suo antagonista naturale, l'emancipazione fittizia del proletariato arruolato alla soggettività autoresponsabile della produzione di lavoro. 
Da quel momento, mentre il capitale vede nel proletariato il suo popolo futuro - e intravvede per sé la chance di mediare ogni propria contraddizione con l’integrare al suo « spirito », nella sua propria soggettività surrettiziamente socializzata, il corpo stesso della specie, - fatta suo corpo -, il proletariato abbacinato dalla controrivoluzione vede nello sviluppo del capitale il suo proprio futuro, media la propria intolleranza in nuova pazienza, prospettandosi il compito storico di realizzare a proprie spese, ma volontariamente, le basi materiali per la realizzazione di un capitalismo neocristiano: « socialista ».






14.

La contrapposizione tutt’affatto fittizia e spettacolare dei due blocchi oriente-occidente, in entrambi i quali, ma attraverso realizzazioni formali differenti, sviluppo capitalista e controrivoluzione si incarnano nel medesimo soggetto abbacinato, polarizza per decenni, mentre seguita a scorrere sangue proletario, l’immaginazione tutta ideologica del « pensiero » rivoluzionario, attardando la teoria in una grottesca rissa d'arruolamento sotto le diverse bandiere del medesimo processo. La controrivoluzione mima tutti i luoghi comuni della dialettica, degradata a commedia degli equivoci; mentre l’insoddisfatto bisogno di vivere per davvero e la fatica del «virtuoso » lavoro covano sotto la cenere, nei corpi del proletariato sconfitto più che nelle menti (o estraniate o drogate dalla politica), il fuoco vitale che esploderà, dopo cinquant'anni di latenza, nei primi incendi del ’68.


Ma l’integrazione è stata così profonda, la catena così salda, che ad apparire con le torce in pugno non sono quelli che, inseriti, riscuotono in ore di abbrutimento il salario che gli consente di perpetuare il « lavoro di vivere »: come sempre si muovono per primi i disertori dello « spirito » dominante e gli esclusi dalla catena di montaggio, i fuoriusciti volontari e i proscritti coatti.


A Parigi come dovunque in Europa studenti, disadattati, hippies e bluson-noirs; negli USA questi stessi e la « razza » degli esclusi, i neri dei ghetti, gli ex-schiavi « riscattati » da cogli-cotone a cogli-immondizie. Rigettano per prime l'orrore della non-vita due qualità di « competenze » diverse, ma subito affratellate, entrambe accelerate dall’essere esterne al cuore più duro del processo: voyeurs dall'alto, gli studenti, dell'ingegneria sociale (in tutte le facoltà si insegna la facoltà di dirigere l'essere diretti); voyeurs dal basso, gli esclusi, della società dei rifiuti, che li consuma; da un lato si rivolta l’ «immaginazione », prima di essere co-optata, dall’altro la vitalità denudata, dopo essere stata umiliata.






15.

Da un lato la politica assume su di sé il ruolo di mediatrice del processo, mettendo in discussione tutto tranne i fondamenti che lo sostengono, spacciando di conserva con la pubblicità per buono per eccellente per superextra tanto lo sviluppo suicida della produzione quanto il modello di vita che ne è il reale prodotto; dall'altro lato la lucidità pianificatrice (« scientifica ») del capitale vede sempre più nitidamente profilarsi dinanzi a sé la soglia di un nuovo limite che solo un salto mortale può consentirgli di superare il limite sempre più vicino della sua stessa espansione planetaria, gli impone di inventare un nuovo mondo, mentre sta per « finire » il mondo. 

Guerre, guerriglie, campagne di liberazioni nazionali, bagarre elettorali per l’elezione (o l’esecuzione capitale) di questo o quel funzionario superstar - tutti egualmente fungibili quanto funzionali - si accavallano alla rinfusa sugli schermi dei suoi oracoli di vetro, in un tritume in cui si mescolano, allo stesso livello, le stragi dei week-end, quelle degli indiani e quelle del DDT, i caroselli sulla nuova qualità della vita, i dibattiti sulla qualità della vita, gli psicodrammi sulla squalifica della vita. Al servizio di una politica che baratta la critica di tutto con la vittoria del Niente, ingranaggi fittizi e reali, gli uni dagli altri irriconoscibili, trascinano nei loro meccanismi, insieme con i corpi di un proletariato sempre più 'sovrabbondante, l’immaginazione in brandelli di vivere una lotta vera, l’illusione lottizzata di battersi per una questione di vita o di morte, mentre la morte guadagna terreno inavvertita nella sopravvivenza quotidiana di ciascuno.





16.

Agli urti sempre più accelerati contro le sue contraddizioni classiche, il capitale elasticamente risponde mimando le grida del suo popolo, assumendo per sé le ragioni della disperazione crescente, ma commutata nella voce della promessa e della speranza immanente. Se il dominio formale aveva assunto nel capitale i tratti orgogliosi e feroci di una classe che s'era conquistato il potere con la rivoluzione; se la borghesia ancora viva non si vergognava di difendere i propri privilegi giusto in quanto poteva apprezzarli - ancora per poco – come il bene della terra e il gusto della vita, e perciò li difendeva senza mettersi in discussione, offrendo di se stessa, malgrado le lotte economico-politiche intestine, un’immagine in cui la ricchezza giustificava il prezzo della miseria; la transizione al dominio reale porta il capitale verso la produzione accelerata di una politica - la nuova immagine di se' con cui contrabbandarsi - tanto più elastica e cooptante quanto più formalmente disposta a mettersi in discussione, a problematizzarsi.


Ma i problemi all’ordine del giorno, nelle forme apparenti dell'apertura verso esigenze e bisogni del popolo, sono sempre i problemi del capitale. Il popolo è sempre più il capitale in persona: il popolo «che ha il voto, il popolo che si rappresenta, il popolo che ha 

il « privilegio » della parola, assume senza avvedersene il ruolo del fantoccio che parla con la voce, e che copre le mani del ventriloquo.





17.

La quantità è il regno esclusivo della valorizzazione, che in questo consiste; nella produzione di qualità apparenti a monte delle quali giace sempre quantità di lavoro erogato. Da quando il capitale si limitava a vantare la qualità delle sue merci, è passato il tempo necessario a catturare del tutto ogni forma di vita nella forma di merce, così che oggi si possa discutere di « qualità della vita » dopo che dietro ogni « vita » prodotta giace una quantità di lavoro erogato, di vita devalorizzata. Questa è la nuova conquista del capitale antropomorfo: avere colonizzato al valore ogni tratto della convivenza sociale, essersi ricomposto al di là della soglia d’esplosione dei suoi vizi organici nella composizione organica del capitale-vita; l’essere transcresciuto dal regno intossicato di merci-rifiuto dell'esteriorità al regno sopravvivente dell’interiorità, tanto più degradata quanto più disseppellita e sollevata a nuova area di mercato. 

Una macabra archeologia è chiamata a resuscitare, nei morti-vivi, l’anima fenicia dei commerci avventurosi; ma sotto le costellazioni del diluvio le anime morte non possono che trafficare reliquie: la morte dei desideri e l’equivalente generale che informa del suo valore tutte le zecche della « personalità » depressiva. Lasciamo che i morti valorizzino la loro « vita ».

 

 



 
 
 
 
 
 

domenica 8 novembre 2020

Tre evidenze di Marx.

Marco Iannucci* 

 


Buster Keaton



Un po’ piú di 150 anni fa, vedendo che  una larga parte di umanità attorno a sé mostrava di avere motivi per non volersi allineare nei ranghi della società presente, un uomo considerò che sarebbero emersi motivi ancora piú profondi se solo qualcuno avesse fatto luce sul meccanismo fondamentale che faceva funzionare quella società. Dopo lunghi studi in proposito, egli pubblicò i risultati della sua indagine in un libro intitolato 

Il Capitale. Sottotitolo: Critica dell’economia politica . Lí si parlava, per centinaia di pagine, essenzialmente del capitale. È superfluo che io precisi il nome di quell’uomo. Ricordo ancora bene l’emozione che provai alla prima lettura di quel libro. Era l’emozione che si prova quando ci si trova davanti a un disvelamento, quando qualcosa che era occultato, nascosto, ci viene all’improvviso svelato. Il disvelamento operato da Marx è profondo e nello stesso tempo ricco di dettagli, e io non posso che rimandare alle sue parole. Ma voglio qui ricordare solo tre capisaldi di quel disvelamento, quelli che anche allora mi colpirono con maggiore forza:

 

 


 

1 innanzitutto restai stupefatto e nello stesso tempo illuminato nel momento in cui Marx mi chiarí che il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone, mediato da cose . «Ma allora - pensai - il capitale in definitiva non è un oggetto interno all’economia». Se il capitale è un rapporto sociale tra persone, vuol dire che non è un fenomeno appartenente ad un ambito particolare, ma è ciò che determina il modo di vivere degli uomini e delle donne, è ciò che dà forma alla loro vita. Quindi, proporsi di smontare il capitale, di disattivarlo, di tirarsene fuori, non è compiere un’operazione politico-economica, ma vuol dire riprogettare la vita umana sotto un’altra forma, e questa riprogettazione non è limitata ad un ambito predefinito, ma è totale, e va alla radice dell’umano. Cominciavo a capire che se ciò che appare alla superficie sono «cose» (le merci, il denaro) mentre ciò che non appare è che queste cose mediano i rapporti sociali, ecco allora perché di cose si può sempre parlare, mentre sulla forma che i rapporti sociali prendono in quanto modellati da queste cose, è meglio sorvolare;

 


 

 

 

2 ma di quali rapporti sociali è portatore il capitale quando si insedia tra gli uomini? Evidentemente di rapporti sociali corrispondenti alla sua natura. E qual è la sua natura? Secondo disvelamento: il capitale è denaro in processo, è denaro che si valorizza, che aumenta la sua quantità. Ulteriore illuminazione stupefacente: ma allora mi sta dicendo che le relazioni umane, se si sottomettono al capitale, assumono come loro perno il denaro che deve aumentare, cioè prendono una forma funzionale ad un processo che deve portare alla fine, nelle tasche di chi vi ha immesso (investito) denaro, piú denaro di quanto vi era presente inizialmente. Le relazioni umane si modellano cosí in funzione di questo aumento di denaro a uno dei loro poli, cioè della valorizzazione che rende il denaro capitale. Questa valorizzazione diventa il legante dei rapporti umani, con un’inversione che Marx sottolinea, per cui i rapporti sociali a quel punto non sono piú «rapporti immediatamente sociali fra persone [...] ma anzi, rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose». (1) 

 

Se non stai a questo gioco il processo ti relega ai margini della vita sociale, il che spesso vuol dire della vita tout court . Perché la valorizzazione esige che tutti i beni diventino merci, e se non hai accesso alle merci, muori, socialmente e fisicamente. E per avere accesso alle merci devi possedere denaro, e il principale modo che ti viene prospettato per acquisirlo è di divenire merce tu stesso, vendendo le tue facoltà umane. Si capisce quali enormi conseguenze derivino da qui a cascata;

 

 


 

3 ma quale limite di penetrazione ha questo processo nella vita degli uomini? Dove si ferma? Risposta di Marx e terzo disvelamento: non ha alcun limite prestabilito; il capitale non si ferma di fronte a nulla. Ciò vuol dire che esso trasforma tendenzialmente tutte le relazioni intraumane e le relazioni tra la specie e la natura in relazioni funzionali alla sua valorizzazione. Ciò vale in estensione (e Marx segnalò per prima cosa il bisogno del capitale di crearsi un mercato mondiale) ma vale anche in intensione, con il suo entrare capillarmente a determinare le azioni che gli individui compiono ogni giorno. A questo proposito Marx ad esempio dimostrava che è esigenza del capitale non di creare prodotti per i bisogni, ma bisogni per i prodotti. Gli atti che noi crediamo di compiere naturalmente e semplicemente per soddisfare i nostri bisogni, sono in realtà pilotati in modo da passare attraverso l’acquisto di merci, cosí da garantire la massima valorizzazione del capitale. Il nostro agire è appendice di questa valorizzazione. Ciò richiede che le rappresentazioni mentali che si associano ai nostri atti siano parimenti modellate sulle esigenze del capitale (è ciò di cui si incaricano la pubblicità e l’informazione di massa).

 

Riesaminando oggi questi tre disvelamenti, confrontandoli con il mondo in cui vivo, sottoponendoli alla prova dei cambiamenti che sono intervenuti nella società dai tempi di Marx, io non trovo motivi per abbandonarli come non piú corrispondenti alla realtà attuale, come non piú utili per comprenderla e per posizionarmi in essa. Al contrario, ritengo che non vadano tagliati i fili con queste analisi di Marx, e che essi siano casomai da riannodare. E il gesto fondamentale di questo riannodare consiste nel non smettere di leggere i caratteri del mondo sociale umano attuale come manifestazioni del dominio del capitale. Il quale, trattandosi di un processo e non di una cosa, non ha mai smesso nel frattempo di cambiare i connotati al suo mondo e a se stesso. Quindi si tratta di essere fedeli anzitutto a ciò che si vede, di cui si fa esperienza, confrontando questa esperienza con la chiave di lettura che Marx ci ha fornito. Il contrario quindi di qualsiasi scolastica o dogmatica marxista.



1 K. Marx, Il Capitale , Torino, Einaudi 1975, Libro I, Cap. 1, § 4: «Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano», p. 89.h (16) h

 

*Un Percorso dell'Essere in Comune

 

 


 

 

 

 


lunedì 13 luglio 2020

La fame del capitale



Franco Ferlini 





La formazione di capitali dipende dal saggio di profitto e dalla massa di profitto. Nello sviluppo capitalistico, mentre il saggio di profitto tende a diminuire, la massa di profitto tende a crescere con la accumulazione del capitale.

Se un capitale di 100 con un saggio di profitto del 20% produce una massa di profitto di 20, con la caduta del saggio di profitto al 10% per produrre la stessa massa di profitto deve essere investito un capitale di 200.

L’’esistenza stessa del capitale è legata alla sua costante accumulazione.

E quando un saggio di accumulazione non è più sufficiente ad accrescere il capitale reale per fornire una massa di profitto uguale o maggiore della precedente composizione, allora il grande capitale si alimenta espropriando i capitali minori presenti sul mercato interno ed estero.

Questa legge della accumulazione riveste un grande ruolo nella situazione odierna e porta a una vera e propria guerra globale di capitali, resa necessaria dalla rivoluzione” delle tecnologie della produzione e dai costi di produzione delle tecnologie stesse. La produzione di ricerca tecnologica impiega un vasto numero di operatori e l’’impiego di considerevole capitale fisso.





In questa guerra di capitali ci saranno vincenti e perdenti, e la cosa in qualche modo ci riguarda direttamente, visto che coinvolge tre modelli capitalistici: quello americano, quello cinese e quello europeo.

Il modello americano si basa sulla forza e resistenza del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionali, conquistato con la sconfitta del capitalismo europeo negli anni quaranta.

La Federal Reserve si fonda su questa forza e stampa carta moneta illimitatamente secondo la situazione: crea una massa monetaria, senza corrispettivo, che tramite la borsa integra i consumi della classe media, nonostante il calo dei redditi, salariali e anche renditizi.

D’’altro canto assicura la tenuta finanziaria delle grandissime imprese. Le grandi società quotate si finanziano con l’emissione di titoli e gli investitori si rifinanziano cedendoli alla Fed e ricostituendo il proprio capitale speculativo; un ciclo a suo modo funzionale ma dagli esiti gravemente negativi.

A parte la crescita inarrestabile del debito pubblico interno e del debito sull’’estero, si assiste ad una crescita abnorme della ricchezza di un ristretto centile della popolazione americana e una espansione dell’’immiserimento e della povertà che coinvolge oltre 60 milioni di abitanti.





Il modello cinese si fonda sulla crescita produttiva e su una ingente accumulazione di risorse – auree, creditizie, ecc – sulla espansione dei consumi interni, sulla grandi disponibilità per la formazione e per le ricerche avanzate in campo scientifico e tecnologico.

Il mercato cinese poggia su un numero di consumatori che ancora non conosce limiti, che si espande segnatamente in Asia e in tutte le aree emergenti. Per dirla con Marx un continente che cresce perché è orientato più a produrre che a consumare.

Il modello europeo, o sarebbe più corrispondente alla realtà dire “modello germanico”, si fonda al contrario sulla austerità.

Non potendo competere con la potenza economico finanziaria e produttiva degli Stati Uniti e della Cina, si scommette sul ridimensionamento salariale.

La Germania ritiene che per stare al passo con le due economie subcontinentali deve poter disporre di un area subcontinentale chiamata Unione Europea, una unione tenuta assieme dalla sua forte presa sulla burocrazia di Bruxelles e sulla soggezione finanziaria e industriale degli altri 26 paesi.

Il problema della Germania – non ha senso parlare di “Europa” – è nella sua intima essenza l’accumulazione di capitale necessaria per far fronte alle immanenti sfide che si affacciano nella concorrenza internazionale, tra le quali particolarmente rilevanti sono quelle dell’’auto elettrica, dell’intelligenza artificiale e della rete 5g.





Per fornirsi di capitali in una misura superiore alle sue capacità di accumulazione la Germania, dipingendo altri paesi sull’’orlo del fallimento, spinge i capitali di questi paesi a rifugiarsi presso le sue banche e i suoi titoli.

La persistente e strisciante crisi politica, economica e sociale in varie parti del mondo favorisce questa politica predatoria, al punto che i capitali in fuga ricevono un interesse negativo ovvero pagano la sicurezza che la Germania garantisce.

Il degrado economico e sociale dell’Europa, in questa corsa all’’accumulazione di capitali e al regime di austerità imposto persino in Germania, ha portato alla esplosione di movimenti popolari (oggi tutti spregiati come “populistici”) che, quantomeno, imbarazzano la ex funzionaria della SED.

Ma il modello non può essere né messo in discussione, né riformato. Tutto il gran discorso che si fa su Fondi o Mes o Sure o altro, non è che sceneggiate per far credere alle popolazioni che l’’Europa unita esiste e promette progresso e benessere.

Il cerchio di ferro tedesco non permette che l’’economia italiana e altre economie possano affrancarsi da una condizione di perenne debito e ricatto: ne va, ad esempio, della possibilità di sottrarre in continuazione il sangue del capitale che l’’Italia produce in abbondanza e magari, un domani, attraverso le “condizionalità”, che secondo Gentiloni non ci sono, di mettere le mani sul grande risparmio degli italiani.

Lasciate ogni speranza voi che entrate nel cerchio di ferro di Deutschland uber alles…









sabato 4 luglio 2020

Rainer Maria Rilke - Prima Elegia duinese

 




Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie duinesi rappresentano la summa conclusiva della riflessione di Rilke: nascono da una problematica esistenziale individuale (l'inconsistenza della vita, l'inattendibilità dei sentimenti) e tendono ad una soluzione ancora più radicalmente individuale: la poesia come unica soluzione del problema vitale.
Rilke si fa qui testimone della crisi della cultura borghese del novecento, sullo sfondo della violenta rottura di generi e schemi operata dall'espressionismo. I suoi temi sono  la denuncia   della morte di Dio (Nietzsche), l'individualismo, la psicanalisi, la condanna degli aspetti disumanizzanti della tecnica e del mercantilismo.
In definitiva, una lirica potente, rigorosa e affascinante come poche altre nel novecento, che dal più profondo dell'animo e delle umane cose volge uno sguardo coraggioso, virile e commosso verso l'enigma del cielo.



 


Prima Elegia

Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza piú forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora
lo ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.
E cosí mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi
lo soffoco in gola. Ah, di chi mai
ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,
e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo
interpretato,
non diamo affidamento. Ci resta, forse,
un albero, là sul pendio,
da rivedere ogni giorno;
ci resta la strada di ieri,
e la fedeltà viziata d'un'abitudine
che si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento pregno di
cosmico spazio
ci smangia la faccia -, a chi non resterebbe la sospirata,
che soavemente delude, e che incombe pesante al cuore
solitario? Che sia forse piú lieve agli amanti?
Ah, loro, se la nascondono soltanto, un con l'altro, la
loro sorte.
Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto
agli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
nell'aria piú vasta, voleranno piú intimi voli.





Si, certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche
stella
s'aspettava che tu la rintracciassi. Montava
un’onda dal passato, in qua, o
mentre tu passavi sotto una finestra aperta
si donava un violino. Tutto questo era cómpito.
Ma lo reggevi tu? Cosí sempre distratto d'attesa,
come se tutto t'annunciasse un'amata? (E dove la
vorresti rifugiare se i grandi, strani pensieri
in te vengono e vanno
  e spesso si stanno, la notte?)
Ma se ti struggi cosí, canta le innamorate. Certo,
non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento
famoso.
Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti
parvero tanto piú amanti delle placate. Riprendila
sempre l'irraggiungibile celebrazione;
pensa: l'eroe perdura, financo la morte per lui
fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma l'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta Natura
come se non ci fossero forze due volte,
per compiere questo. Hai cantato abbastanza
di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui sfugga l'amato, all'esempio esaltato
di questa innamorata, senta: posso essere anch'io
come lei?
Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar piú fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall'essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.





Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come soltanto i Santi
ascoltarono un giorno: il grande richiamo
li alzava dal suolo; ma essi, impossibili,
restavano assorti in ginocchio:
cosí ascoltavano. Non che tu possa mai reggere
la voce di Dio. Ma lo spiro ascolta,
l'ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea.
Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te.
Dove entrassi tu mai nelle chiese
di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro
Destino?
O ti si imponeva una scritta, sublime,
come ieri la lapide in Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve,
quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta,
il moto puro dei loro spiriti.





Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. - Ma i vivi errano, tutti,
ché troppo netto distinguono.
Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno
se vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
sempre trascina con sé per i due regni ogni età,
e in entrambi la voce più forte è la sua.





Infine, non han più bisogno di noi quelli che presto la
morte rapî,
ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di si grandi misteri, - quante volte da lutto
sboccia un progresso beato - : potremmo mai essere,
noi, senza i morti?
Sarebbe vano il mito, che un giorno, nel compianto di
Lino
la prima musica, ardita, pervase arida rigidezza,
e che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi
divino
ad un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in
quella
vibrazione che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.





Elegie Duinesi, Giulio Einaudi Editore, 1978 Torino
Traduzione di Enrico e Igea de Portu





domenica 21 giugno 2020

Epos della pandemia






***

Epos della pandemia.
Per piccina che tu sia
Non trovo più l'uscita 
Da casa mia.














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