Franco Fabbri
«Sapete come funziona, quello strumento? Ho consultato il catalogo a questo proposito, e da quello che ho capito, genera delle radiazioni che stimolano il centro ottico del cervello, senza toccare il nervo ottico. In effetti è l’utilizzazione di un senso che non viene mai adoperato sotto stimoli naturali. Straordinario, non vi pare? I suoni invece sono normali. Influenzano direttamente l’apparato dell’udito. […] Si sentì come un leggero tremito nell’aria, che seguiva la scala musicale. Scomparve e riapparve, scomparve di nuovo, poi sembrò diventare più corposo, finalmente esplose in un rumore di tuono. Una piccola sfera di colori cangianti si formò lentamente levandosi a mezz’aria, da questa caddero piccole gocce senza forma che precipitando si intrecciavano formando disegni schematici... (1).
Questo frammento è tratto da The Mule, racconto di Isaac
Asimov pubblicato nel numero di novembre-dicembre del 1945 di «Astounding
Science-Fiction», e poi raccolto nel volume Foundation and Empire, seconda
parte del ciclo Foundation (Trilogia galattica). Farei un torto a chi non
l’avesse ancora letto se rivelassi chi è Magnifico e quali sono i poteri legati
all’uso del Visisonor.
Limitiamoci a osservare che Asimov immaginò nel 1945 un
generatore di effetti multimediali in tempo reale, uno «strumento», che, almeno
per la parte audio, produce suoni «normali» (nel senso che sono regolarmente
percepiti attraverso le orecchie). Asimov non spiega se lo strumento sia
«elettronico», ma non sembra aver bisogno di entrare in dettagli tecnici,
almeno in questo caso (ricordiamo che negli stessi anni stava lavorando alle
celebri «tre leggi della robotica» relative al comportamento dei «robot
positronici»).
Forse esistono attestazioni precedenti di strumenti e musiche nella letteratura fantascientifica (se estendiamo il campo al fantastico o alla filosofia, le «case del suono» di Bacone, dalla Nuova Atlantide del 1624, sono un buon antecedente), ma credo che si possa comunque dire che il Visisonor di Asimov anticipi di qualche anno la presenza di suoni elettronici nel cinema di fantascienza. Non nel cinema in generale, se vogliamo considerare elettroniche (e mi sembra più che legittimo) le sperimentazioni di Oskar Fischinger, Rudolf Pfenninger, (Konstantin?) Voinov, László Moholy-Nagy con la colonna sonora ottica, manipolata con figure geometriche, grafici, impronte digitali, profili di volti (2).

Forse esistono attestazioni precedenti di strumenti e musiche nella letteratura fantascientifica (se estendiamo il campo al fantastico o alla filosofia, le «case del suono» di Bacone, dalla Nuova Atlantide del 1624, sono un buon antecedente), ma credo che si possa comunque dire che il Visisonor di Asimov anticipi di qualche anno la presenza di suoni elettronici nel cinema di fantascienza. Non nel cinema in generale, se vogliamo considerare elettroniche (e mi sembra più che legittimo) le sperimentazioni di Oskar Fischinger, Rudolf Pfenninger, (Konstantin?) Voinov, László Moholy-Nagy con la colonna sonora ottica, manipolata con figure geometriche, grafici, impronte digitali, profili di volti (2).
Sperimentazioni che precedono tutte il racconto di Asimov, mentre quelle tecnicamente affini di Norman McLaren lo seguono. È difficile dire se l’idea del Visisonor sia stata suggerita ad Asimov da quelle esperienze ristrette ai circoli d’avanguardia, per di più europei, ma sembra invece molto plausibile che Asimov conoscesse Fantasia, il film di Walt Disney del 1940, con sonoro stereofonico e una sezione intitolata Meet the Soundtrack, che in un certo senso popolarizzava le precedenti esperienze avanguardistiche.
D’altra parte, l’idea di uno strumento musicale
elettronico era già familiare, sicuramente tra i compositori (anche di musica
per il cinema), visto che il theremin e le Ondes Martenot erano già in uso
dagli anni Venti e Trenta, insieme ad altri strumenti meno noti, come il
Trautonium. Proprio nello stesso 1945 in cui Asimov pubblicò il suo racconto,
Miklós Rózsa utilizzò il theremin nelle colonne sonore di due film di grande
successo, Spellbound (Io ti salverò, Alfred Hitchcock, 1945) e The Lost Weekend
(Giorni perduti, Billy Wilder, 1945): il malessere psichico e l’alcolismo
trovavano nella «voce» misteriosa, soprannaturale del theremin un segno preciso
e suggestivo.
Il debutto del theremin in una colonna sonora
hollywoodiana era avvenuto nel 1935 con Bride of Frankenstein (La moglie di
Frankenstein, James Whale, 1935), la cui colonna sonora era stata composta da
Franz Waxman (o Wachsmann), compositore tedesco immigrato, mentre il primo
utilizzo cinematografico dello strumento sembra risalire al film sovietico Odna
(Leonid Trauberg e Grigori Kozintsev, 1931), sonorizzato con una partitura di
Dmitri Šostakovič che includeva il theremin nell’organico.
Con questi numerosi precedenti, è comprensibile che
Bernard Herrmann decidesse di ricorrere a due theremin per la colonna sonora
del primo film di fantascienza al quale collaborò, The Day the Earth Stood
Still (Ultimatum alla Terra, Robert Wise, 1951). C’erano anche due organi
Hammond, un grande organo elettrico da studio, archi elettrificati, ottoni, una
ricca sezione di percussioni, e furono utilizzate sovraincisioni insolite ed
effetti di nastri rovesciati (3).
La musica di Herrmann per il film di Wise, benché non sia musica elettronica «pura», merita qualche commento specifico, non solo per il carattere problematico della trama del film e il successo di culto. Tra l’altro, in Italia, Ultimatum alla Terra fu trasmesso alla televisione durante la notte del primo sbarco sulla Luna, in attesa del collegamento col Mare della Tranquillità; la frase «Klaatu barada nikto» pronunciata dai protagonisti è diventata, non solo per gli ultracinquantenni italiani, un esempio prototipico di lingua aliena. Ma soprattutto, nel mondo, l’accompagnamento musicale della prima sequenza è diventato una sorta di icona sonora della fantascienza, utilizzata oggi in numerosi siti web per un più immediato riconoscimento dei contenuti.
La musica di Herrmann per il film di Wise, benché non sia musica elettronica «pura», merita qualche commento specifico, non solo per il carattere problematico della trama del film e il successo di culto. Tra l’altro, in Italia, Ultimatum alla Terra fu trasmesso alla televisione durante la notte del primo sbarco sulla Luna, in attesa del collegamento col Mare della Tranquillità; la frase «Klaatu barada nikto» pronunciata dai protagonisti è diventata, non solo per gli ultracinquantenni italiani, un esempio prototipico di lingua aliena. Ma soprattutto, nel mondo, l’accompagnamento musicale della prima sequenza è diventato una sorta di icona sonora della fantascienza, utilizzata oggi in numerosi siti web per un più immediato riconoscimento dei contenuti.
Innanzitutto, vale la pena di notare l’ambiguità
funzionale dei suoni dei theremin, a volte isolati o accompagnati dagli organi
Hammond, a volte immersi nel tessuto orchestrale. Spesso è evidente la funzione
diegetica, quando i suoni degli strumenti elettronici sembrano provenire da
singoli apparati dell’astronave aliena o dall’astronave stessa. In altri casi è
chiara la funzione tematica del theremin, all’interno di una musica
evidentemente extradiegetica.
Ma altre volte ancora è difficile distinguere: si passa
dalla funzione diegetica a quella extradiegetica e viceversa, e spesso
l’incertezza è costante. Se ci dovesse servire un esempio che dimostri come la
distinzione tra diegetico ed extradiegetico possa essere uno strumento
analitico talora “spuntato”, Ultimatum alla Terra è fra quelli più pertinenti.
Un altro aspetto (che assume ancora maggiore rilievo proprio per l’incertezza delle funzioni) riguarda la qualità, il carattere dei suoni. Che rumore deve fare un’astronave? O un portello che appare dal nulla in uno scafo perfettamente uniforme? O un robot? O un apparato capace di resuscitare un extraterrestre morto? È già una scelta impegnativa decidere che debbano fare rumore: tornerò tra breve sull’argomento. Ma non si può fare a meno di notare che nel cinema di fantascienza degli anni Cinquanta gli apparati del futuro producano rumori del presente (di quel presente): rumori elettrici (di archi voltaici, di motori a induzione), più che elettronici.
Un altro aspetto (che assume ancora maggiore rilievo proprio per l’incertezza delle funzioni) riguarda la qualità, il carattere dei suoni. Che rumore deve fare un’astronave? O un portello che appare dal nulla in uno scafo perfettamente uniforme? O un robot? O un apparato capace di resuscitare un extraterrestre morto? È già una scelta impegnativa decidere che debbano fare rumore: tornerò tra breve sull’argomento. Ma non si può fare a meno di notare che nel cinema di fantascienza degli anni Cinquanta gli apparati del futuro producano rumori del presente (di quel presente): rumori elettrici (di archi voltaici, di motori a induzione), più che elettronici.
E, appunto, gli apparati del futuro producono rumori
proprio perché lo fanno quelli del presente: anche nell’immaginazione più
spinta, l’idea che congegni dalle capacità meravigliose siano del tutto
silenziosi non viene considerata. Le ragioni sono le stesse per cui nei primi
film i razzi facevano rumore anche nello spazio interplanetario: perché il
suono rendeva più emozionante e convincente l’azione. E non dovremmo guardare a
quel periodo come si guarda a un’epoca ingenua, perché non solo le astronavi
dei film a noi più vicini, silenziosissime quando si muovono per inerzia, si
immergono nell’iperspazio con fragore, ma i cannoni laser esplodono i loro
colpi come fuochi d’artificio e le spade di Star Wars (Guerre stellari, George
Lucas, 1977) ronzano come un vecchio neon bisognoso della sostituzione del
condensatore.
Non solo: le sigle dei notiziari televisivi sono ancora modellate sul suono delle telescriventi (abbandonate da un quarto di secolo) o al massimo dei modem a banda stretta, obsoleti da un bel po’, e in quasi tutti i film e telefilm se una scritta appare sul monitor di un computer (e non intendo una scritta generata da un input sulla tastiera, ma l’output di un qualche programma applicativo) ogni carattere che appare è accompagnato da un sonoro “blip”, cosa che talora avveniva sui vecchi terminali dei mainframe, prima dell’apparizione del personal computer.
Non solo: le sigle dei notiziari televisivi sono ancora modellate sul suono delle telescriventi (abbandonate da un quarto di secolo) o al massimo dei modem a banda stretta, obsoleti da un bel po’, e in quasi tutti i film e telefilm se una scritta appare sul monitor di un computer (e non intendo una scritta generata da un input sulla tastiera, ma l’output di un qualche programma applicativo) ogni carattere che appare è accompagnato da un sonoro “blip”, cosa che talora avveniva sui vecchi terminali dei mainframe, prima dell’apparizione del personal computer.
Ragioni a volte contrastanti presiedono all’ideazione
degli effetti e della musica (spesso difficili da distinguere, come ho
accennato) nei film del genere fantascientifico. Da un lato, si devono dare
voci inaudite ad apparati mai visti, e si vuole suggerire l’immagine sonora di
una musica altrettanto inaudita; dall’altro lato, così come quegli apparati sono
spesso rielaborazioni futuribili di apparati esistenti, i loro rumori non si
possono allontanare troppo dal già noto, e, allo stesso tempo, le esigenze
drammaturgiche chiedono che ci sia un’azione sonora, anche quando
considerazioni ingegneristiche ne suggerirebbero l’abolizione.
Per quanto riguarda la musica, l’idea che sia inaudita la
fa necessariamente dipendere dal già noto, e questo è un primo non trascurabile
aggancio tra l’estetica della musica elettronica cinematografica e quella delle
avanguardie, perlomeno nelle aspettative di pionieri come Busoni e Varèse.
Quest’ultimo scrisse in una conferenza del 1936:
Quando i nuovi strumenti che sostituiranno il contrappunto mi permetteranno di scriver musica così come la concepisco, si potranno percepire chiaramente i movimenti delle masse e dei piani sonori. Quando queste masse sonore entreranno in collisione si avrà la sensazione che avvengano fenomeni di penetrazione o di repulsione, e che certe trasmutazioni che avvengono su determinati piani siano proiettate su altri, che si muovono a velocità diverse e in diverse direzioni. Non vi sarà più posto per la vecchia concezione di melodia o di combinazione di melodie: l’intera opera diverrà una totalità melodica, l’intera opera scorrerà come un fiume. […] Sono certo che verrà il giorno in cui il compositore, una volta realizzata graficamente la sua partitura, potrà affidarla a una macchina che ne trasmetterà fedelmente e automaticamente il contenuto musicale all’ascoltatore (4).
Nei termini della tipologia dei segni musicali formulata
da Philip Tagg nel 1992 (5), la funzione della musica elettronica nelle colonne
sonore è spesso quella di una sineddoche di genere, per così dire, inversa: se
nella normale sineddoche di genere un segno musicale, un musema, “sta per” uno
stile diverso da quello del brano esaminato, e per il genere di riferimento di
quello stile (per esempio, un glissando di chitarra hawaiana in un brano rock
rimanda alla musica country & western, con un processo di citazione
stilistica, e può dunque connotare anche aspetti paramusicali di quel genere),
nel caso della musica composta per un film di fantascienza un musema “sta per”
(o vorrebbe “stare per”) l’insieme complementare a quello che risulta da tutti
i generi che si suppongono noti. Un insieme vuoto, inevitabilmente. Questo processo è più evidente in alcuni casi di musica
dichiaratamente diegetica, come la musica dei misteriosi Krell ne Forbidden
Planet (Il pianeta proibito, Fred M. Wilcox, 1956) composta da Louis e Bebe
Barron.
In altri casi, come quello della celeberrima orchestrina di alieni nella “cantina” di Guerre stellari (musica di John Williams), o quello della sala ricreativa di Outland (Atmosfera zero, Peter Hyams, 1981, musica composta da Jerry Goldsmith e da Richard Rudolph e Michael Boddicker), la sineddoche di genere è diretta, giocata umoristicamente da Williams (che affida agli alieni un brano di jazz ballabile) o con intenzioni avanguardistiche dai collaboratori di Goldsmith (che nel 1981 immaginano una techno del futuro).
In altri casi, come quello della celeberrima orchestrina di alieni nella “cantina” di Guerre stellari (musica di John Williams), o quello della sala ricreativa di Outland (Atmosfera zero, Peter Hyams, 1981, musica composta da Jerry Goldsmith e da Richard Rudolph e Michael Boddicker), la sineddoche di genere è diretta, giocata umoristicamente da Williams (che affida agli alieni un brano di jazz ballabile) o con intenzioni avanguardistiche dai collaboratori di Goldsmith (che nel 1981 immaginano una techno del futuro).
Il pianeta proibito è di gran lunga il film di
fantascienza più citato per la colonna sonora, prima di 2001: A Space Odyssey
(2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968). La ragione è nota: si
tratta del primo film interamente sonorizzato con suoni elettronici, creati
nello studio privato di Louis Barron e di sua moglie Bebe. È noto anche che nei
titoli di testa del film i suoni creati dai Barron furono accreditati come
«electronic tonalities » e non come «music». Il motivo puntuale è che i Barron
non erano iscritti come compositori al sindacato dei musicisti, ma si può
sospettare che dietro il cavillo legale si nascondesse un pregiudizio, sia
sull’assenza di una partitura, sia sulla stessa natura di musica del loro
lavoro. Pregiudizio che a quell’epoca affliggeva non solo il miope sindacato
statunitense, ma anche ambienti musicali almeno in teoria più sofisticati (6).
I Barron utilizzarono apparati molto simili o identici a
quelli che nello stesso periodo si trovavano nei primi studi di musica
elettronica in Europa: registratori, oscillatori, modulatori ad anello, filtri,
camere eco. Ma, almeno stando alle loro dichiarazioni, non si limitarono a un
uso impressionistico dei suoni elettronici: anzi, progettarono i loro circuiti
(forse si trattava perlopiù di quelle che oggi si chiamerebbero patches)
seguendo i principi della cibernetica e i relativi schemi di interazione, così
come li aveva descritti Norbert Wiener, il fondatore della disciplina. Ecco
come più tardi illustrarono questo aspetto del loro lavoro, nelle note di
copertina dell’edizione su LP della colonna sonora:
We design and construct electronic circuits which function electronically in a manner remarkably similar to the way that lower life-forms function psychologically. There is a comprehensive mathematical science explaining it, called «Cybernetics», which is concerned with the Control and Communication in the Animal and Machines. It was first propounded by Prof. Norbert Wiener of M.I.T. who found that there are certain natural laws of behavior applicable alike to animals (including humans) and electronic machines. In scoring FORBIDDEN PLANET - as in all our work - we created individual cybernetics circuits for particular themes and leit motifs, rather than using standard sound generators. Actually, each circuit has a characteristic activity pattern as well as a «voice». Most remarkable is that the sounds which emanate from those electronic nervous systems seem to convey strong emotional meaning to listeners. We were delighted to hear people tell us that the tonalities in FORBIDDEN PLANET remind them of what their dreams sound like. There were no synthesizers or traditions of electronic music when we scored this film, and therefore we were free to explore «terra incognito» [sic] with all its surprises and adventures (7).
I Barron, come ha precisato Bebe in un’intervista recente
(8), si limitavano a “lasciar funzionare” i loro circuiti, sorprendendosi di
quanto i risultati fossero poi adatti a questa o a quella sequenza, a questo o
a quel personaggio: si tratta senza dubbio di uno dei primi esempi di musica
elettronica generativa. Che la musica de Il pianeta proibito dovesse suonare
inaudita o d’avanguardia rientrava negli stessi intendimenti della MGM, che
(rivela la stessa intervista) prima di scritturare i Barron aveva preso
contatto con Harry Partch, uno dei bad boys della musica sperimentale
statunitense.
I coniugi, del resto, non erano per nulla estranei ai
circoli dell’intellettualità d’avanguardia: nel loro studio al Greenwich
Village, fondato nel 1951, avevano ospitato Henry Miller, Tennessee Williams,
Aldous Huxley e Anaïs Nin, e fra il 1952 e il 1953 John Cage aveva registrato
lì il suo Williams Mix. Se si ascoltano a breve distanza brani come Studie II
di Karlheinz Stockhausen (1953), Scambi di Henri Pousseur (1957), il Poème
électronique di Edgard Varèse (1958) e alcuni frammenti della colonna sonora de
Il pianeta proibito, si possono trovare non poche somiglianze timbriche (come
ho detto, gli apparati di base erano sostanzialmente gli stessi) e anche
strutturali (se si eccettua Stockhausen, naturalmente).
Almeno nel caso di Varèse, non ci si può basare sulla
distinzione tra musica applicata e musica assoluta, e d’altra parte non si può
dire che i Barron componessero per il cinema in modo tradizionale (come rimarcarono i
famosi sindacati): dunque già all’origine, per così dire, le «electronic
tonalities» dei Barron e la musica elettronica dei compositori d’avanguardia
europei e statunitensi si trovavano nella medesima nebulosa stilistica. Quasi
subito, però, la colonna sonora dei Barron diventa il prototipo per le colonne
sonore dei film di fantascienza, determinando uno dei non pochi casi di
invasione semantica della musica da film in altri generi musicali.
Chiamo “invasione semantica” il processo per cui una
forte associazione tra materiale musicale e significati paramusicali,
determinata dall’efficacia comunicativa di un testo complesso (un film, in
questo caso), istituisce e stabilizza un codice che diventa dominante rispetto
ad altri testi. Qualche esempio: il cool jazz di Ascenseur pour l’échafaud
(Ascensore per il patibolo, Louis Malle, 1958), musica di Miles Davis, che
codifica l’associazione cool jazz/suspense; la fanfara iniziale di Also sprach
Zarathustra di Richard Strauss, che grazie all’uso da parte di Kubrick
in 2001: Odissea nello spazio diventa simbolo di tecnologia avveniristica in
decine e decine di spot televisivi eccetera.
Potenziato dall’uso documentaristico e televisivo, questo
processo da un certo momento in poi interferisce con la più che legittima
aspirazione dei compositori di musica elettronica di comunicare altre emozioni
e altri significati (o nessuno, secondo un’estetica autonoma): non è solo
l’ascoltatore più ingenuo a pensare immediatamente alla fantascienza quando
ascolta i suoni di un modulatore ad anello, riverberati e filtrati, mixati con
del rumore rosa, mandati in eco. E d’altra parte valgono a ben poco gli
incitamenti e le proibizioni della critica superciliosa: come ha spiegato bene
il cognitivista George Lakoff, l’effetto di un invito come “non pensare a un
elefante” ha come risultato immediato di far pensare a tutti gli elefanti
possibili (9). Anche “non pensare alla fantascienza” funziona poco!
Scardinare un codice, un effetto prototipico, un frame,
un habitus, uno schema – concetti diversi per definire processi affini,
rispettivamente secondo le prospettive della semiotica di Eco (10), della
psicologia cognitiva di Rosch (11), delle scienze cognitive di Lakoff (12),
della sociologia antropologica di Bourdieu (13), della neuropsicologia musicale
di Levitin (14) – non è semplice.
Nel lungo processo di emancipazione della musica
elettronica (soprattutto quella delle avanguardie storiche degli anni Cinquanta
e Sessanta del Novecento) dalla fantascienza, ha certamente pesato l’abbandono
del cliché proprio da parte del cinema, prima con Kubrick, poi con Lucas e
Williams. Anche se la profusione di sinfonismo wagnerian-hollywoodiano nella
saga di Star Wars, più che far pensare a una ristrutturazione del genere
fantascientifico sotto l’aspetto musicale, contribuisce a consolidare l’idea
che il genere di riferimento di Lucas, almeno nel primo episodio (oggi
quarto...), sia il western (come propongono King e Krzywinska nel loro Science Fiction Cinema) (15).
Un altro contributo è venuto dal dilagare dei suoni
elettronici nella popular music, a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Nella prima fase, in realtà, abbondano ancora gli abbinamenti tra suoni
elettronici e paesaggi spaziali (la popular culture gioca coi cliché, più che
respingerli), come nei Pink Floyd di Astronomy Domine (da The Piper at the
Gates of Dawn, 1967) e Set the Controls for the Heart of the Sun (da Ummagumma,
1969), o negli insoliti Rolling Stones di 2000 Light Years from Home (1967, da
Their Satanic Majesties’ Request), o ancora nei Moody Blues di The Best Way to
Travel (1968, da In Search of the Lost Chord), ma in seguito suoni ancora più
inauditi, come quelli dei campionatori, degli harmonizer, dei vocoder, pur suggestivi,
diventano familiari sia attraverso le canzoni popular che nei jingle televisivi
e nelle colonne sonore.
Conta, naturalmente, la velocità crescente (e oggi ormai
immediata) con cui nuove soluzioni musicali si diffondono da un medium
all’altro, da un genere all’altro, e conta anche la privatizzazione e
l’industrializzazione della ricerca. Già nel 1982, quando la Biennale di
Venezia ospitò la prima esecuzione di Quando stanno morendo. Diario polacco n.
2 di Luigi Nono, le macchine dell’Experimentalstudio der
Heinrich-Strobel-Stiftung des Südwestfunks di Freiburg erano in buona parte
apparecchiature standard, che si sarebbero trovate già da qualche tempo nei
migliori studi di registrazione commerciali.
La normalizzazione dell’elettronica inevitabilmente
comportava un avvicinamento, la progressiva rimozione dell’inaudito, il
passaggio dalla fantascienza alla scienza, e poi alla tecnica quotidiana. Sotto
questo aspetto, il fatto che l’unica applicazione industriale della leggendaria
piastra 4X, lo strumento universale progettato per l’Ircam da Giuseppe di
Giugno e utilizzato in composizioni di Boulez, Nono e altri, sia stata
destinata al simulatore di volo dell’Airbus (un gigantesco videogioco per
professionisti) ha molto da raccontarci sulla fantascienza, sul futuro, e sul
futuro della musica e del cinema.
note
1) Isaac Asimov, Il crollo della galassia centrale,
«Millemondi 1971». Supplemento a Urania 568, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,
1971, pp. 157-317 (trad. di Foundation and Empire, Gnome Press, New York, 1952,
prima ed. italiana 1964). Il brano citato è a pp. 255-257.
2) Fred K. Prieberg, Musica ex machina, Einaudi, Torino,
1963, pp. 268
3) «Violins, cellos, and basses (all three
electric), two theremin electronic instruments (played by Dr. Samuel Hoffman
and Paul Shure), two Hammond organs, a large studio electric organ, three
vibraphones, two glockenspiels, marimba, tam-tam, 2 bass drums, 3 sets of
timpani, two pianos, celesta, two harps, 1 horn, three trumpets, three
trombones, and four tubas. Unusual overdubbing and tape-reversal techniques
were used, as well». Wikipedia, voce: «The Day the Earth Stood Still (1951
film)» (ultimo accesso: 24 novembre 2010).
4) Edgard Varèse, Nuovi strumenti e nuova musica, in Il
suono organizzato. Scritti
sulla musica, Ricordi-Unicopli, Milano, 1985, pp.101-103.
5) Philipp Tagg, «Towards a Sign Typology of Music», in
Rossana Dalmonte, Mario Baroni (a cura di), Secondo convegno europeo di analisi
musicale. Atti, Università diTrento, Trento, 1992, pp. 369-378.
6) Rimando per questo a Franco Fabbri, «From musique
concrète to rock ‘n’ roll, from tape and electronic music to the Beatles, from minimalism
and progressive rock to disco and techno: unscored music and its challenge to
score-centred musicology», relazione presentata al convegno Generazioni
elettroniche, Università di Udine, Gorizia, 21 ottobre 2010, di prossima
pubblicazione negli Atti.
7) Louis Barron, Bebe Barron, Forbidden Planet
Soundtrack LP, note di copertina,
parte 2/2, Moving Image Entertainment, MIE 008. («Progettiamo e realizziamo circuiti elettronici che funzionano elettronicamente in maniera molto simile al modo in cui le forme di vita più basse funzionano psicologicamente. Vi è una vasta scienza matematica, chiamata «cibernetica», che si occupa e che spiega il Controllo e la comunicazione dei viventi e le macchine. Ciò è stato studiato e proposto per la prima volta dal Prof. Norbert Wiener del M.I.T. che ha scoperto che ci sono alcune leggi naturali di comportamento applicabili allo stesso modo agli animali (compreso l'uomo) e alle macchine elettroniche. In Forbidden Planet - come in tutto il nostro lavoro - invece di utilizzare generatori audio standard abbiamo creato circuiti cibernetici personalizzati per particolari per ciacun tema e leit motiv. In realtà, ogni circuito ha un modello, un'attività caratteristica nonché una «voce». Notevole è che i suoni che emanano da quei sistemi nervosi elettronici sembrano trasmettere un forte significato emotivo per gli ascoltatori. Siamo stati lieti di sentire persone che ci hanno detto che le tonalità di Forbidden Planet ricorda il suono dei loro sogni. Non erano stati ancora utilizzati sintetizzatori e non c'erano scuole di musica elettronica quando abbiamo iniziato a lavorare a questo film, e quindi eravamo liberi di esplorare la «terra incognita» [sic] con tutte le sue sorprese e avventure».)
8) «Bebe Barron On The Cybernetics Of
Electronic Music Circuits», 4 marzo 2009, sul sito Synthtopia, http://www.synthtopia.com/content/2009/03/04/bebe-barron-on-thecybernetics-
of-electronic-music-circuits/ (ultimo accesso: 26 ottobre 2010).
9) George Lakoff, Don’t Think of an Elephant!,
Chelsea Green Publishing, White River Junction, 2004 (tr. it. Non pensare all’elefante!, Fusi
orari, Roma, 2006).
10) Umberto Eco, Trattato di semiotica generale,
Bompiani, Milano, 1976.
11) Eleanor Rosch, Principles of
Categorization, in Eleanor Rosch, Barbara B. Lloyd (a cura di), Cognition and
Categorization, Erlbaum, Hillsdale (NJ), 1978.
12) George Lakoff, Women, Fire, and Dangerous
Things. What Categories Reveal about the Mind, The University of Chicago Press,
Chicago, 1987 (tr. it. Donne, fuoco e cose pericolose. Come la mente categorizza il mondo, La
Nuova Italia, Firenze, 1999).
13) Pierre Bourdieu, La distinction, Les
Éditions de Minuit, Paris, 1979 (tr. it. La distinzione. Critica sociale del
gusto, Il Mulino, Bologna, 2001).
14) Daniel Levitin, This Is Your Brain on
Music, Dutton/Penguin, New York, 2006 (tr.it. Fatti di musica. La scienza di un’ossessione umana,
Codice, Torino, 2008).
15) Geoff King, Tanya Krzywinska, Science
Fiction Cinema. From Outerspace to Cyberspace, Wallflower, London and New York,
2000.
orizzonti
A cura di Ilario Meandri
e Andrea Valle
SUONO/IMMAGINE/GENERE
© edizioni kaplan 2011
Via Saluzzo, 42 bis - 10125 Torino
Tel. e fax 011-7495609
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ISBN 978-88-89908-60-0
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franco.html
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