uno dei due è l'altro

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domenica 25 giugno 2017

Tamburi assemblati. Lo strumento inventato dal jazz.



Art Blakey


Il solo strumento inventato per e nel jazz. Quello in cui sfociano, al termine di un lungo viaggio oceanico, le percussioni africane, le quali incrociano al passaggio nel nuovo mondo i tamburi militari europei:



La Batteria

 

 

 



 








  L’ idea di assemblare dei tamburi, dei piatti e dei mezzi di percussione diversi – per metterli a disposizione di un singolo musicista, mentre invece nelle fanfare questi pezzi sono adoperati da strumentisti differenti – risale indubbiamente alle orchestre da circo del XIX secolo. Molti spettacoli itineranti avevano d’altronde la loro orchestra e i musicisti neri vi erano numerosi. D’altra parte accadeva alle fanfare di New Orleans di prodursi nei balli e di passare così, in modo del tutto naturale, dalla marcia alla danza. Il gesto decisivo fu quello della messa a punto del pedale della grancassa (una semplice mazza di legno azionata dal piede) e la leggenda l’attribuisce al batterista DeeDee Chandler nel 1895.




Si potrebbe scrivere la storia del jazz a partire dai cambiamenti di funzione di ciascuno degli elementi costitutivi della batteria dal momento della loro messa in pratica. I primi batteristi svolgevano evidentemente la funzione metronomica di marcatura dei tempi, ma la loro esecuzione non è così meccanica e sistematica come a volte è stato detto: sapevano far variare il loro accompagnamento nel corso di uno stesso pezzo (si è spesso associato al jazz di New Orleans la nozione di two-beat (1), ma nel 1923, per esempio, la Creole Jazz Band di King Oliver suona i quattro tempi.






Certamente le registrazioni degli anni ‘20 non sono sempre delle testimonianze che rendono giustizia allo stile dei batteristi: i tecnici del suono hanno avuto grandissime difficoltà a rendere la batteria ed è spesso successo che essi abbiano chiesto al batterista di non suonare i tamburi e la grancassa: è così nelle registrazioni dell’ Hot Seven di Louis Armstrong, Baby Dodds suona unicamente il piatto crash… Ma i trio di Jelly Roll Morton, nel 1929, permettono di verificare la varietà di esecuzione di Zutty Singleton. E gli assolo di dimostrazione registrati da Baby Dodds molto più tardi (1946), con mezzi tecnici più adatti, confermano che la batteria di New Orleans non era povera: si può per esempio constatare quanto siano importanti le radici africane nello stile di Baby Dodds, nel quale si ritrovano frasi intere di tamburo congolese…


Gli altri grandi batteristi dello stile New Orleans sono Paul Barbarin, i fratelli Tubby e Minor Hall, Ben Pollack, Tony Sbarbaro, Kaiser Marshall e, più tardi Sonny Greer. Ma la batteria è considerata allora – e fino alla metà degli anni ‘30 – innanzi tutto come strumento di accompagnamento il cui ruolo è certo di primaria importanza, ma che non è supposta intervenire come solista, salvo che in breaks di due misure. Si dice che Zutty Singleton fu il primo batterista ad eseguire degli assolo completi in orchestra. 





I primi virtuosi della batteria eredi diretti dei maestri di New Orleans appaiono nella metà degli anni ‘20 a Chicago: Gene Krupa, George Wettling e Dave Tough. Precursore dei batteristi Swing Walter Johnson, sin dal 1930, nell’orchestra di Fletcher Henderson, suona sistematicamente lo chabada sul charleston per segnare il tempo, mentre il basso e la chitarra segnano i quattro tempi uguali: questa combinazione di due sistemi ritmici domina, quasi immutata fino agli inizi degli anni ‘40. E’ un modo di accompagnare poco variato ma che assicura la coesione – e anche la scioltezza – del trio ritmico chitarra-basso-batteria. Il trio di Count Basie con Jo Jones (a partire dal 1936) rappresenta perfettamente questa formula.

E’ a questo momento che la batteria comincia a farsi ascoltare in assolo nelle big band: Chick Webb, Gene Krupa, Big Sid Catlett (uno degli accompagnatori più lucidi e dei solisti più inventivi), Cozy Cole, James Crawford, Lionel Hampton. Il batterista diviene già un’attrazione, una vedette dell’orchestra.






La rivoluzione della batteria avviene con il bebop nel 1945 e grazie alle innovazioni di Kenny Clarke. Sin dall’inizio degli anni ‘40, egli opera un insieme di spostamenti dalle conseguenze considerevoli: mentre, fino ad allora, il tempo è battuto sulle casse e le punteggiature sui piatti, egli rovescia il dispositivo e segna il tempo con lo chabada sul grande piatto ride, mentre invece il charleston segna i tempi deboli, e il rullante e la grancassa servono a punteggiare il discorso del solista (la grancassa manda anche, di tanto in tanto, delle “bombe”, cosa che era stata già fatta, ma che Kenny Clarke ha sistematizzato e reso più complessa). Si afferma così l’indipendenza dei quattro arti del batterista, inseguito alla quale può nascere tutta la batteria moderna.





Ma è anche la funzione stessa della batteria che è cambiata: da strumento per il ballo è diventato strumento da concerto. Con Max Roach, d’altra parte, la batteria si rivela ancor più strumento melodico capace di fraseggiare e di modulare i suoni: egli libera la batteria dal peso della sezione ritmica e la rende voce musicale in grado di sostenere e di sviluppare lunghi discorsi. Questo nuovo approccio è quello di tutta una generazione di batteristi, ciascuno dei quali apporta una sua propria sonorità: Art Blakey, con il suo afrocubanismo e il suo pressing roll; Philly Joe Jones, che fa uscire il pedale charleston dal battito regolare; Denzil Best, il migliore specialista delle spazzole; Roy Haynes, e la sua battuta secca che evoca i suonatori di timpani cubani; Jo Jones, Art Taylor, Connie Kay, Jimmy Cobb, J. C. Heard, Tinny Kahn, Shelly Manne. Frank Butler, Chico Hamilton, Stan Levey, Albert Heath, Dannie Richmond, Louis Hayes, Charlie Persip
 





Parallelemente all’esplosione del bebop negli anni ‘40-’50, l’arte della batteria si rinnova anche nelle grandi orchestre, per conoscere forse il suo apogeo con batteristi come Louie Bellson (uno dei primi ad utilizzare due grancasse), Buddy Rich (il drummer più energico e rapido che si sia mai conosciuto), Gus Johnson, Sonny Payne, Sam Woodard (mago del tempo e delle atmosfere sonore) e Mel Lewis, di un’efficacissima sobrietà.

Con Elvin Jones, negli anni ‘60, a parte la potenza di battuta, entra in scena un nuovo modo di punteggiare o piuttosto di nutrire il flusso musicale: poliritmico, esso sostituisce alle figure abituali delle autentiche sequenze che giocano su più misure o gruppi di misure e che avvolgono la voce solista – in questo caso quella di John Coltrane – in un tessuto percussivo estremamente ricco e cangiante.





E’ aperta la strada a un tempo più libera e più complessa. Non vi sono più elementi della batteria a cui sia attribuita una funzione precisa e fissa. I batteristi giocano liberamente con i timbri, con i ritmi, che sovrappongono o fanno variare, e disegnano così una musica nella musica. Ed Blackwell e Billy Higgins, agli inizi dell’avventura del free jazz con Ornette Coleman, mettono in atto una totale libertà metrica, pur dispiegando un fraseggio di una chiarezza esemplare e un solido swing.

Con loro: Al Foster, Paul Motian, Andrew Cyrille, Daniel Humair, Pierre Favre, Sunny Muray, Beaver Harris, Milford Graves, Cherles Moffett, Rashied Ali, Joe Chambers, Tony Oxley






Jack Dejohnette e Tony Williams, entrambi rivelati da Miles Davis, continuano sulla strada aperta da Elvin Jones controllando perfettamente la pulsazione: lontana dal sistematico chabada, essa è piuttosto suggerita o percepita che esplicitamente marcata, e ciò permette una più attiva partecipazione del batterista all’esecuzione di insieme.All’opposto, l’emergere negli ‘70 del jazz-rock conduce la batteria a una sorta di ritorno vero concezioni più semplici e più sottolineate della pulsazione, dietro la pressione della musica da ballo (rhythm and blues, rock and roll). Grancassa e tamburi ridiventano i principali marcatori del tempo. Questa tendenza alla semplificazione non esclude certe ricerche ritmiche in batteristi come Bernard Pretty Purdie, Billy Cobham, Lenny White, Alfonse Mouzon … I tentativi del jazz “fusion”, senza rinunciare al ritmo binario, fanno ritrovare alla batteria varietà e scioltezza – Steve Gadd o Peter Erskine





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1) nel jazz, accentuazione, da parte della sezione ritmica, del primo e del terzo tempo della battuta, tipica del dixieland




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Fonte: Dizionario Jazz di Philippe Carles, André Clergeat, Jean Louis Comolli. Curcio editore, 1989





 

domenica 18 giugno 2017

Il "Noir" nella Città di Quarzo








Tratto dall'affascinante libro di Mike Davis "La Città di Quarzo" (Manifestolibri - 1993), un potente affresco dedicato al "noir" dove si intrecciano politica, letteratura, cinema e vicende umane, sul grandioso sfondo di una  dura e "postmoderna" metropoli, che allora era il futuro e oggi, forse, il passato: Los Angeles

Ho inserito, naturalmente,  musica per i pazienti: Swans, Dead Kennedys, X e Art Pepper.





NOIRS!



Nel 1935, il famoso scrittore radical Lewis Corey (il cui vero nome era Louis Fraina) annunciò nel suo Crisis of the Middle Class che il «Sogno Jeffersoniano» era moribondo: «Quell’ideale middle class è finita, e non la si può far risorgere. Oggi gli Stati Uniti sono una nazione di lavoratori dipendenti e di diseredati». In un momento in cui contabili senza lavoro e agenti di borsa in rovina stavano in coda per un piatto di minestra a fianco di camionisti e di operai delle acciaierie, il bigottismo middle class degli anni ’20 era ormai costretto a nutrirsi solo di un obsoleto orgoglio di classe. Corey avvertiva che una classe media in caduta verso il basso, «in guerra con se stessa», stava avvicinandosi a grandi passi a un crocevia radicale, dal quale si sarebbe diretta o verso il socialismo o verso il fascismo. 

L’evocazione del duplice fenomeno di pauperizzazione e di radicalizzazione della classe media trovava un riscontro letterale e appropriato a Los Angeles nei primi anni ’30, più che in qualsiasi altra parte del paese. Ed era proprio la struttura portante del lungo «boom sudcaliforniano» - alimentato dal risparmio della middle class, incanalato nella speculazione petrolifera e immobiliare - a generare un circolo vizioso di crisi e di rovina finanziaria per una massa di agricoltori in pensione, piccoli businessmen e speculatori immobiliari. E invero l’assenza di un’industria pesante (insieme con la deportazione di decine di migliaia di operai disoccupati messicani nel loro paese di origine) ebbe l’effetto di mettere in primo piano e di amplificare la Depressione a Los Angeles proprio tra gli strati intermedi, dando vita a fermenti politici a volte bizzarri.





Gli osservatori politici, abituati a dare per scontato il conservatorismo politico degli immigrati dal Midwest in California del Sud, non potevano credere ai loro occhi quando, nel 1934, Upton Sinclair, il più noto socialista della regione, rastrellò più di centomila voti, fuggiti dal partito repubblicano, a sostegno del suo programma «End Poverty in California», caratterizzato dal quasi rivoluzionario appello alla «produzione per l’uso». Quattro anni dopo, osservatori e giornalisti mettevano in guardia contro il potenziale pericolo di un fascismo locale, giacché le preferenze elettorali s’erano spostate sull’oscuro movimento «Ham and Eggs» («Prosciutto e uova»), una strana combinazione di rivendicazione per i pensionati e di demagogia da camicie brune. 

Gli agitati elettori middle class abbracciarono altre «comete politiche», come Technocracy Inc., la Utopian Society e il Townsend Plan. Non a caso gli epicentri di questa turbolenza si trovavano nei poli di crescita suburbana dei ruggenti anni ’20: Glendale (la roccaforte di «End Poverty in California») e Long Beach (residenza di 40 mila anziani dello Iowa, luogo di nascita del Townsend Plan e roccaforte di «Ham and Eggs»). Questi settori di middle class sudcaliforniana «impazzita» con la Depressione divennero, in un modo o nell’altro,i protagonisti originari di quel grande antimito comunemente noto, come «noir».


A partire dal 1934, con Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, una serie di romanzi dark - tutti prodotti da scrittori sotto contratto con gli studios di Hollywood - ridisegnavano l’immagine di Los Angeles come inferno urbano senza radici. 

«Scrivendo contro il mito dell’Eldorado, lo trasformarono nella sua antitesi; e dal sogno uscito dalla costa californiana crearono una fiction regionale ossessivamente preoccupata di far scoppiare l’immagine gonfiata della California del Sud, dorata terra di opportunità e di nuovi inizi»

 Il «noir» era come una grammatica della trasformazione che mutava ogni fascinoso ingrediente dell’Arcadia dei «Propagandisti» in un suo sinistro equivalente. Così, in Non si uccidono così anche i cavalli (1935) di Horace McCoy, la sala sul molo dove si svolge la maratona di ballo diventa un campo di sterminio per le anime perdute della Depressione. I «bei giorni monotoni senza cambiamenti e senza fine [...] non guastati dalla pioggia o dal tempo» del breve racconto «noir» di William Faulkner Golden Land (1935) erano il supplizio di Sisifo per la matriarca di una famiglia del Midwest corrotta dal successo raggiunto a Los Angeles. Analogamente Cain, in Double lndemnity (1936) e in Mildred Pierce (1941) evocava bungalows avvelenati, la cui normalità fatta di pareti bianche e di pavimenti di cotto rosso a stento nascondeva le criminali relazioni familiari di chi ci viveva. 




Ne Il giorno della locusta (1939) di Nathanael West Hollywood diventava la «discarica dei sogni» un paesaggio allucinato, vacillante sull’orlo dell apocalisse E nei successivi romanzi di Chandler il clima (il «tempo da terremoto» e i «venti di Santa Ana», ispiratori di disordine) diventava sempre più lugubre; c’erano persino delle «signore nei laghi». Collettivamente le classi medie «declassate» di questi romanzi sono prive di coerenza ideologica o di capacità di agire, con l’eccezione dei sonnambuli di McCoy e dei tumulti del «popolo delle pulci» di West. Tuttavia, individualmente, i loro antieroi piccolo-borghesi esprimevano in modo tipico sentimenti autobiografici in quanto il «noir» degli anni ’30 e ’40 (e, di nuovo, quello degli anni 60) divenne il canale di sfogo per le frustrazioni degli scrittori intrappolati nello studio system

Così, il primissimo detective hardboiled hollywoodiano, Ben Jardinn, eroe di un serial del 1930, The Black Mask, echeggiava il cinismo nei confronti degli studios del suo creatore, Raoul Whitfield, un mezzo attore diventato un forzato della sceneggiatura. E Tod Hackett ne Il giorno della locusta viene ritratto in una situazione simile a quella di West stesso: portato sulla Costa Ovest da un talent scout degli studios e costretto a vivere «il dilemma di come conciliare il suo lavoro creativo con le sue fatiche commerciali» 

Analogamente, il Marlowe di Chandler simboleggiava il piccolo businessman impegnato in una lotta contro i gangsters, la polizia corrotta e i ricchi parassiti (che di solito erano anche i suoi datori di lavoro): un simulacro romanticizzato della relazione dello scrittore con i mercenari e con i «mogul» degli studios.

D’altro lato, Budd Schulberg esaminava dall’alto in basso i rapporti di sfruttamento tra scrittore e mogul. Un figlio d’arte degli studios (suo padre era capo della produzione della Paramount), divenuto scrittore comunista, ritrasse il capitalismo hollywoodiano con realismo quasi documentario in What Makes Sammy Run? (1940). Sammy Glick, il giovane mogul in ascesa, si nutre della creatività di amici e dipendenti che, in cambio, tradisce e distrugge. Come osserva uno dei personaggi di Shulberg: «lui è l’“id” della nostra società».



La prospettiva psicoanalitica di Shulberg restò, comunque, un’eccezione. Uno dei tratti distintivi della prima generazione della «Los Angeles fiction» era l’enfasi sugli interessi economici degli individui, più che una approfondita analisi psicologica. Così, qualcosa di simile alla teoria del «valore del lavoro» forniva un coerente taglio moralistico ai romanzi di Chandler e Cain. C’è una costante tensione tra la middle class «produttiva» (Marlowe, Mildred Pierce, Nick Papdakis e così via) e i «declassés improduttivi» o i ricchi nullafacenti (gli Sternwoods, Bert Pierce, Monty Beragon, ecc.). Ormai incapaci di accumulare ricchezze attraverso speculazione immobiliare o gioco d’azzardo, avendo perso la loro eredità (o semplicemente perché vogliono impadronirsene al più presto) i «noirs decaduti» scelgono invariabilmente il delitto invece del duro lavoro. E invariabilmente il conflitto romanzato tra questi due diversi strati intermedi richiama il contrasto tra l'economia della California del Sud, «pigra» e speculatrice (traffici immobiliari e Hollywood), e il cuore dell’America lavoratrice.


Questi temi del «Romanzo di Los Angeles» degli anni ’30 subirono interessanti mutazioni nel film noir degli anni ’40. A volte il film noir è definito concisamente come il risultato dell’incontro tra il romanzo hardboiled americano e il cinema espressionista tedesco in esilio — una definizione semplicistica che lascia fuori altre influenze decisive, tra cui la psicoanalisi e Orson Welles. Per il nostro discorso, comunque, è significativa la maniera in cui l’immagine di Los Angeles è rielaborata nel passaggio tra romanzo e sceneggiatura (a volte incestuosamente, come nel caso di Chandler che riscrive Cain, o di Faulkner che riscrive Chandler) e poi tradotta sullo schermo dagli autori «noir» più o meno di sinistra (alcuni dei quali esuli) come Edward Dmytryck, Ring Lardner jr., Bem Maddow, Carl Foreman, John Berry, Jules Dassin, Abraham Polonsky, Albert Maltz, Dalton Trumbo e Joseph Losey. In mano loro il film noir si avvicinò a tratti al «cinema manqué» marxista, un abile e obliqua strategia per un realismo altrimenti sovversivo.

Dopo i primi adattamenti di Cain e di Chandler, il film noir iniziò a sfruttare le ambientazioni di Los Angeles in altri modi. Dal punto di vista geografico, si spostò progressivamente dai bungalows e dalle periferie suburbane all’epica desolazione di Bunker Hill, in Downtown, simbolo del marciume nel cuore della metropoli in espansione.  Sul piano sociologico, il «noir» degli anni ’40 era in genere più preoccupato di ritrarre il sottoproletariato dei gangster e la corruzione della polizia che la crisi della middle class. Politicamente l’ossessione implicita per il destino dei piccoli produttori fu sostituita dalle rappresentazioni della reazione politica e della polarizzazione sociale. 





Certo, il «noir» restava un’estetica ideologicamente ambigua che poteva essere manipolata in modi totalmente divergenti. Cosi Howard Hawks decideva di appiattire i forti chiaroscuri de Il grande sonno (il romanzo più avverso ai ricchi di Chandler) in un atmosfera romantica per Bogart e la Bacall, mentre i più duri Dmytryck e Adrian Scott (entrambi futuri membri degli «Hollywood Ten») evocavano premonizioni di fascismo e di lavaggi del cervello nella loro versione di Farewell, My Lovely (Marder, My Sweet)

Le sperimentazioni del film noir venivano rispecchiate nelle nuove tendenze della letteratura hardboiled di Los Angeles durante gli anni ’40. John Fante, che insieme con Adamic e Cain era stato scoperto dall’ «American Mercury» di Mencken all‘inizio della Depressione, fondò una propria scuola di «scrittura da ubriaconi», che raccontava in maniera autobiografica la vita negli hotel scalcinati di Bunker Hill e nelle sale da ballo di Main Street negli anni della Depressione e della guerra. Charles Bukowsky avrebbe più tardi acquisito una fama sproporzionata (compresi due film «autobiografici») per le sue descrizioni di chiara origine fantiana, del sottobosco hollywoodiano abitato da decadute «star da bar», un mondo descritto senz’altro meglio nella fantasmagorica autobiografia del jazzista e tossicomane Art Pepper (1)

I due romanzi di Aldous Huxley ambientati a Los Angeles (After Many a Summer Dies (1939) e Ape and Essence (1948) precorrono su un altro versante il romanzo fantastico del dopoguerra (da Crying ot Lot 49 (1966) di Thomas Pynchon a The Gold Coast (1988) di Kim Stanley Robinson) che sfruttava l’incerto confine esistente nella California del Sud tra realtà e fantascienza. Come ha sottolineato Davi Dunaway, l’importante contributo dato da Huxley alla critica della mitografia di Los Angeles viene oggi raramente riconosciuto. 




Se Swan, con i suoi grotteschi e appena velati ritratti di William Randolph Hearst e di Marion Davis, ispirò Citizen Kane  di Orson Welles (1940), Ape and Essence con la sua selvaggia visione di ciò che segue all’Apocalisse, fu «il precursore dei film di fantascienza sulla distruzione ambientale di Los Angeles e sull’ involuzione umana», una lista che comprende Il Pianeta delle Scimmie, Omega Man e Blade Runner.


La prima fantascienza di Ray Bradbury mostrava nel frattempo una forte influenza «noir» che veniva dalla sua maestra di science fiction, Leigh Brackett, una seguace dello stile di Chandler e Hammett. L’ unicità di Bradbury sta nel fatto che era un figlio di gente di campagna divenuto «poeta delle riviste popolari». Emigrato dal Wisconsin durante la Depressione, andò a scuola alla L.A. High School (ma non ha mai imparato a guidare) e divenne un membro entusiasta dell’impaurita «fanocrazia» di West: «Ero uno di loro gli Strani. La gente buffa. La strana Tribù dei collezionisti di autografi e dei fotografi. Quelli che attendevano per lunghi giorni e notti, e che usavano i sogni…di altri. Per le proprie vite».

Le Cronache Marziane (l950) di Bradbury ruotano intorno alle contraddizioni tra la turneriana, molto western, ricerche di nuove frontiere e la struggente nostalgia per l’America di provincia. In un certo senso Bradbury prendeva l’angoscia degli spaesati «Midwesterners» di Los Angeles e la proiettava su un destino extraterrestre. Come ha fatto notare David Mogen, Marte di Bradbury è in realtà il «doppio metafisico» di Los Angeles: «un prodotto di fantasie sovraimposte [...] magiche promesse e disorientante cattiveria».

Ma la più interessante apparizione sulla scena letteraria di Los Angeles negli anni ’40 è probabilmente quella, breve, del «Black noir». Los Angeles era un miraggio particolarmente crudele per gli scrittori neri. A prima vista, al giovane Langston Hughes, in visita in città durante le Olimpiadi del 1932, 

«Los Angeles sembrava più un miracolo che una città, un posto dove si vendevano arance per un cent la dozzina, dove la gente comune di colore viveva in case enormi, con miglia di giardino e dove la proprietà sembrava regnare nonostante la Depressione»



Più tardi, nel 1938, quando tentò di lavorare nello studio system, Hughes scoprì che l’unico ruolo disponibile per gli scrittori neri era quello di produrre avvilenti dialoghi per parodie della vita dei neri nei «campi di cotone». Dopo un’umiliante esperienza con il film Way Down South, Hughes dichiarò che «per quanto riguarda i neri, sarebbe lo stesso se Hollywood, fosse controllata da Hitler».

La disillusione di Hughes riguardo a Los Angeles venne ripercorsa, in forma ancor più straziante, dall’esperienza di Chester Himes. All’inizio della guerra, Himes (che aveva passato gli anni della Depressione in un penitenziario in Ohio, condannato per rapina) venne nell'Ovest con la moglie Jean, in cerca di una nuova vita come sceneggiatore per Warner Brothers


Nonostante l’ottima reputazione come scrittore di racconti brevi per «Esquire» (fu il primo «scrittore detenuto» di una certa fama), Himes si trovò di fronte all’implacabile muro di razzismo di Hollywood. Il suo biografo cosi descrive I’incidente: «venne licenziato dalla Warner Brothers non appena jack Warner venne a sapere di lui e disse: “Non voglio nessun ‘nigger’ nel mio studio”». Cacciato dagli studios a causa della sua razza, Himes passò il resto degli anni della guerra lavorando come manovale in fabbriche belliche in cui vigeva un regime di segregazione interna, sconvolte di tanto in tanto da esplosioni di violenza bianca. Come avrebbe più tardi ricordato nella sua autobiografia, fu un’esperienza bruciante: 
«Fino ai trentun anni ero stato ferito emotivamente, spiritualmente e fisicamente al limite della sopportazione: ero vissuto nel Sud, ero caduto da un ascensore, ero stato cacciato da scuola, avevo passato sette anni e mezzo in prigione, ero sopravvissuto a cinque umilianti anni di Depressione a Cleveland; e tuttavia ero ancora tutto integro, completo, funzionante; la mia mente era attenta, i miei riflessi buoni e non ero inacidito. Ma la corrosione mentale e il pregiudizio razziale di Los Angeles mi resero amareggiato e saturo d’odio»


 
Il ritratto «dostoyewskiano» che Himes fece di Los Angeles come inferno razziale, If He Hollers Let Him Go (1945), è un «noir» magistrale, al livello di quelli di Chandler e di Cain. Ambientato nella lunga estate calda del 1944, narra di come il razzismo bianco, in azione in circostanze capricciose, provoca l’autodistruzione di Bob Jones, un caposquadra specializzato dei cantieri navali. Come ha notato un critico, «la paura è il tema principale del romanzo [...] il progressivo deterioramento di una personalità sotto la mortale pressione di una grande, ineluttabile paura». Il successivo romanzo di Himes, Lonely Crusade (1947) è anch’esso ambientato nello scenario da incubo, pieno di tensioni razziali, dell’industria bellica di Los Angeles. Questa volta la paura distrugge lo spirito di Lee Gordon, un laureato nero di Ucla e organizzatore sindacale vicino al partito comunista. 

Nel loro insieme, i due romanzi di Himes su Los Angeles, ignorati dalla maggior parte dei critici del genere «noir», rappresentano una brillante e disturbante analisi della psicotica dinamica del razzismo nella terra del sole splendente. La caricatura della locale «cospirazione rossa» in Lonely Crusade di Himes prefigurava anche (sia pur involontariamente) l’emergere del «noir» anticomunista degli anni della guerra di Corea. Mentre la «Hollywood Inquisition» stava stroncando le carriere della maggior parte degli scrittori, registi e produttori degli autentici film noir, una progenie bastarda, anticomunista, di ambiente angeleno, appariva nei circuiti dei «B-movie» (per esempio, Stakeoat on 101) e nei libri tascabili da supermercato (i thrillers sado-maccartisti di Michey Spillane). 

Intanto, per tutti gli anni ’50, Ross MacDonald (Kenneth Millar) continuava a sfornare «detective noir» abbastanza ben scritti, in stile chandleriano, di solito con accenni al contrasto tra la primitiva bellezza della costa della California del Sud e l’altrettanto primitiva avidità dei suoi uomini d’affari. Si assisté a un importante revival del genere «noir» negli anni ‘60 e ‘70, quando una nuova generazione di scrittori e registi immigrati in California rivitalizzò l’antimito rielaborandolo in termini fantastici, fino a farne un ’organica controstoria. Robert Towne (influenzato da Chandler e West) sintetizzava brillantemente i grandi accaparramenti e speculazioni fondiarie della prima metà del XX secolo nelle due storie per il grande schermo Chinatown e I due Jakes




E dove Chinatown creava un antenato anni ’20 per il «noir» degli anni ’30 e ’40, I due Jakes con True Confessions di John Gregory Dunne, lo trasponeva nel boom suburbano del dopoguerra; e Blade Runner di Ridley Scott (un intelligente rielaborazione di Do Androids Dream of Electric Sheep? di P. K. Dick) dipingeva un’impressionante e chandleresca Los Angeles del terzo millennio. Più recentemente, Ray Bradbury (ritornando al genere dopo quaranta anni di assenza) ha ammorbidito il «noir» con il suo impassibile e nostalgico ricordo della Venice Beach degli anni ‘50 (prima del rinnovamento urbano e della yuppizzazione) in Death is a Lonely Business (1985).

Parallelamente a questo progetto di storia «noir» della Los Angeles passata e futura (che in realtà è diventato un surrogato della storia pubblica), altri scrittori degli anni ’60 ripercorressero l’esperienza del «brivido morale» che correva lungo la schiena degli antieroi di Cain e West. City of night (1965) di John Rechy cattura, dal punto di vista dei suoi «angeli perduti» gay, un’immagine della città come puttana notturna in fuga: «il mondo dell’America solitaria schiacciato in Pershing Square», tra anonimi atti sessuali e gratuita brutalità poliziesca. Ma se Rechy, in ultima analisi, poteva provare un certo divertimento nichilistico lungo le coste dove «il sole si arrende e si tuffa nel nero, nero mare», Joan Didion sentiva solo nausea. 

Stregata come nessun altro dalla distopia di Nathanael West, descrisse l’apocalisse morale della Los Angeles degli anni 60 nel suo romanzo Plays as it Lays (1970) e nel volume di saggi Slouching Toward Bethlehem (1968). Per Didion - sull’ orlo di un esaurimento nervoso - la città dei massacri di Mason era già il disordinato paradigma dell’ambizione degradata e della violenza casuale. Il suo atteggiamento di repulsione viscerale fu ripreso anni più tardi da Bret Easton Ellis, il cantore della «gioventù viziata» di L. A. negli anni ’80. Il suo Less than Zero (1985), un romanzo in stile Cain sui giovani dorati del Westside, offre il ritratto finora più tenebroso di Los Angeles: «Immagini di genitori così famelici e irrealizzati da divorare i propri figli […] Immagini così violente e malvage da sembrare il mio unico punto di riferimento anche molto tempo dopo. Dopo che me ne ero andato».




Finalmente sessant’anni dopo le prime short stories uscite su «Black Mask» e su «The American Mercury», che segnalavano l’apparizione del genere, il «noir» di Los Angeles si trasforma in delirante parodia nella scrittura eccessiva di James Ellroy, autodefinitosi «il Cane Indemoniato della letteratura americana». Benché altri esponenti del romanzo «duro» contemporaneo (Arthur Lyons, Robert Campbell, Roger Simon, T. Jefferson Parker e Joseph Wambaugh) abbiano proseguito la tradizione di Chandler/McDonald nel luogo dove era nata, il parossismo allo stato puro di Ellroy sposta il suo lavoro su un altro piano. Il suo Los Angeles Quartet secondo i diversi punti di vista, il punto più alto raggiunto dal genere o la sua reductio ad absurdum.

A tratti tempesta quasi insopportabile di sangue e perversione, Quartet prova a ricostruire la storia moderna di Los Angeles come un occulto continuum di crimini sessuali, congiure sataniche e scandali politici. Per Ellroy, come per Dunne in True Confession il macabro e irrisolto caso della «Black Dahlia» del 1946 è il simbolo cruciale dell’inizio dell’era del dopoguerra: una specie di «Nome della rosa» locale, che nasconde un più grande mistero metafisico. Ma nel costruire questa mitologia onnicomprensiva del «noir» (compresa la discesa nell’ occulto «stile Stephen King»), Ellroy rischia di smorzare le tensioni che erano proprie del genere e con esse, inevitabilmente, il suo potere. Nell’oscurità assoluta dei suoi romanzi non c’è luce residua né ci sono ombre. E il diavolo diventa una banalità forense. Il risultato assomiglia molto al reale tessuto morale dell’era Reagan-Bush: un’ipersaturazione di corruzione che non riesce più a far indignare, e neppure a interessare. 
 



In effetti il ruolo postmoderno del «noir» di Los Angeles potrebbe essere quello di sanzionare la nascita dell’ «Homo reganianus». Nella postfazione all’edizione del cinquantenario di What Makes Sammy Run?, Budd Schulberg confessa la sua costernazione di fronte al fatto che il suo selvaggio ritratto di avidità e di ambizione sia stato recuperato e riscoperto come «Manuale per Yuppies»:

 «Il libro che avevo scritto come rabbiosa denuncia di Sammy Glick sta diventando quello di un personaggio cui riferirsi [...] Questo è il modo in cui lo stanno leggendo nel 1989. E se continuano a leggerlo così, marciando dietro la bandiera di Sammy Glick, con il simbolo del dollaro al posto delle stelle, la versione XX secolo di Sammy, sembrerà quella di un boy-scout al confronto di quella del XXI secolo».

Pynchon prevede perfino peggiori «desublimazioni repressive» (un’espressione di Marcuse particolarmente adatta al contesto) del «noir». In Vineland (1990) - il suo abile romanzo, ambientato in California, sulla «restaurazione del fascismo in America»Pynchon immagina la «disneyficazione» del «noir» per vendere deodoranti e acque minerali agli emergenti «iperyuppies» schulberghiani. In una pagina memorabile, i due protagonisti, i giovanissimi «topi da centro commerciale» Praire e Che, si danno appuntamento al «New Noir Center» di Hollywood:  

«Era una yuppificazione portata a un eccesso così disperato da far sperare a Praire che il ciclo avesse almeno raggiunto il limite [...] Noir Center aveva una boutique di acque minerali chiamata “Bubble Indemnity”, il negozio di mobili da giardino “The Lounge Good Buy”, “The Mall Tease Flacon”, che vendeva profumi e cosmetici e un “delicatessen” stile newyorchese, “The Lady’n’Lox”. . .»





note
1 vedi Art e Laurie Pepper Straight Life: The Story of Art Pepper, New York 1979. Figlio di uno Wobblie di cui Adamic era un ammiratore, Pepper crebbe a Watts, studiò bepop a Central Avenue, si specializzò in eroina  a Boyle Heights e vinse una cattedra a San Quintino. La sua tormentata autobiografia eclissa quella di qualsiasi protagonista dell'inferno bukowskiano.






giovedì 15 giugno 2017

Dall'odore della carta. Alcesti. Rainer Maria Rilke










Fin dall’inizio questo artista, che nella sua fragile figura appariva la più preziosa incarnazione dell’estetismo fin de siècle, tende oltre i limiti dell’arte... Rilke doveva privarsi  negli anni di ogni più facile motivo di ricchezza. Così da trattenere per sé appena una materia, dura  ed opaca, sicuramente posseduta. Nell’aridità di questa materia, inquadrate da pochi segni astratti, egli avrebbe descritto le sue ultime figure e tentato con una voce ormai spoglia l’ultima resistenza delle cose:

Un albero forse ci resta lungo il pendio
da rivedere ogni giorno. Ci resta la strada di ieri.


da "Nota a una traduzione", di Giaime Pintor.






Alcesti


A un tratto il messo era comparso, come
un nuovo giunto, immerso nel tumulto
della festa di nozze, fra la gente.
Ed essi, i bevitori, non sentirono
il dio dal chiuso andare, che portava
la sua divinità come un mantello
umido, e parve loro uno dei tanti
mentre passava. Ma improvvisamente
vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti
a capo della tavola lo sposo
come non piú giacente, ma rapito
in alto, rispecchiare dal profondo
un’ombra estranea che paurosamente
gli si volgeva... E subito fu chiaro,
fu calma, solo con un resto
a terra di torbido rumore, un gorgogliare
di balbettii cadenti, già corrotti,
di sorde risa trattenute. Allora
riconobbero il dio, l’agile dio,
che stava, pieno della sua missione,
implacabile, – e quasi si comprese.
Pure, quando fu detto, parve piú
d’ogni scienza, non cosa da comprendere.
Deve morire Admeto. Quando? Adesso.
Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani,
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò,
come gridò sua madre al nascimento.

Ed ella venne a lui, la vecchia donna,
ed anche il padre venne, il vecchio padre,
e stettero invecchiati, incerti, presso
lui che gridava e a un tratto fissò in loro
lo sguardo, s’interruppe, inghiotti, disse:
«Padre,
importa molto a te di questo avanzo
di vita che ti vieta ormai l’amplesso?
Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna,
Matrona,
perché vivi tu ancora? Hai partorito».
E li teneva vittime all’altare
in una presa. A un tratto lasciò i vecchi,
li spinse via da sé, mentre chiamava
anelante, ispirato: Kreon, Kreon!
E solo questo, solo questo nome.
Ma sul suo viso quello che non disse
era impresso in attesa senza nome;
e ansante verso il giovane, il diletto
amico, oltre la tavola sconvolta
si protendeva: i vecchi, vedi, sono
consunti – misero riscatto – e poco
valgono, mentre tu nella pienezza...

Ma l’amico era come dileguato.
Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse piú di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene... (e subito sarà
tra le braccia che s’aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch’ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d’oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.

Nessun morente piú di me, che vengo
perché tutto, sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.
Come la brezza che si leva al largo,
il dio s’avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall’uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l’uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente...
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere piú che quel sorriso.


Traduzione di Giaime Pintor




Durante il suo soggiorno a Capri, nel 1907, Reiner Marie Rilke compose il poemetto Alkestis, che si ispira, oltre che alla tragedia di Euripide, al bassorilievo Il sacrificio di Alcesti conservato a Villa Albani a Roma. Rilke si scosta dal modello euripideo e dalla versione più diffusa del mito collocando la morte di Alcesti nel giorno stesso delle sue nozze con Admeto. Un motivo, questo, che si trova in racconti folklorici nei quali la Morte si presenta alla festa di nozze per rapire la giovane sposa. Nella prima parte del poemetto viene descritto l’arrivo alla festa nuziale di Hermes, il messaggero degli dèi e lo psicopompo, colui che accompagna i defunti nell’Ade. Egli viene ad annunziare che Admeto deve morire quello stesso giorno. Il dio si aggira nel tripudio della festa senza che nessuno degli invitati lo noti, finché uno non si accorge, dal viso turbato di Admeto, che qualcosa di orribile sta accadendo. A questo punto, cala il silenzio nella sala. Nella seconda parte del poemetto viene descritta la disperazione di Admeto, il quale chiede ai genitori di sostituirlo nella morte: essi non adducono argomentazioni per rifiutare il loro aiuto (come invece avviene in Euripide e nell’Alcestis Barcinonensis). Rimangono attoniti «davanti al figlio urlante». Ed ecco che si fa largo tra la folla degli invitati silenziosi Alcesti, nel suo abito da sposa, e si rivolge direttamente a Hermes offrendosi spontaneamente al sacrificio. Nell’epilogo il poeta descrive l’uscita di Alcesti, scortata da Hermes psicopompo. Admeto barcollando si dirige verso di loro, protendendo invano le mani «come in un sogno», mentre la sposa gli rivolge un sorriso di addio. In questa originale riscrittura del mito, Alcesti non è più modello di fedeltà e di dedizione coniugale: il suo sacrificio infatti si compie prima che la vita matrimoniale abbia inizio. Interessante è inoltre, nel poemetto di Rilke, il ricorrente riferimento all’identità ErosThànatos, esplicitata dalla frase rivolta da Alcesti a Hermes: «Non te l’ha detto, la dea che ti manda, che quel talamo, che là dentro attende, agli Inferi appartiene?» che rimanda al valore archetipico, da noi già rilevato prima, della coppia Admeto-Alcesti come doppio della coppia Ade-Persefone