uno dei due è l'altro

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martedì 28 giugno 2016

Brexit: la rabbia dei popoli.


Carlo Formenti


Brexit: succede purtroppo grazie a un movimento egemonizzato dalle destre. Quando ci sbarazzeremo del ciarpame ideologico e ci metteremo a lavorare per un’alternativa populista di sinistra?

Il senso più profondo della vittoria della Brexit riguarda il fatto che il terrorismo politico mediatico non riesce più a condizionare la rabbia popolare contro quell’istituzione profondamente antidemocratica che è la UE: una struttura burocratica non eletta, strumento di dominio del capitale globale e delle élite ordoliberiste.

Era già successo con il referendum greco, ma Tsipras non ha avuto le palle di rispettare la volontà del proprio popolo di riconquistare la sovranità sul proprio destino. Oggi succede in Uk, purtroppo grazie a un movimento egemonizzato dalle destre, a causa dell’ottusità di una sinistra (inglese ed europea, riformista e radicale, con pochissime eccezioni) che si ostina a vedere nell’Europa una garanzia di pace!? (e la guerra in Ucraina? e l’accordo con la Turchia fascista per deportare i migranti? e i muri eretti dai membri fascistoidi della Ue? e il TTIP? e le feroci politiche antioperaie e antisindacali? e lo smantellamento del welfare?).

Bisogna essere idioti per vedere in tutto ciò degli “errori di rotta” correggibili dall’interno con adeguate riforme. E bisogna essere irresponsabili per consegnare alle destre il monopolio della rivolta contro la tecnocrazia europea. Agitare lo spettro della catastrofe novecentesca che portò alla vittoria del nazifascismo non è un argomento: è un ulteriore sintomo di imbecillità e di difetto di analisi storica: allora fu proprio l’incapacità delle sinistre di egemonizzare la rabbia popolare per gli effetti della grande crisi a spianare la strada alle destre, e pensare che oggi possa tornare il fascismo nelle sue forme classiche è un altro sintomo dell’incapacità di cogliere l’essenza del nostro tempo: il vero rischio non è il ritorno del fascismo ma che un eventuale trionfo delle destre populiste non servirebbe in alcun modo a contrastare il dominio del finanzcapitalismo (abbiamo dimenticato che il vero nemico è questo?). Questo dovrebbe essere compito nostro, se e quando ci sbarazzeremo del ciarpame ideologico di una sinistra mummificata e ci metteremo a lavorare per un’alterativa populista di sinistra.


domenica 26 giugno 2016

Alexander Grothendieck. Il Ribelle.

Sono quasi mortalmente travolto dalle indecenti  reazioni, anche "preventive", delle oligarchie e soprattutto sottostanti leccaculisti,  spesso "antifascisti",  alla "democratica" scelta del popolo britannico di uscire all'aria aperta. A titolo di esempio metodologico: "abbiamo perso, quindi la partita si deve rifare finché non vinciamo noi... anche perché chi ha vinto è stupido, vecchio, brutto e ignorante". Mi ripaga parzialmente dalla nausea la vista della faccia di alcuni stimatissimi e strapagati intelletuali, soprattutto di sinistra, la cui espressione totalmente smarrita, fa vagamente sperare in una possibile uscita dalla UE, dall'euro e addirittura dal  water neoliberista. Quindi il racconto della vita di un uomo...


popinga



Alla fine degli anni Sessanta “scoppiava finalmente la rivolta”, oppure Alexander Grothendieck, in qualche modo, si era rotto. Si può essere un matematico geniale e avere la ribellione nel proprio destino, che si manifestò nei modi che vedremo, frutto anche dello spirito dei tempi. Non a caso, Grothendieck aveva una grande stima di Évariste Galois, che chiamava il suo frère de tempérament: furono infatti entrambi attivisti radicali, sia nella vita sia nella loro disciplina, che portarono a nuovi livelli di astrazione con un interesse particolare per le relazioni tra gli oggetti matematici. E ambedue finirono in anticipo la loro carriera: Galois tragicamente a causa di uno stolido duello, Grothendieck per un volontario isolamento dal mondo, non solo quello accademico, durato quasi un quarto di secolo, fino alla morte avvenuta a 86 anni nel novembre 2014.

La ribellione di Grothendieck era, possiamo quasi dire, ereditaria. Suo padre, Alexander Schapiro era un ebreo di famiglia ortodossa, che a quindici anni faceva già parte di un gruppo anarchico che partecipò al tentativo rivoluzionario del 1905 di abbattere il regime zarista. Catturato, condannato all’ergastolo, dieci anni più tardi riuscì a evadere, raggiunse l’Ucraina e si associò a un’altra banda armata anarchica. Arrestato di nuovo e condannato a morte, riuscì di nuovo a fuggire, lasciando ai carcerieri solo il suo braccio sinistro.



Partecipò alla rivoluzione del febbraio 1917, ma, quando i bolscevichi presero il potere nel novembre dello stesso anno, l’anarchico Alexander si trasferì a Berlino, dove si manteneva come fotografo di strada. Intorno al 1924 conobbe Hanka (Johanna) Grothendieck, anche lei attivista rivoluzionaria, che viveva dei pochi articoli che riusciva a pubblicare sui giornali. I due si innamorarono e, nel 1928, nacque Alexander Jr., detto Schurik, che visse i suoi primi cinque anni a Berlino con i genitori e una sorellastra.

Nel 1933, quando i nazisti presero il potere, Alexander Schapiro si trasferì a Parigi, dove fu presto raggiunto dalla moglie. Schurik fu affidato a una famiglia fidata di Amburgo. Intanto in Germania la situazione per gli ebrei era ormai diventata insostenibile e, anche se l’origine di Alexander era tenuta nascosta (fu in  quel periodo che assunse il più sicuro cognome tedesco della madre), i suoi genitori adottivi nel 1939, per maggiore sicurezza, lo misero su un treno per la Francia, dove poté riunirsi di nuovo con i genitori naturali, che intanto avevano partecipato alla Guerra di Spagna con gli anarchici ed erano tornati dopo la vittoria dei franchisti.

La Francia non si rivelò un rifugio sicuro: nel 1940 fu invasa dalle truppe tedesche, che insediarono nella parte meridionale del paese il governo collaborazionista del maresciallo Pétain, fortemente antisemita. I genitori di Alexander furono arrestati e il padre fu deportato ad Auschwitz, dove sarebbe morto nel 1942.

Il quattordicenne Alexander fu portato con la madre nel campo di detenzione di Le Chambon-sur-Lignon, una cittadina nel Massiccio Centrale, centro attivo di resistenza all’occupazione nazista. Lì poté comunque frequentare la scuola secondaria, protetto dalla popolazione che, durante le retate della Gestapo, nascondeva i ragazzi ebrei a piccoli gruppi nella foresta. Gli abitanti di Chambon furono poi dichiarati tra i “Giusti nelle Nazioni” per aver salvato la vita di 5.000 ebrei. Nel 1945, con la fine del nazismo, arrivò anche il baccalaureato.



Grothendieck e la madre si trasferirono a Montpellier, dove Alexander poté iscriversi alla facoltà di matematica. Si capì subito che non era uno studente come gli altri: quello che imparava durante le lezioni non gli bastava, e la sua formazione fu in gran parte da autodidatta.

Nel 1948 vinse una borsa di studio per andare a Parigi, dove entrò in contatto con la ricerca matematica. Frequentò il famoso Seminaire Cartan. Non aveva paura di discutere con famosi ricercatori, era ambizioso e appassionato. Più tardi avrebbe scritto: “ero un matematico, uno che fa matematica, nel vero senso della parola, come si fa l’amore”. Riscoprì da solo l’integrale di Lebesgue, seguendo le proprie intuizioni piuttosto che studiare la letteratura esistente.

Poiché Alexander voleva esplorare gli spazi topologici vettoriali, Elie Cartan, l’ormai vecchio padre della matematica francese, che ne aveva capito le potenzialità, lo consigliò di trasferirsi all’Università di Nancy, dove lavoravano due esperti del calibro di Jean Dieudonné e Laurent Schwartz, recente medaglia Fields nel 1950. Questi mostrò a Grothendieck il suo ultimo articolo, che si concludeva con una lista di quattordici questioni aperte, importanti per gli spazi localmente convessi. Il nuovo arrivato risolse tutti i quattordici problemi nel giro di meno di un anno: era nata una nuova stella nel cielo della matematica, all’età di 22 anni.

Nonostante il successo, per Grothendieck era difficile trovare un lavoro in Francia, a causa del suo stato di apolide (l’archivio di Berlino, sua città di nascita, era stato distrutto nel 1945 e lui aveva solo  un passaporto delle Nazioni Unite). I suoi supervisori si preoccuparono della situazione infelice di questo giovane genio, e gli trovarono un posto come visitatore all’università brasiliana di São Paulo, dove Alexander si trasferì tra il 1952 e il 1954. In quel periodo finì la sua tesi di dottorato su Prodotti tensoriali e spazi nucleari (termine quest’ultimo introdotto da lui).



Secondo Dieudonné, in quel periodo Grothendieck aveva già pronto del materiale sufficiente per scrivere sei tesi, alcune delle quali in analisi funzionale. Per avere un’idea di questo dato, basti pensare che una buona tesi in dottorato in matematica richiede almeno due anni di duro impegno.  Pubblicò articoli in francese su riviste brasiliane, nei quali introdusse le “costanti di Grothendieck”, tenne lezioni sugli spazi vettoriali topologici e cominciò a interessarsi di geometria algebrica, l’analisi sistematica delle proprietà geometriche delle soluzioni delle equazioni polinomiali. Lavorava senza posa, fermandosi solo per dormire e mangiare, conducendo una vita spartana, interessato solo ai problemi che stava cercando di risolvere.

Tornato in Francia, dopo la morte della madre nel 1957, Grothendieck si associò con Dieudonné e Jean-Pierre Serre nell’Institut des Hautes Études Scientifiques (IHES), appena fondato presso Parigi, che diventò un centro di riferimento per la matematica e la fisica teorica. Grothendieck guidò un brillante gruppo di giovani matematici tra il 1958 e il 1970, l’epoca d’oro della sua carriera. Per qualche tempo fu anche membro del gruppo di Bourbaki.

Il suo ex collega Pierre Cartier ricorda che conduceva “uno dei seminari di matematica più prestigiosi che il mondo avesse visto”. Esso attraeva i migliori matematici dalla Francia e da tutto il mondo. Le sessioni potevano durare dalle 10 alle 12 ore, portando a improvvise note che Grothendieck scriveva e dava a Dieudonné per essere messe in buona forma. Grothendieck era un insegnante di talento, che spiegava pazientemente anche i passaggi “banali” pur di essere compreso. Uno dei frutti di tale attività fu il progetto Elementi di Geometria Algebrica (EGA), iniziato  nel 1960, ambizioso, monumentale, rivoluzionario e mai concluso.



Aveva anticipato il suo programma di ricerca per quegli anni in un discorso al Congresso Internazionale dei Matematici di Edimburgo, nel 1958. Il suo stile era di cercare una sempre crescente generalità e astrazione, introducendo nuovi termini e concetti, e lavorando sulle loro proprietà. Ciò portò a migliaia di pagine sulla fusione di geometria algebrica, aritmetica e topologia. Nell’autobiografia del 1988 troviamo il suo mondo matematico espresso con parole semplici e chiare:

“Si può dire che “il numero” è adatto a cogliere la struttura degli aggregati “discontinui” o “discreti”: i sistemi, spesso finiti, formati da “elementi” o “oggetti” per così dire isolati gli uni rispetto agli altri, senza qualche principio di “passaggio continuo” dall’uno all’altro. “La grandezza”, al contrario, è la qualità per eccellenza, suscettibile di “variazione continua”; perciò essa è adatta a cogliere le strutture e i fenomeni continui: i movimenti, gli spazi, “varietà” di tutti i generi, campi di forza, ecc. In tal modo, l’aritmetica pare (a grandi linee) come la scienza delle strutture discrete, e l’analisi come la scienza delle strutture continue.
Quanto alla geometria, si può dire che, dopo oltre duemila anni di esistenza sotto forma di scienza nel senso moderno della parola, essa è “a cavallo” di questi due tipi di strutture, le “discrete” e le “continue”. Per lungo tempo, d’altra parte, non vi era veramente un “divorzio” tra due geometrie che sarebbero state di specie differenti, l’una discreta e l’altra continua. Piuttosto, vi erano due punti di vista diversi nell’investigazione delle stesse figure geometriche: il primo che poneva l’accento sulle proprietà “discrete” (in particolare le proprietà numeriche e combinatorie), l’altro sulle proprietà continue (quali la posizione nello spazio circostante o la “grandezza” misurata come distanze reciproche dei punti, ecc.). È alla fine del secolo scorso che è comparso un divorzio, con la comparsa e lo sviluppo di ciò che è stata chiamata “geometria (algebrica) astratta”. Grosso modo, si è trattato di introdurre, per ciascun numero primo p, una geometria (algebrica) “di caratteristica p”, calcolata sul modello (continuo) della geometria (algebrica) ereditata dai secoli precedenti, ma in un contesto che eppure appariva come irriducibilmente “discontinuo”, “discreto”. 


Questi nuovi oggetti geometrici hanno guadagnato una importanza crescente dopo l’inizio del secolo, e ciò, particolarmente, grazie alle loro strette relazioni con l’aritmetica, la scienza per eccellenza della struttura discreta. Sembrerebbe che una delle idee direttrici nell’opera di André Weil, può darsi persino la principale (rimasta più o meno tacita nella sua opera scritta, come si deve), sia che “la” geometria (algebrica) e in particolare le geometrie “discrete” associate ai diversi numeri primi, dovessero fornire la chiave per un rinnovamento di vasta portata dell’aritmetica. In questo spirito egli ha proposto nel 1949 le celebri “congetture di Weil”. Congetture assolutamente sbalorditive, a dire il vero, che facevano intravedere, per queste nuove “varietà” (o “spazi”) di natura discreta, la possibilità di certi tipi di costruzioni e di argomenti che fino a quel momento non sembravano pensabili se non nel quadro dei soli “spazi” considerati degni di questo nome dagli analisti – cioè gli spazi detti “topologici”, in cui vale il concetto di variazione continua. Si può pensare che la nuova geometria è, prima di tutto, una sintesi tra questi due mondi, fino ad allora attigui e strettamente solidali, ma tuttavia separati: il mondo “aritmetico”, nel quale vivono i (sedicenti) “spazi” senza principio di continuità, e il mondo della grandezza continua, dove vivono gli “spazi” nel vero senso del termine, accessibili ai metodi dell’analista e (per questo stesso motivo) da lui accettati come degni di risiedere nella città matematica. Nella nuova visione, questi due mondi un tempo separati non ne formano più di uno solo”.

(Récoltes et Semailles, §2.10. La géométrie nouvelle — ou les épousailles du nombre et de la grandeur).

L’idea nuova era che a una geometria fatta di spazi, che sono insiemi di punti, si doveva sostituire una nuova geometria i cui oggetti sono le relazioni, le funzioni, i morfismi. E bisognava creare nuovi oggetti, rivelare nuove strutture e esplorare nuovi territori per realizzare  questa sintesi auspicata: gli schemi, i topos, la teoria dei motivi.

Sembrava che questa fantastica stagione non dovesse mai concludersi, quando, nel 1970, a 42 anni, Grothendieck si dimise dall’IHES, e entrò in una fase completamente diversa della propria vita. Ben presto il suo gruppo di ricerca si sciolse.



Fino ad allora la vita di Grothendieck si era concentrata quasi esclusivamente sulla matematica, anche se in qualche episodio aveva manifestato il suo acceso pacifismo e lo spirito anarchico ereditato dai genitori. Quando fu invitato dall'università americana di Harvard, nel 1958, si lamentò della procedura d’ingresso negli USA che richiede la dichiarazione di non voler intraprendere azioni sovversive. Come altri grandi matematici francesi, si schierò contro la guerra coloniale in Algeria e, nel 1966, non andò a ritirare personalmente la Medaglia Fields al congresso matematico di Mosca, in segno di protesta contro l’arresto di due scrittori dissidenti.

La guerra del Vietnam costituì una delle svolte principali della sua esistenza. Nel 1967 fu invitato a tenere lezioni di algebra e geometria algebrica ad Hanoi, che era allora periodicamente bombardata dall’aviazione americana. Incuriosito da una richiesta così insolita, desideroso di conoscere lo stato della ricerca matematica vietnamita e, ovviamente, in segno di protesta contro la politica americana, Grothendieck accettò. Si pagò il viaggio ed ebbe cura di portare quanto più materiale poteva. Dopo qualche giorno di lezioni relativamente tranquille, in cui scoprì il buon livello dei matematici vietnamiti (uno era il vice-ministro dell’istruzione), si intensificarono i raid aerei, e docente e allievi furono costretti a continuare le lezioni nella foresta. Tornato in Francia, fece conferenze sulla sua avventura e scrisse un resoconto dettagliato della visita, in cui comunicava al mondo occidentale la preparazione dei matematici incontrati e la sua simpatia per una nazione in lotta contro l’imperialismo, prima francese e poi americano, da quasi vent’anni.

Nel maggio del 1968, pur senza partecipare direttamente alla lotta studentesca, prese posizione in favore dei manifestanti. La sua ribellione si concretizzò invece all'interno dell’istituzione che aveva fino ad allora contribuito a far crescere. Era venuto a conoscenza che l’IHES riceveva finanziamenti dall’esercito francese, allora aveva contribuito a una protesta dei docenti che nel 1969 aveva fatto interrompere questa pratica. Nel 1970, tuttavia, i finanziamenti militari erano ripresi: ciò apparve intollerabile per le sue idee pacifiste. Cercò di convincere i colleghi alle dimissioni di massa per protesta, ma fu lasciato solo. Forse si era stancato anche di quel “lungo periodo di frenesia matematica”, fatto sta che decise di cambiare vita.




Si separò dalla moglie e aprì una comune, prima a Parigi, poi nel sud della Francia. In quegli ambienti viveva con gente di tutti i tipi, con i quali teneva lunghe assemblee e discussioni politiche. Nel frattempo insegnava con contratti temporanei, prima all'università Paris-Sud a Orsay, poi come visiting professor al Collège de France. Nei suoi corsi affiancava alla matematica interventi sulle istanze sociali e la minaccia delle armi nucleari. Ciò attirò molti studenti e molti curiosi, finché la direzione del Collège decise di non rinnovargli il contratto, benché egli fosse uno dei più famosi matematici al mondo.

Il suo impegno pacifista e ambientalista si fece sempre più intenso. Quando fu invitato a tenere lezioni di matematica all’Università canadese di Montreal, accettò a patto di poter parlare anche delle minacce nucleari per l’umanità. Tenne lezioni anche negli USA, dove
 si schierò per i diritti dei nativi americani.

Alcuni giovani matematici furono attratti dalle sue idee e divennero attivisti. Assieme a due giovani matematici francesi, Claude Chevalley e Pierre Samuel, Grothendieck fondò, proprio a Montreal, un gruppo chiamato Movimento Internazionale per la Sopravvivenza della Razza Umana, il cui organo era la rivista auto-prodotta Vivre, più tardi diventata Survivre et Vivre, che pubblicava appelli per la pace, articoli sulle responsabilità della scienza e sull'irresponsabile scientismo (“la nuova religione”) di fronte alle minacce del militarismo, dell’industrializzazione senza controlli, dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’uomo sull’uomo. Non mancava una critica aperta al consumismo delle società occidentali. La rivista, che fu attiva tra il 1970 e il 1975, e che ebbe tra i direttori anche Denis Guedj, anticipò molti dei temi che furono poi, e che sono tuttora, patrimonio del pensiero libertario moderno. 



Riguardo all'ambientalismo, Survivre et Vivre aveva una posizione fortemente critica contro i pericoli dell’”ecofascismo”, cioè di un’ideologia attenta all'ambiente, ma indifferente alle ingiustizie sociali. “Ciclostilata in proprio”, come si sarebbe detto allora, distribuita artigianalmente, Survivre et Vivre ebbe una tiratura iniziale di mille copie e giunse a un massimo di quindicimila quando le copertine iniziarono a essere disegnate da Didier Savard

Alla Scuola Estiva di Anversa del 1972, il suo ex collega dell’IHES Jean-Pierre Serre, che teneva il discorso d’apertura, fu interrotto platealmente da Grothendieck, che arringò i presenti contro la NATO che aveva sponsorizzato l’evento. Crebbe la sua fama di rompiscatole, e anche il risentimento di molti colleghi. Tuttavia, nella lunga conferenza seguita da dibattito che tenne al CERN nello stesso anno, fu calmo e dialogante, spiegando i motivi del suo esilio volontario dalla comunità scientifica, in cui la competizione e la pressione a pubblicare sono immorali e costituiscono un ostacolo alla creatività, e dove i ricercatori hanno perso la coscienza dei motivi del loro fare. Poi sottolineò come per lui la battaglia pacifista contro la minaccia nucleare fosse diventata più importante della ricerca matematica.

Nel 1973 tornò all’Università di Montpellier, tenendo lezioni su vari argomenti matematici. Si comportava amichevolmente con gli studenti, distribuiva mele organiche e si meritò il soprannome di Alexandre le Grand. Forse giovò alla sua popolarità la provocatoria proposta di tirare a sorte i voti degli esami, oppure di dare a tutti il massimo. Non tenne più i suoi famosi seminari, ma seguiva molti studenti di dottorato (si infuriò quando la Springer si rifiutò di pubblicare una tesi). Continuava anche la ricerca, ma il CNRS assicurava solo un supporto minimo.



Tra il 1973 e il 1979 visse nel piccolo villaggio di Olmet-et-Villecun, a 50 chilometri da Montpellier, in una casa semplice senza luce elettrica (usava lampade a cherosene), dove dava ospitalità ai senzatetto. La sua dimora era aperta a tutti, e diventò un riferimento per persone di ogni tipo, compresi hippies e giovani  “alternativi”. Nel 1977 la polizia fece irruzione nell’edificio, in cerca di tutto ciò che potesse essere illegale. Trovarono solo uno studente giapponese al quale era scaduto il permesso di soggiorno. Si trattava di una persona pacifica, all’epoca monaco buddista, ma la sua presenza fu ritenuta sufficiente dalle autorità per denunciare Grothendieck di aver ospitato un irregolare. Sei mesi più tardi, con il giapponese già tornato in patria, fu processato e, nonostante un appassionato discorso e il pubblico sostegno di molti colleghi, fu condannato a una piccola multa con pena sospesa per sei mesi. È evidente che si era voluto dargli una lezione. In quell’anno gli fu attribuita la medaglia Picard dell’Accademia francese delle scienze, che finirà utilizzata come schiaccianoci nell’eremo in cui visse i suoi ultimi anni.

Continuò a scrivere ponderosi testi di più di mille pagine, come La lunga marcia attraverso la teoria di Galois e Alla ricerca dei Campi. Coordinò poi la stesura di Abbozzo di un Programma, con idee sul futuro della matematica, scritto in realtà dai giovani matematici suoi seguaci Leila Schneps e Pierre Lochak.




Tra il 1983 e il 1988 Grothendieck scrisse una bella autobiografia intitolata Récoltes et Semailles (Raccolte e semine), nella quale presentava la sua vita e il suo lavoro e forniva elementi eterogenei, come poesie in tedesco e giudizi, talvolta critici, sulla comunità matematica 
e gli ex colleghi.

Nel 1988 gli si doveva assegnare il prestigioso Premio Crafoord della Accademia Reale Svedese delle Scienze, assieme al suo ex studente Deligne. Grothendieck tuttavia lo rifiutò, inviando a Le Monde una cortese lettera in cui spiegava le sue ragioni**

In quell'anno andò in pensione e si dimise dall'Università di Montpellier e, nel 1991, anche dalla società: interruppe i contatti con quasi tutti, compresa la sua famiglia, composta da alcuni figli avuti da diverse relazioni. Si ritirò a vivere una vita semplice in un borgo sui Pirenei francesi, di cui volle tenere segreta l’ubicazione. Scrisse ancora un testo matematico, I derivatori, di circa 2000 pagine, che consegnò a un amico. D’altro canto, una volta diede alle fiamme una gran quantità di note, lettere e altri documenti: si stima circa 25.000 pagine. Il suo interesse principale diventò lo spiritualismo e la meditazione, entrando nella fase finale della sua vita, quella di eremita, dapprima influenzato dal buddismo, poi ispirato da una personale e mistica versione del cristianesimo. Lunghi digiuni minarono la sua salute.




Solo poche persone fidate sapevano dove viveva e dovevano giurare di non rivelare questa informazione. Non aveva un indirizzo postale né il telefono, né tantomeno internet. Alla fine il mondo seppe che Alexander Grothendieck era morto il 13 novembre 2014 nel piccolo ospedale di Saint-Girons, ai confini con la Spagna.



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**Lettera pubblicata su Le Monde del 4 Maggio 1988 in occasione del rifiuto del premio Crafoord



Montpellier, 19 aprile 1988

   Caro Professor Ganelius, la ringrazio per la sua lettera del 13 aprile, che ho ricevuto oggi, e per il telegramma. Il premio Crafoord insignitomi insieme a Pierre Deligne (che fu mio studente) quest’anno dall’Accademia reale svedese, accompagnato da un’ingente somma di denaro, mi ha molto onorato. Tuttavia, mi rincresce informarla che non desidero accettare questo premio, come nessun altro, per le seguenti ragioni:

   1) Lo stipendio di professore e la pensione, che inizierà dal prossimo ottobre, sono più che adeguati ai miei bisogni materialie a quelli dei miei dipendenti; per cui non mi occorre denaro. Quanto alle onorificenze conferite ad alcuni dei miei lavori sui fondamenti, sono convinto che solo il tempo darà prova della fertilità di nuove idee o visioni. La fertilità si misura con il risultato e non con un riconoscimento.
   
2) Noto, inoltre, che tutti i ricercatori di alto livello, ai quali un prestigioso premio come quello Crafoord è indirizzato, hanno una posizione sociale che d`a loro più ricchezza materiale e più prestigio scientifico di quanto sia necessario, con il potere e i privilegi che ne conseguono. Eppure, non `e chiaro che la sovrabbondanza di alcuni è possibile solo al costo delle necessità altrui?

   3) Il lavoro che mi ha portato alla cortese attenzione della Accademia lo terminai venticinque anni fa, quando facevo parte della comunità scientifica ed essenzialmente ne condividevo lo spirito e i valori. Sono uscito da quell’ambiente nel 1970 e, sebbene la ricerca scientifica abbia continuato ad appassionarmi, interiormente mi sono ritirato sempre più dal “milieu” scientifico. Nel frattempo, l’etica della comunità scientifica (perlomeno dei matematici) è decaduta al punto che il furto dichiarato tra colleghi (specialmente alle spese di coloro i quali non sono in condizione di difendersi) `e quasi diventato la norma ed è, a ogni modo, tollerato da tutti, persino nei casi più evidenti e iniqui. A queste condizioni, accettare di partecipare al gioco dei premi e delle onorificenze significherebbe anche dare la mia approvazione a uno spirito e a una tendenza nel mondo scientifico che io considero come essere fondamentalmente malsana e per di più condannata a scomparire presto, essendo tale spirito e tendenza cos`ı rovinosi, spiritualmente, intellettualmente e materialmente.

   La terza ragione è per me di gran lunga la più importante, anche se non va intesa, in nessun modo, come una critica all’Accademia reale e al come intende amministrare i suoi fondi. Non ho dubbi sul fatto che prima della fine del secolo degli eventi totalmente imprevisti cambieranno completamente il nostro concetto di “scienza” e dei suoi obiettivi e lo spirito con cui il lavoro scientifico `e svolto. Certamente, a quel tempo l’Accademia reale sarà fra le istituzioni e le persone che giocheranno un ruolo importante in questo rinnovamento senza precedenti, dopo un equivalente collasso della civiltà senza precedenti. Mi dispiace dell’inconveniente che può aver causato a lei e all’Accademia reale il mio rifiuto di ricevere il premio Crafoord, soprattutto per il fatto che il premio era già stato pubblicizzato prima che i candidati avessero accettato. Tuttavia, non ho mai rinunciato ad esprimere la mia opinione sulla comunità scientifica e sulla “scienza ufficiale” di oggi nota alla stessa comunità e specialmente ai miei vecchi amici e ai miei giovani studenti del mondo matematico. Ciò che penso si trova in Récoltes et Semailles, una lunga riflessione sulla mia vita di matematico, sulla creatività in generale e sulla creatività scientifica in particolare; questo saggio è diventato inaspettatamente un ritratto dei principi morali del mondo matematico dal 1950 fino a oggi. In attesa che venga pubblicato sotto forma di libro, un’edizione provvisoria di duecento copie è stata spedita ai colleghi matematici, principalmente ai geometri algebrici (che adesso mi fanno onore commemorandomi). In un plico a parte, le invio le due parti introduttive per sua informazione personale. Di nuovo ringrazio lei e l’Accademia reale svedese e porgo le mie scuse per l’inconveniente non voluto. La prego di accettare i miei più sentiti omaggi.


                                                                                                                                                                                       A.  Grothendieck


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Philippe Douroux - «Alexandre Grothendieck» - Images des Mathématiques, CNRS, 2012
Nicola Ciccoli - La lunga marcia in salita di Alexander Grothendieck - MaddMaths, SIMAI, 2014

Wolfgang Bietenholz, & Tatiana Peixoto (2016). To the Memory of Alexander Grothendieck: a Great and Mysterious Genius of Mathematics Ciencia e Sociedade (CS) CBPF, Brazil, v.3, n.1 (2015) 1-9 arXiv: 1605.08112v1


venerdì 17 giugno 2016

Maledetto Frammento! (Falce e Robot)

Contro una lettura gradualista (“riformista”) e adialettica (infantile) del pensiero marxiano

I teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo e del Postcapitalismo hanno frainteso nel modo più clamoroso e infantile possibile la naturale tendenza del Capitale a creare sempre di nuovo occasioni di profitto senza alcun riguardo circa la natura (produttiva o improduttiva) dell’investimento, la quale per il singolo investitore non ha alcun significato, perché, com’è arcinoto (al netto dei soliti miserabili moralismi francescani e sinistrorsi), il profitto non ha né colore né odore. Lo sviluppo capitalistico per un verso ha irrobustito la caduta tendenziale del saggio di profitto industriale, spingendo con ciò stesso una massa sempre più cospicua di capitali a cercar fortuna fuori della sfera della produzione immediata del plusvalore, fondamento reale e concettuale di ogni tipologia di profitto e di rendita; e per altro verso ha generato una tecnoscienza in grado

1. di incrementare il grado di sfruttamento della capacità lavorativa impiegata in ogni sfera di attività (industria, commercio, finanza, servizi) e
2. di rendere l’intera esistenza umana una sola, gigantesca, vivente (e per questo sempre mutevole e plasmabile) occasione per drenare profitti. Un’esistenza interamente mercificata e, per mutuare abbastanza indegnamente il feticista di Treviri, ad alta composizione organica di capitale.

La tecnoscienza capitalistica non deve far altro che inventare nuovi procedimenti, nuovi servizi, nuovi oggetti, nuovi bisogni, nuovi sogni, nuove “utopie” in grado di intercettare e catturare il denaro che sta nella tasca dei clienti. Io ti vendo un’emozione, un sogno, un senso, un’ideologia, un’informazione, una conoscenza, una relazione, e tu mi paghi in denaro o in qualcos’altro che poi io saprò come monetizzare: ad esempio vendendo il tuo profilo di consumatore. Qui davvero il genio umano è messo nelle condizioni di dare il meglio di sé. «La verità è», scriveva Marx nel remoto 1865, «che in questa società borghese ogni lavoratore, purché sia un tizio intelligente ed astuto, e dotato di istinti borghesi, e favorito da una fortuna eccezionale, ha la possibilità di trasformarsi in sfruttatore del lavoro altrui» (1). La tecnologia digitale rende più facile, almeno potenzialmente (o virtualmente), la dinamica a suo tempo prospettata da Marx.



Leggo proprio oggi: 

«A dieci anni scova una falla nella sicurezza di Instagram e viene premiato con 10mila dollari dal social network. È la storia di un ragazzino finlandese, che si chiama Jani e vive a Helsinki, non si hanno altre informazioni sulla sua identità per motivi di privacy, e che in teoria non avrebbe neanche l’età per iscriversi a Instagram. Jani, sfruttando un malfunzionamento della popolare applicazione di immagini, aveva trovato il modo per cancellare i commenti pubblicati da qualsiasi utente. “Avrei potuto cancellare i commenti di chiunque, anche di Justin Bieber”, ha detto Jani alla pubblicazione finlandese Iltalehti» (Ansa.it)

Invece gli «istinti borghesi» hanno prevalso e l’«intelligente ed astuto» Jani ha portato a casa un malloppo niente male: complimenti!

Ma un conto è smungere denaro, far circolare la stessa ricchezza da una tasca all’altra, e tutta un’altra storia è generare la madre di tutti i profitti, ossia il famoso plusvalore “basico”. Se per i singoli capitalisti la ricerca del profitto appare come l’hegeliana notte in cui tutte le vacche appaiono nere (2), per la totalità sociale capitalistica le cose si presentano in ben’altro modo. In altri termini, il “Capitalismo cognitivo” non è riuscito a oltrepassare il limite storico immanente al concetto stesso di Capitale; di più: è esso stesso prodotto di quel limite, ossia dei vani tentativi messi in essere dal Capitale per superarli sempre di nuovo. Sto evocando anche la famosa legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto? Certamente! Del resto, anche Mason lo fa nel suo libro.

Niente, a mio avviso, tradisce l’autentico pensiero marxiano sulla natura sociale (nell’accezione più pregnante del concetto) del Capitalismo e sul suo superamento rivoluzionario reso possibile proprio da quel carattere, quanto la lettura “postcapitalistica” del celebre Frammento sulle macchine, il quale è parte organica dei manoscritti del 1857-58 dedicati da Marx allo «sviluppo del capitale fisso» (quaderni VI-VII), ossia all’incorporazione della scienza e, in generale, del «sapere sociale», nel capitale.

 «Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice […]; si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale» (3).



Attraverso la tecnoscienza, il capitale ha trovato il modo di impossessarsi delle qualità umane di cui il lavoratore poteva ancora vantare nel periodo di transizione dalla «sussunzione formale» a quella «reale» – oggi sarebbe forse più corretto parlare di sussunzione totalitaria, e non solo in riferimento ai lavoratori.

Anche Mason ha voluto dare il suo contributo alla pessima lettura “postcapitalistica” del Frammento, come si evince facilmente dai passi che seguono: 

«Sono andato a rivedere tutti i tentativi degli economisti e dei guru aziendali di costruire una cornice di riferimento per capire le dinamiche di un’economia basata su informazioni abbondanti e socialmente condivise. In realtà l’aveva già immaginata un economista dell’ottocento all’epoca del telegrafo e del motore a vapore. Il suo nome era Karl Marx. La scena si svolge a Londra, a Kentish Town. È un mattino di febbraio del 1858, verso le quattro. Marx è ricercato in Germania e sta lavorando duramente su una serie di esperimenti mentali e appunti personali. Quando finalmente leggeranno quello che sta scrivendo stanotte, gli intellettuali di sinistra degli anni sessanta del novecento saranno costretti a riconoscere che “mette in discussione tutte le più serie interpretazioni di Marx finora concepite”. Stiamo parlando del “Frammento sulle macchine”. In questo testo Marx immagina un’economia in cui il ruolo principale delle macchine è produrre, e il ruolo principale dell’uomo è tenerle sotto controllo. La principale forza produttiva è l’informazione. La capacità produttiva di macchine come il telaio automatizzato e la locomotiva a vapore non dipende dalla quantità di lavoro necessaria per produrle, ma dallo stato della conoscenza sociale. In altre parole, organizzazione e conoscenza danno un contributo maggiore alla capacità produttiva rispetto al lavoro necessario per costruire e far funzionare le macchine. Considerato quello che sarebbe diventato il marxismo – una teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro – si tratta di un’affermazione rivoluzionaria. Implica che quando la conoscenza diventa una forza produttiva in sé e diventa più importante del lavoro materiale impiegato per costruire una macchina, la questione centrale non è più “salari contro profitti”, ma chi controlla quello che Marx chiama il “potere della conoscenza”» (4).



Cioè il Capitale. Secondo Mason il Marx “rivoluzionario” del Frammento avrebbe abbandonato, forse per compiacere i futuri oltristi tipo Toni Negri (non a caso considerato da Mason come un insostituibile punto di riferimento per orientarsi nella complessità dell’«Infocapitalismo»), la sua “vecchia” legge del valore, tesi che appare risibile non solo alla luce dello stesso Frammento, ma in relazione a quanto il comunista tedesco premette alla riflessione sul general intellect. Posto il Capitalismo, anche quello ultra sviluppato immaginato da Marx (e fantasticato dai postcapitalisti), la sola produttività che conta non è quella puramente materiale (il numero di merci prodotte in un tempo definito), ma quella, per così dire, valoriale, perché quella capitalistica è in primo luogo produzione di valore – con incorporato plusvalore, ovviamente. Per questo la conoscenza non potrà mai diventare, in regime capitalistico, più importante «del lavoro materiale impiegato per costruire una macchina». Ma finiamo la citazione: 

«In un’economia dove le macchine svolgono gran parte del lavoro, la natura della conoscenza insita nelle macchine dev’essere “sociale”, scrive Marx. In un ultimo esperimento mentale a notte fonda Marx immagina il punto finale di questa parabola: la creazione di una “macchina ideale” che dura per sempre e non costa niente. Una macchina che può essere costruita per niente, scrive Marx, non aggiunge alcun valore al processo di produzione e nel giro di pochi intervalli contabili riduce il prezzo, il profitto e il costo del lavoro di tutto quello che tocca. Una volta preso atto che l’informazione è materiale, che il software è una macchina e che i prezzi delle capacità di memoria, della larghezza di banda e dell’elaborazione dei dati stanno crollando in modo esponenziale, il valore del pensiero di Marx diventa chiaro. Siamo circondati da macchine che non costano niente e che, se volessimo, potrebbero durare per sempre. In queste riflessioni, rimaste inedite fino alla metà del novecento, Marx immagina un flusso di informazioni archiviate e condivise all’interno di un “intelletto generale”, una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti. In breve, Marx immagina qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo. E aggiunge che la sua venuta farà “saltare in aria il capitalismo”».



Naturalmente nel Frammento marxiano non si trova alcuna traccia di tutto questo, e fino a che punto Mason non abbia capito il fondamento teorico della critica marxiana dell’economia politica lo testimoniano i passi che seguono:

«Nel decennio successivo Marx abbandonò le idee delineate nel “Frammento sulle macchine” e costruì una teoria del capitalismo in cui i meccanismi di scambio non saltano in aria per effetto della comparsa di un intelletto generale» (5).

Un abbandono che esiste solo nella testa del Nostro. In odio al Capitalismo “fordista”, basato sullo sfruttamento intensivo dell’«operaio massa» (base sociale dell’ex PCI e della CGIL), i cognitivisti hanno sviluppato una sorta di messianica aspettativa, e comunque una esagerata e infondata apertura di credito nei confronti del Capitalismo “cognitivo”, fondato sullo sfruttamento “intelligente” dei lavoratori cognitivi – evoluzione dell’«operario sociale» eletto negli anni Settanta a «nuovo soggetto rivoluzionario» dai «cattivi maestri» (di marxismo). Anche Mason individua nei lavoratori – cosiddetti – cognitivi il «nuovo – l’ennesimo! – soggetto rivoluzionario» (6):
«Mettendo in rete milioni di persone, economicamente sfruttate ma con l’intera intelligenza umana a portata di dito, l’infocapitalismo ha creato un nuovo agente del cambiamento nella storia: l’essere umano istruito e connesso».
Mi permetto di avanzare qualche riserva, diciamo così, sulle potenzialità rivoluzionarie dell’«essere umano istruito e connesso». «La nuova classe rivoluzionaria è tra noi [e io non lo sapevo!]: sono i white wire people, i sempre connessi, quelli con gli auricolari. E i robot saranno i loro alleati». Come no! Falce e Robot! Comunque sia, vado subito a comprare l’ultimo modello di auricolari: non si sa mai quel che il capitalismo cognitivo ci può riservare… D’altra parte, come ci informa Annamaria Testa, esperta di comunicazioni,
«C’è un robot giapponese che scrive romanzi. O meglio: un robot coautore, insieme a un essere umano, di un romanzo che riesce a entrare nella selezione di un concorso letterario. […] Alla rapida e stupefacente umanizzazione delle prestazioni dei robot in termini di versatilità e complessità si affianca un’altrettanto stupefacente umanizzazione in termini di aspetto. Guardate, per esempio, le espressioni di un androide della Hanson Robotics, Sofia. E fatelo senza dimenticare che, poiché nella nostra percezione di interlocutori un’espressione facciale altrui esprime uno stato d’animo, per scegliere le espressioni “giuste” Sofia deve essere in grado, se non di provare l’emozione, almeno di scegliere di volta in volta le espressioni più appropriate. Cioè quelle che produrrebbe se provasse emozioni» (L’Internazionale, 4 aprile 2016).



L’ultima frontiera della tecnoscienza: insegnare alla macchina a imitare non solo l’intelligenza umana, ma anche l’affettività umana, e questo proprio quando (e a dimostrazione del fatto che) la potenza sociale che ci governa ci costringe a vivere in uno spazio umano sempre più angusto e residuale, in una “riserva umana” minacciata da tutte le parti. Ci sentiamo intelligenti e civilissimi pensando a come “umanizzare” le macchine (già si progetta il robot da compagnia per pensionati abbandonati dai figli), quando si tratterebbe di diventare noi stessi umani. È poi rivelatore della nostra condizione sociale (esistenziale) il discorso secondo cui occorre umanizzare i robot per poterli meglio sfruttare: questo anche a proposito del concetto di «capitale umano».

Scrive Carlo Formenti, illustrando il vizio d’origine dell’operaismo di Negri e compagni, 
«vale a dire la tendenza ad “assolutizzare” l’autonomia del lavoro nei confronti del capitale, del quale si tendeva a sottovalutare l’incredibile capacità di inventare sempre nuove modalità di subordinazione del lavoro medesimo»: «Esiste il rischio di ripetere un errore simile a quello della fine degli anni Settanta, quando si sottovalutò la potenza della controffensiva capitalista? Solo un abbaglio clamoroso potrebbe indurre a non vedere in che misura siano stati distrutti i rapporti di forza dei knowledge workers. Per rendersene conto, basta leggere un servizio pubblicato qualche mese fa dall’Economist, dedicato al diffondersi delle agenzie di collocamento on-line per lavoratori freelance. Queste imprese, che negli anni precedenti agivano soprattutto da intermediari fra datori di lavoro dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi in via di sviluppo, funzionano sempre più spesso da reclutatoti di freelance a elevata qualificazione all’interno dei paesi avanzati. […] In questo caso, parlare di “autonomia” vorrebbe dire allinearsi alle tesi dell’ultraliberista Economist, che ha la faccia tosta di sostenere che questo tipo di soluzione regala ai lavoratori “flessibilità”, consentendo loro di dedicare più tempo agli affetti domestici e agli hobby personali!». Non a caso la teoria economica dell’ultraliberista Friedrich Hayek da qualche anno trova nuovi e quasi inaspettati consensi. Ma concludiamo la citazione: «In conclusione: la fase storica che stiamo vivendo, al pari di tutte le fasi di crisi e ristrutturazione capitalistica, non è affatto caratterizzata da un accresciuta autonomia del lavoro, bensì da una potente controffensiva capitalistica che, per la prima volta, non si limita a ridimensionare i rapporti di forza del lavoro, ma tenta addirittura di farlo sparire, nella misura in cui riesce a far credere che una serie di  attività vitali si stiano “liberando” dal mercato proprio quando quest’ultimo si prepara a colonizzarle» (7).



Critiche analoghe si trovano nei miei scritti su Toni Negri e sul Capitalismo cognitivo, ai quali rinvio (8).
«Marx, secondo A. Fumagalli e C. Vercellone, nel famoso “Frammento sulle macchine”, descrive un contesto possibile nel quale trovi giustificazione un reddito di cittadinanza, dal momento che egli in questo scritto prevede uno sviluppo sociale tale che il livello generale delle conoscenze diventa una forza produttiva immediata sostituendo il lavoro immediato e determinando la decadenza del tempo di lavoro come misura della ricchezza. […] Alcuni dicono, come Guy Aznar, che i fautori del reddito universale sono sognatori riformisti che finiscono per civettare con i liberisti. Anche Gorz (soprattutto quello di una decina d’anni fa) e Alain Bihr (9) sottolineano il rischio che una politica sociale limitata alla garanzia di un minimo vitale, non aggredendo l’attuale struttura occupazionale in sé, finisca con il sancire il crescente dualismo del mercato del lavoro tra pochi garantiti e la massa crescente dei sublavoratori, ribadendo il paradosso per cui alcuni lavorano, mentre altri rimangono del tutto inattivi. Sotto tale profilo, solo la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sarebbe una risposta adeguata alla flessibilità indotta dal Capitale ripartendo su basi eque e condivise il risparmio che le nuove tecnologie consentono nell’impiego di manodopera» (10)

Lavorare meno per lavorare tutti, secondo il vecchio e sempre più sbiadito slogan caro alla “sinistra” politica e sindacale? La stessa “sinistra”, detto en passant, che santifica il lavoro salariato posto a fondamento della Repubblica – capitalistica – «nata dalla Resistenza». Per mutuare Marx, si può essere nemici del regime democratico («costituzionale») senza essere per questo amici del fascismo («dell’assolutismo»).

Per come la vedo io, prescindendo dalla prospettiva della lotta dei lavoratori (comunque “declinati”: fordisti, postfordisti, manuali, cognitivi, a tempo determinato, precari, ecc.), dei disoccupati e dei nullatenenti in genere per strappare, qui e ora, migliori condizioni di lavoro e di esistenza fuori e contro la logica delle compatibilità economiche (sia nella sfera “privata” sia nella sfera “pubblica”); e al di là di un’autentica concezione anticapitalistica in grado di affermare nella società la possibilità/necessità della Comunità che non conosce né capitale, né Stato, né classi sociali; se si prescinde da questa prospettiva tutte le rivendicazioni di carattere economicosociali finiscono puntualmente e necessariamente per aderire alle mutevoli esigenze del dominio capitalistico. Personalmente approccio il tema delle rivendicazioni economico-sociali da questa prospettiva, la sola che, sempre a mio sindacabile avviso, aiuta a non fare di qualsivoglia rivendicazione un feticcio “rivoluzionario”.

La giustificazione teorica (economica) del reddito di cittadinanza, rivendicato anche da Mason, si base sulla leggenda metropolitana secondo cui il Capitalismo cognitivo ha reso produttivo di plusvalore praticamente qualsiasi attività, anche ludica, svolta sul Web, e in questo senso i cognitivisti parlano di superamento della marxiana legge del valore. Nella misura in cui ogni cittadino “connesso” genera valore e plusvalore digitando al computer, semplicemente (in realtà ogni azione sul Web mette in moto una massa più o meno grande di interazioni economiche di un qualche tipo: si tratta poi di verificarne la natura), è chiaro che egli ha diritto a una forma di salario sociale (11).



È sufficiente respirare sul Web per averne diritto, perché ogni algoritmo sollecitato digitando su una tastiera “secerne” valore. Ma chi dovrebbe pagare questa sorta di salario sociale? Lo Stato, che diamine! Come fa lo Stato a finanziare questa spesa? Anche qui la risposta appare quasi scontata: attingendo dalla fiscalità generale. Com’è noto, nessun pasto è gratuito. Ma così facendo lo Stato non distrugge una parte della ricchezza sociale prodotta? Pazienza! Donald Gillies, della University College London, che condivide la prospettiva proposta da Mason, lo dice senza peli sulla lingua:
«Chiaramente nessuno nel settore privato pagherà i lavoratori della conoscenza, a causa della difficoltà di produrre beni digitali sotto il capitalismo. Ne consegue, pertanto, che essi devono essere pagati dallo Stato. Così il socialismo di rete si basa su colletti bianchi in contrasto con precedenti forme di socialismo, che si basavano sui lavoratori manuali» (12)
Tra l’altro qui si rende palese la risibile concezione, già a suo tempo bastonata da Marx (vedi i metaforici glutei di Lassalle e dei lassalliani), che individua il Socialismo nel Capitalismo di Stato. Chiama «Socialismo di rete» il Capitalismo di Stato “cognitivo”, e il gioco è fatto! Questo ridicolo gioco di prestigio getta peraltro luce sul benicomunismo agognato da non pochi cognitivisti: attraverso una terminologia “postmoderna” costoro riciclano concetti stravecchi che puzzano di statalismo a chilometri di distanza. L’ingenuità, diciamo così, di Gilles:
«Il socialismo burocratico dà ai governi molto più controllo. Si nominano i top manager dalla gerarchia burocratica e attraverso di loro possono avere voce in capitolo su ciò che accade all’interno dell’organizzazione. Con il socialismo di rete le cose sono diverse. Il governo deve pagare un gruppo di lavoratori, assegnare loro un compito e poi lasciarli andare avanti senza interferenze. Tale approccio libertario non è molto attraente per i governi, com’è chiaramente dimostrato dall’esempio della ricerca scientifica (e non solo) che è già finanziata dallo stato». 
E tuttavia alla fine i governi sono costretti a prendere atto che nel nuovo contesto tecnologico solo in regime di «socialismo di rete»  la produzione di beni digitali è economicamente sostenibile. Insomma, il «Socialismo di rete» è inevitabile ed è imminente: gli statalisti possono esultare!

Come ho scritto altrove, il General Intellect è in radice l’intelligenza del Capitale. È vero che, come scrive Marx, «Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma» (Grundrisse), ma esso può farlo perché «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» (Il Capitale, I). Lo sviluppo capitalistico promuove sempre di nuovo l’espansione del «cervello sociale» (scuola, università, agenzie formative, pubbliche e private, di vario genere, relazioni sociali mediate tecnologicamente e via di seguito), e questo a sua volta accresce direttamente e indirettamente la potenza sociale del Capitale, il quale sa come mettere a profitto lo sviluppo complessivo della sua società. Solo il rovesciamento rivoluzionario del Dominio può rendere possibile il pieno dispiegamento delle tendenze emancipatrici di cui è gravida, e non da oggi, la società capitalistica.



Scrive Slavoj Žižek:
«Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’”intelletto generale”, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’”intelletto generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. Negri ha ragione su questo punto» (13). 
Ora, chiunque abbia una seppur minima dimestichezza con gli scritti “economici” marxiani sa bene come il critico di Treviri non solo non ha mai mancato di mettere in luce la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminentemente sociale e mondiale perché sociale e mondiale è la dimensione del Capitale, già nella sua genesi storica e nel suo stesso concetto – come Marx non smette di ricordare praticamente in ogni pagina dei suoi scritti “economici”.

Nelle pagine che precedono il Frammento, Marx contrappone dialetticamente il «lavoro immediato», il «lavoro in forma immediata» peculiare del Capitalismo ai suoi albori (caratterizzato, come già accennato, dalla sussunzione solo formale del lavoro al capitale), al lavoro astrattamente sociale del Capitalismo pienamente sviluppato (caratterizzato dalla sussunzione reale del lavoro al capitale); «il lavoro dell’operaio singolo» al processo produttivo basato sui più moderni sistemi tecno-scientifici. Il moderno Moloch capitalistico schiaccia definitivamente il residuo di personalità individuale che ancora permaneva nell’operaio appena uscito fuori dalla condizione artigianale. Il passaggio dal lavoro immediato a quello sociale corrisponde al passaggio dal vecchio «mezzo di lavoro» (o «strumento») al sistema automatico di macchine:   
«La macchina non si presenta sotto nessun rispetto come mezzo di lavoro dell’operaio singolo. […] A differenza dello strumento, che l’operaio anima – come un organo – della propria abilità e attività, e il cui maneggio dipende perciò dalla sua virtuosità, la macchina, che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima nelle leggi meccaniche in essa operanti» (14). 
Il lavoro del singolo operaio diventa un «semplice accessorio vivente della macchina».






Note

(1) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 136,Newton, 1976.
(2) Anche il celebre filosofo Jürgen Habermas mostra di brancolare nella notte capitalistica: «Con l’avvento della ricerca industriale su larga scala, la scienza, la tecnologia, e l’uso industriale sono state fuse in un sistema. [...] Così la tecnologia e la scienza diventano un’importante forza produttiva, rendendo non operative le condizioni per la teoria del lavoro di Marx. Non ha più senso calcolare la quantità di investimenti di capitale nella ricerca e nello sviluppo sulla base di forza lavoro non qualificata (semplice), quando il progresso tecno-scientifico è diventato una fonte indipendente di plusvalore, in rapporto alla quale la sola fonte di plusvalore considerata da Marx, ossia la forza lavoro dei produttori immediati, svolge soltanto un ruolo sempre minore» (Technology and Science as ‘Ideology, Toward a Rational Society, 1970). Qui siamo in piena orgia feticistica, altroché!
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 405.
(4) P. Mason, Postcapitalismo, p. 168. Ecco invece i passi marxiani: «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (Lineamenti, II, p. 403).
(5) Ibidem, p. 172.
(6) Scriveva già nel 1991 il sociologo Peter L. Berger, apologeta del sistema capitalista: «Il capitalismo ha prodotto il proprio antagonista non sotto forma di proletariato industriale (Marx) ma piuttosto come classe di operatori della conoscenza, sempre più richiesti in un’epoca di alta tecnologia e di costante riduzione di forza lavoro dedita alla produzione intensiva» (La rivoluzione capitalistica, p. 37, Sugarco, 1991).
(7) C. Formenti, Lavorare senza saperlo: il capolavoro del capitale, Sinistrainrete, maggio 2016. Nel suo interessante libro Utopie letali (Jaca Book, 2013) Carlo Formenti prende di mira le «utopie “di sinistra”», le quali secondo l’autore «hanno poco a che fare con l’utopia comunista che ancora spaventa il capitale» (p. 7). Tesi che mi sento di condividere pienamente. Di particolare interesse ho trovato la critica che Formenti rivolge ai teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo, Antonio Negri in testa, i quali «hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers» e «in particolare sostengono che oggi il general intellect non si oggettiva nel lavoro morto, cioè nel sistema delle macchine, bensì nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”. Per questo motivo, aggiungono, il lavoro vivo, pur dipendendo tuttora dall’impresa capitalistica nella sua attuale forma di rete, sarebbe in grado di auto-organizzarsi indipendentemente dal comando capitalistico […] Queste tesi esprimono un’incredibile sottovalutazione della capacità del nuovo sistema di macchine di sovra determinare non solo l’organizzazione, ma anche la stessa antropologia del lavoro» (p. 81). Non condivido invece l’impostazione politica generale che orienta l’analisi critica di Formenti: «Le periodizzazioni sono sempre opinabili, ma resta un dato storico inconfutabile: a partire dai primi anni Ottanta, il filo rosso che corre dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, proseguendo nel secondo dopoguerra con le lotte operaie in Occidente e con le guerre di liberazione in Asia, Africa e America Latina, si spezza definitivamente. La caduta del Muro di Berlino non ha fatto altro che calare il sipario su una tragedia che si era consumata da tempo» (p. 151). In questo caso la periodizzazione più che opinabile mi sembra del tutto infondata. Il filo rosso di cui parla Formenti si spezzò non «a partire dai primi anni Ottanta» del secolo scorso, in concomitanza con l’ascesa del thatcherismo, del reaganismo e – su una scala assai più modesta, diciamo casalinga – del craxismo, ma appunto con il trionfo dello stalinismo alla fine degli anni Venti.
(8) Vedi, ad esempio, Le superstizioni comunarde di Toni Negri, Quel che resta di Toni Negri, La valorizzazione capitalistica ai tempi di Toni Negri, dal quale cito i pochi passi che seguono: «Il capitale non si limitata a “catturare” le relazioni sociali, ma piuttosto le riproduce sempre di nuovo e a tutti i livelli, in ogni luogo dello spazio esistenziale degli individui. Come ho scritto altrove, il capitale non arriva dall’esterno per appropriarsi “il comune”, ma lo produce a sua immagine e somiglianza, e quindi gravido di profittevoli opportunità come di contraddizioni d’ogni sorta: economiche, politiche, sociali, esistenziali e via discorrendo. Il general intellect è l’intelligenza del capitale. So bene che questa tesi è poco appetibile in certi settori professionali (ad esempio presso il cosiddetto “proletariato cognitivo”), ma chi “vuole fare” la rivoluzione non deve necessariamente sentirsi al centro del Sistema, né, potenzialmente – e “dialetticamente” –, già oltre. “La lettura operaista del Capitale”, per dirla con Toni Negri, dagli anni ’60 in poi si materializza nello sforzo teso a dare sostanza oggettiva (economica) ai “soggetti sociali” individuati di volta in volta come i “nuovi soggetti rivoluzionari”. Per rimanere in qualche modo fedele alla marxiana teoria della rivoluzione sociale (ma in una sua interpretazione un po’ troppo economicista e determinista), l’operaismo ha visto (ha voluto vedere) sgorgare il vitale, e quindi dialetticamente mortale, plusvalore un po’ dappertutto: nelle metropoli, negli uffici, nei centri di formazione, nelle relazioni sociali genericamente intese e via di seguito. Questo vizio d’origine è radicato, a mio avviso, in un’inadeguata critica del “comunismo” italiano (il PCI e la CGIL, da Togliatti a Berlinguer, da Di Vittorio a Luciano Lama), la cui essenza anticomunista (borghese) non è mai stata ben compresa dai teorici dell’operaismo, i quali infatti si sono sempre sentiti interni a quella storia, sebbene “criticamente”». Sul «Capitalismo cognitivo» e sulla crisi economica del 2007-2008 rinvio invece a Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Su quello che definisco l’eterno proudhonismo invito alla lettura di Cripto-moneta del comune e “acciarpature monetarie”, e di molti altri post dedicati al tema.
(9) Scriveva Alain Bihr nel 1992: «È da (ri)lanciarsi la lotta per l’istituzione di un reddito sociale garantito. Esso dovrebbe essere assicurato a ciascun individuo in controparte di una sua partecipazione al processo sociale di produzione» (L’avvenire di un passato. L’estrema destra in Europa, p. 222, Jaca Book, 1997). Anche qui il «reddito sociale garantito» è fondato economicamente: il lavoro vivo e la sua retribuzione stanno diventando esterni al meccanismo di accumulazione come lo aveva concepito e criticato Marx.
(10) I. Nobile, Oltre il lavoro salariato, Crisi e conflitti, 2006.
(11) «Il reddito di base, oggi, è cosa buona e giusta. Le ragioni di tale affermazione prendono spunto dalle forme della composizione sociale del lavoro e dalle modalità di accumulazione e valorizzazione oggi dominanti. Quando le trasformazioni tecnologiche e organizzative favoriscono il diffondersi di produzioni sempre più immateriali con un elevato grado di non misurabilità, quando si mettono a valore tutta una serie di attività che sono legate ai processi d’apprendimento, alla riproduzione sociale e alle reti di relazione, allora si pone il problema della “misura”. Il tema della misura è legato al calcolo della produttività del lavoro. A differenza del passato, dove tale calcolo era possibile perché dipendente da un’attività lavorativa che poteva essere misurata in ore di lavoro e da una quantità di produzione altrettanto misurabile su base individuale, oggi la produttività ha cambiato forma: essa tende a dipendere in misura crescente dallo sfruttamento di nuove forme di economie di scala, le econome di apprendimento e di rete (learning e network economies). […] Se la conoscenza non si diffonde tramite processi relazionali non diviene economicamente produttiva, non rompe i recinti individuali. Solo se sviluppa cooperazione sociale e general intellect diventa produttiva». (A. Fumagalli, Reddito, sovversione e libertà, Sinistrainrete). No: solo se si scambia con capitale; si tratta poi di vedere la natura di questa produttività (primaria o secondaria, produttiva di plusvalore o di profitto).
(12) D. Gillies, Il Postcapitalismo di Paul Mason, real-world economics review, n.73/2015.
(13) S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
(14) K. Marx, Lineamenti p. 390.