Sono quasi mortalmente travolto dalle indecenti reazioni, anche "preventive", delle oligarchie e soprattutto sottostanti leccaculisti, spesso "antifascisti", alla "democratica" scelta del popolo britannico di uscire all'aria aperta. A titolo di esempio metodologico: "abbiamo perso, quindi la partita si deve rifare finché non vinciamo noi... anche perché chi ha vinto è stupido, vecchio, brutto e ignorante". Mi ripaga parzialmente dalla nausea la vista della faccia di alcuni stimatissimi e strapagati intelletuali, soprattutto di sinistra, la cui espressione totalmente smarrita, fa vagamente sperare in una possibile uscita dalla UE, dall'euro e addirittura dal water neoliberista. Quindi il racconto della vita di un uomo...
popinga
Alla fine degli anni Sessanta “scoppiava finalmente la
rivolta”, oppure Alexander Grothendieck, in qualche modo, si era rotto. Si può
essere un matematico geniale e avere la ribellione nel proprio destino, che si
manifestò nei modi che vedremo, frutto anche dello spirito dei tempi. Non a
caso, Grothendieck aveva una grande stima di Évariste Galois, che chiamava il
suo frère de tempérament: furono infatti entrambi attivisti radicali, sia nella
vita sia nella loro disciplina, che portarono a nuovi livelli di astrazione con
un interesse particolare per le relazioni tra gli oggetti matematici. E ambedue
finirono in anticipo la loro carriera: Galois tragicamente a causa di uno stolido
duello, Grothendieck per un volontario isolamento dal mondo, non solo quello
accademico, durato quasi un quarto di secolo, fino alla morte avvenuta a 86
anni nel novembre 2014.
La ribellione di Grothendieck era, possiamo quasi dire,
ereditaria. Suo padre, Alexander Schapiro era un ebreo di famiglia ortodossa,
che a quindici anni faceva già parte di un gruppo anarchico che partecipò al
tentativo rivoluzionario del 1905 di abbattere il regime zarista. Catturato,
condannato all’ergastolo, dieci anni più tardi riuscì a evadere, raggiunse
l’Ucraina e si associò a un’altra banda armata anarchica. Arrestato di nuovo e
condannato a morte, riuscì di nuovo a fuggire, lasciando ai carcerieri solo il
suo braccio sinistro.
Partecipò alla rivoluzione del febbraio 1917, ma, quando
i bolscevichi presero il potere nel novembre dello stesso anno, l’anarchico
Alexander si trasferì a Berlino, dove si manteneva come fotografo di strada.
Intorno al 1924 conobbe Hanka (Johanna) Grothendieck, anche lei attivista
rivoluzionaria, che viveva dei pochi articoli che riusciva a pubblicare sui
giornali. I due si innamorarono e, nel 1928, nacque Alexander Jr., detto
Schurik, che visse i suoi primi cinque anni a Berlino con i genitori e una
sorellastra.
Nel 1933, quando i nazisti presero il potere, Alexander
Schapiro si trasferì a Parigi, dove fu presto raggiunto dalla moglie. Schurik
fu affidato a una famiglia fidata di Amburgo. Intanto in Germania la situazione
per gli ebrei era ormai diventata insostenibile e, anche se l’origine di Alexander
era tenuta nascosta (fu in quel periodo
che assunse il più sicuro cognome tedesco della madre), i suoi genitori
adottivi nel 1939, per maggiore sicurezza, lo misero su un treno per la
Francia, dove poté riunirsi di nuovo con i genitori naturali, che intanto
avevano partecipato alla Guerra di Spagna con gli anarchici ed erano tornati
dopo la vittoria dei franchisti.
La Francia non si rivelò un rifugio sicuro: nel 1940 fu
invasa dalle truppe tedesche, che insediarono nella parte meridionale del paese
il governo collaborazionista del maresciallo Pétain, fortemente antisemita. I
genitori di Alexander furono arrestati e il padre fu deportato ad Auschwitz,
dove sarebbe morto nel 1942.
Il quattordicenne Alexander fu portato con la madre nel
campo di detenzione di Le Chambon-sur-Lignon, una cittadina nel Massiccio
Centrale, centro attivo di resistenza all’occupazione nazista. Lì poté comunque
frequentare la scuola secondaria, protetto dalla popolazione che, durante le
retate della Gestapo, nascondeva i ragazzi ebrei a piccoli gruppi nella
foresta. Gli abitanti di Chambon furono poi dichiarati tra i “Giusti nelle
Nazioni” per aver salvato la vita di 5.000 ebrei. Nel 1945, con la fine del
nazismo, arrivò anche il baccalaureato.
Grothendieck e la madre si trasferirono a Montpellier,
dove Alexander poté iscriversi alla facoltà di matematica. Si capì subito che
non era uno studente come gli altri: quello che imparava durante le lezioni non
gli bastava, e la sua formazione fu in gran parte da autodidatta.
Nel 1948 vinse una borsa di studio per andare a Parigi,
dove entrò in contatto con la ricerca matematica. Frequentò il famoso Seminaire
Cartan. Non aveva paura di discutere con famosi ricercatori, era ambizioso e
appassionato. Più tardi avrebbe scritto: “ero un matematico, uno che fa
matematica, nel vero senso della parola, come si fa l’amore”. Riscoprì da solo
l’integrale di Lebesgue, seguendo le proprie intuizioni piuttosto che studiare
la letteratura esistente.
Poiché Alexander voleva esplorare gli spazi topologici
vettoriali, Elie Cartan, l’ormai vecchio padre della matematica francese, che
ne aveva capito le potenzialità, lo consigliò di trasferirsi all’Università di
Nancy, dove lavoravano due esperti del calibro di Jean Dieudonné e Laurent
Schwartz, recente medaglia Fields nel 1950. Questi mostrò a Grothendieck il suo
ultimo articolo, che si concludeva con una lista di quattordici questioni
aperte, importanti per gli spazi localmente convessi. Il nuovo arrivato risolse
tutti i quattordici problemi nel giro di meno di un anno: era nata una nuova
stella nel cielo della matematica, all’età di 22 anni.
Nonostante il successo, per Grothendieck era difficile
trovare un lavoro in Francia, a causa del suo stato di apolide (l’archivio di
Berlino, sua città di nascita, era stato distrutto nel 1945 e lui aveva
solo un passaporto delle Nazioni Unite).
I suoi supervisori si preoccuparono della situazione infelice di questo giovane
genio, e gli trovarono un posto come visitatore all’università brasiliana di
São Paulo, dove Alexander si trasferì tra il 1952 e il 1954. In quel periodo
finì la sua tesi di dottorato su Prodotti tensoriali e spazi nucleari (termine
quest’ultimo introdotto da lui).
Secondo Dieudonné, in quel periodo Grothendieck aveva già
pronto del materiale sufficiente per scrivere sei tesi, alcune delle quali in
analisi funzionale. Per avere un’idea di questo dato, basti pensare che una
buona tesi in dottorato in matematica richiede almeno due anni di duro
impegno. Pubblicò articoli in francese
su riviste brasiliane, nei quali introdusse le “costanti di Grothendieck”,
tenne lezioni sugli spazi vettoriali topologici e cominciò a interessarsi di
geometria algebrica, l’analisi sistematica delle proprietà geometriche delle
soluzioni delle equazioni polinomiali. Lavorava senza posa, fermandosi solo per
dormire e mangiare, conducendo una vita spartana, interessato solo ai problemi
che stava cercando di risolvere.
Tornato in Francia, dopo la morte della madre nel 1957,
Grothendieck si associò con Dieudonné e Jean-Pierre Serre nell’Institut des
Hautes Études Scientifiques (IHES), appena fondato presso Parigi, che diventò
un centro di riferimento per la matematica e la fisica teorica. Grothendieck
guidò un brillante gruppo di giovani matematici tra il 1958 e il 1970, l’epoca
d’oro della sua carriera. Per qualche tempo fu anche membro del gruppo di Bourbaki.
Il suo ex collega Pierre Cartier ricorda che conduceva
“uno dei seminari di matematica più prestigiosi che il mondo avesse visto”.
Esso attraeva i migliori matematici dalla Francia e da tutto il mondo. Le
sessioni potevano durare dalle 10 alle 12 ore, portando a improvvise note che
Grothendieck scriveva e dava a Dieudonné per essere messe in buona forma.
Grothendieck era un insegnante di talento, che spiegava pazientemente anche i
passaggi “banali” pur di essere compreso. Uno dei frutti di tale attività fu il
progetto Elementi di Geometria Algebrica (EGA), iniziato nel 1960, ambizioso, monumentale,
rivoluzionario e mai concluso.
Aveva anticipato il suo programma di ricerca per quegli
anni in un discorso al Congresso Internazionale dei Matematici di Edimburgo,
nel 1958. Il suo stile era di cercare una sempre crescente generalità e
astrazione, introducendo nuovi termini e concetti, e lavorando sulle loro proprietà.
Ciò portò a migliaia di pagine sulla fusione di geometria algebrica, aritmetica
e topologia. Nell’autobiografia del 1988 troviamo il suo mondo matematico
espresso con parole semplici e chiare:
“Si può dire che “il numero” è adatto a cogliere la struttura degli aggregati “discontinui” o “discreti”: i sistemi, spesso finiti, formati da “elementi” o “oggetti” per così dire isolati gli uni rispetto agli altri, senza qualche principio di “passaggio continuo” dall’uno all’altro. “La grandezza”, al contrario, è la qualità per eccellenza, suscettibile di “variazione continua”; perciò essa è adatta a cogliere le strutture e i fenomeni continui: i movimenti, gli spazi, “varietà” di tutti i generi, campi di forza, ecc. In tal modo, l’aritmetica pare (a grandi linee) come la scienza delle strutture discrete, e l’analisi come la scienza delle strutture continue.
Quanto alla geometria, si può dire che, dopo oltre duemila anni di esistenza sotto forma di scienza nel senso moderno della parola, essa è “a cavallo” di questi due tipi di strutture, le “discrete” e le “continue”. Per lungo tempo, d’altra parte, non vi era veramente un “divorzio” tra due geometrie che sarebbero state di specie differenti, l’una discreta e l’altra continua. Piuttosto, vi erano due punti di vista diversi nell’investigazione delle stesse figure geometriche: il primo che poneva l’accento sulle proprietà “discrete” (in particolare le proprietà numeriche e combinatorie), l’altro sulle proprietà continue (quali la posizione nello spazio circostante o la “grandezza” misurata come distanze reciproche dei punti, ecc.). È alla fine del secolo scorso che è comparso un divorzio, con la comparsa e lo sviluppo di ciò che è stata chiamata “geometria (algebrica) astratta”. Grosso modo, si è trattato di introdurre, per ciascun numero primo p, una geometria (algebrica) “di caratteristica p”, calcolata sul modello (continuo) della geometria (algebrica) ereditata dai secoli precedenti, ma in un contesto che eppure appariva come irriducibilmente “discontinuo”, “discreto”.
Questi nuovi oggetti geometrici hanno guadagnato una importanza crescente dopo l’inizio del secolo, e ciò, particolarmente, grazie alle loro strette relazioni con l’aritmetica, la scienza per eccellenza della struttura discreta. Sembrerebbe che una delle idee direttrici nell’opera di André Weil, può darsi persino la principale (rimasta più o meno tacita nella sua opera scritta, come si deve), sia che “la” geometria (algebrica) e in particolare le geometrie “discrete” associate ai diversi numeri primi, dovessero fornire la chiave per un rinnovamento di vasta portata dell’aritmetica. In questo spirito egli ha proposto nel 1949 le celebri “congetture di Weil”. Congetture assolutamente sbalorditive, a dire il vero, che facevano intravedere, per queste nuove “varietà” (o “spazi”) di natura discreta, la possibilità di certi tipi di costruzioni e di argomenti che fino a quel momento non sembravano pensabili se non nel quadro dei soli “spazi” considerati degni di questo nome dagli analisti – cioè gli spazi detti “topologici”, in cui vale il concetto di variazione continua. Si può pensare che la nuova geometria è, prima di tutto, una sintesi tra questi due mondi, fino ad allora attigui e strettamente solidali, ma tuttavia separati: il mondo “aritmetico”, nel quale vivono i (sedicenti) “spazi” senza principio di continuità, e il mondo della grandezza continua, dove vivono gli “spazi” nel vero senso del termine, accessibili ai metodi dell’analista e (per questo stesso motivo) da lui accettati come degni di risiedere nella città matematica. Nella nuova visione, questi due mondi un tempo separati non ne formano più di uno solo”.
(Récoltes et Semailles, §2.10. La géométrie nouvelle — ou les épousailles du nombre et de la grandeur).
L’idea nuova era che a una geometria fatta di spazi, che
sono insiemi di punti, si doveva sostituire una nuova geometria i cui oggetti
sono le relazioni, le funzioni, i morfismi. E bisognava creare nuovi oggetti,
rivelare nuove strutture e esplorare nuovi territori per realizzare questa sintesi auspicata: gli schemi, i
topos, la teoria dei motivi.
Sembrava che questa fantastica stagione non dovesse mai concludersi, quando, nel 1970, a 42 anni, Grothendieck si dimise dall’IHES, e entrò in una fase completamente diversa della propria vita. Ben presto il suo gruppo di ricerca si sciolse.
Fino ad allora la vita di Grothendieck si era concentrata
quasi esclusivamente sulla matematica, anche se in qualche episodio aveva
manifestato il suo acceso pacifismo e lo spirito anarchico ereditato dai
genitori. Quando fu invitato dall'università americana di Harvard, nel 1958, si
lamentò della procedura d’ingresso negli USA che richiede la dichiarazione di
non voler intraprendere azioni sovversive. Come altri grandi matematici
francesi, si schierò contro la guerra coloniale in Algeria e, nel 1966, non andò
a ritirare personalmente la Medaglia Fields al congresso matematico di Mosca,
in segno di protesta contro l’arresto di due scrittori dissidenti.
La guerra del Vietnam costituì una delle svolte
principali della sua esistenza. Nel 1967 fu invitato a tenere lezioni di
algebra e geometria algebrica ad Hanoi, che era allora periodicamente
bombardata dall’aviazione americana. Incuriosito da una richiesta così
insolita, desideroso di conoscere lo stato della ricerca matematica vietnamita
e, ovviamente, in segno di protesta contro la politica americana, Grothendieck
accettò. Si pagò il viaggio ed ebbe cura di portare quanto più materiale
poteva. Dopo qualche giorno di lezioni relativamente tranquille, in cui scoprì
il buon livello dei matematici vietnamiti (uno era il vice-ministro
dell’istruzione), si intensificarono i raid aerei, e docente e allievi furono
costretti a continuare le lezioni nella foresta. Tornato in Francia, fece
conferenze sulla sua avventura e scrisse un resoconto dettagliato della visita,
in cui comunicava al mondo occidentale la preparazione dei matematici
incontrati e la sua simpatia per una nazione in lotta contro l’imperialismo,
prima francese e poi americano, da quasi vent’anni.
Nel maggio del 1968, pur senza partecipare direttamente alla
lotta studentesca, prese posizione in favore dei manifestanti. La sua
ribellione si concretizzò invece all'interno dell’istituzione che aveva fino ad
allora contribuito a far crescere. Era venuto a conoscenza che l’IHES riceveva
finanziamenti dall’esercito francese, allora aveva contribuito a una protesta
dei docenti che nel 1969 aveva fatto interrompere questa pratica. Nel 1970,
tuttavia, i finanziamenti militari erano ripresi: ciò apparve intollerabile per
le sue idee pacifiste. Cercò di convincere i colleghi alle dimissioni di massa
per protesta, ma fu lasciato solo. Forse si era stancato anche di quel “lungo
periodo di frenesia matematica”, fatto sta che decise di cambiare vita.
Si separò dalla moglie e aprì una comune, prima a Parigi,
poi nel sud della Francia. In quegli ambienti viveva con gente di tutti i tipi,
con i quali teneva lunghe assemblee e discussioni politiche. Nel frattempo
insegnava con contratti temporanei, prima all'università Paris-Sud a Orsay, poi
come visiting professor al Collège de France. Nei suoi corsi affiancava alla
matematica interventi sulle istanze sociali e la minaccia delle armi nucleari.
Ciò attirò molti studenti e molti curiosi, finché la direzione del Collège
decise di non rinnovargli il contratto, benché egli fosse uno dei più famosi
matematici al mondo.
Il suo impegno pacifista e ambientalista si fece sempre
più intenso. Quando fu invitato a tenere lezioni di matematica all’Università
canadese di Montreal, accettò a patto di poter parlare anche delle minacce
nucleari per l’umanità. Tenne lezioni anche negli USA, dove
si schierò per i diritti dei nativi americani.
si schierò per i diritti dei nativi americani.
Alcuni giovani matematici furono attratti dalle sue idee
e divennero attivisti. Assieme a due giovani matematici francesi, Claude
Chevalley e Pierre Samuel, Grothendieck fondò, proprio a Montreal, un gruppo
chiamato Movimento Internazionale per la Sopravvivenza della Razza Umana, il
cui organo era la rivista auto-prodotta Vivre, più tardi diventata Survivre et
Vivre, che pubblicava appelli per la pace, articoli sulle responsabilità della
scienza e sull'irresponsabile scientismo (“la nuova religione”) di fronte alle
minacce del militarismo, dell’industrializzazione senza controlli, dello
sfruttamento delle risorse naturali e dell’uomo sull’uomo. Non mancava una
critica aperta al consumismo delle società occidentali. La rivista, che fu
attiva tra il 1970 e il 1975, e che ebbe tra i direttori anche Denis Guedj,
anticipò molti dei temi che furono poi, e che sono tuttora, patrimonio del
pensiero libertario moderno.
Riguardo all'ambientalismo, Survivre et Vivre aveva una posizione fortemente critica contro i pericoli dell’”ecofascismo”, cioè di un’ideologia attenta all'ambiente, ma indifferente alle ingiustizie sociali. “Ciclostilata in proprio”, come si sarebbe detto allora, distribuita artigianalmente, Survivre et Vivre ebbe una tiratura iniziale di mille copie e giunse a un massimo di quindicimila quando le copertine iniziarono a essere disegnate da Didier Savard.
Riguardo all'ambientalismo, Survivre et Vivre aveva una posizione fortemente critica contro i pericoli dell’”ecofascismo”, cioè di un’ideologia attenta all'ambiente, ma indifferente alle ingiustizie sociali. “Ciclostilata in proprio”, come si sarebbe detto allora, distribuita artigianalmente, Survivre et Vivre ebbe una tiratura iniziale di mille copie e giunse a un massimo di quindicimila quando le copertine iniziarono a essere disegnate da Didier Savard.
Alla Scuola Estiva di Anversa del 1972, il suo ex collega
dell’IHES Jean-Pierre Serre, che teneva il discorso d’apertura, fu interrotto
platealmente da Grothendieck, che arringò i presenti contro la NATO che aveva
sponsorizzato l’evento. Crebbe la sua fama di rompiscatole, e anche il risentimento
di molti colleghi. Tuttavia, nella lunga conferenza seguita da dibattito che
tenne al CERN nello stesso anno, fu calmo e dialogante, spiegando i motivi del
suo esilio volontario dalla comunità scientifica, in cui la competizione e la
pressione a pubblicare sono immorali e costituiscono un ostacolo alla
creatività, e dove i ricercatori hanno perso la coscienza dei motivi del loro
fare. Poi sottolineò come per lui la battaglia pacifista contro la minaccia
nucleare fosse diventata più importante della ricerca matematica.
Nel 1973 tornò all’Università di Montpellier, tenendo
lezioni su vari argomenti matematici. Si comportava amichevolmente con gli
studenti, distribuiva mele organiche e si meritò il soprannome di Alexandre le
Grand. Forse giovò alla sua popolarità la provocatoria proposta di tirare a
sorte i voti degli esami, oppure di dare a tutti il massimo. Non tenne più i
suoi famosi seminari, ma seguiva molti studenti di dottorato (si infuriò quando
la Springer si rifiutò di pubblicare una tesi). Continuava anche la ricerca, ma
il CNRS assicurava solo un supporto minimo.
Tra il 1973 e il 1979 visse nel piccolo villaggio di
Olmet-et-Villecun, a 50 chilometri da Montpellier, in una casa semplice senza
luce elettrica (usava lampade a cherosene), dove dava ospitalità ai senzatetto.
La sua dimora era aperta a tutti, e diventò un riferimento per persone di ogni
tipo, compresi hippies e giovani
“alternativi”. Nel 1977 la polizia fece irruzione nell’edificio, in cerca
di tutto ciò che potesse essere illegale. Trovarono solo uno studente
giapponese al quale era scaduto il permesso di soggiorno. Si trattava di una
persona pacifica, all’epoca monaco buddista, ma la sua presenza fu ritenuta
sufficiente dalle autorità per denunciare Grothendieck di aver ospitato un
irregolare. Sei mesi più tardi, con il giapponese già tornato in patria, fu
processato e, nonostante un appassionato discorso e il pubblico sostegno di
molti colleghi, fu condannato a una piccola multa con pena sospesa per sei
mesi. È evidente che si era voluto dargli una lezione. In quell’anno gli fu
attribuita la medaglia Picard dell’Accademia francese delle scienze, che finirà
utilizzata come schiaccianoci nell’eremo in cui visse i suoi ultimi anni.
Continuò a scrivere ponderosi testi di più di mille
pagine, come La lunga marcia attraverso la teoria di Galois e Alla ricerca dei
Campi. Coordinò poi la stesura di Abbozzo di un Programma, con idee sul futuro
della matematica, scritto in realtà dai giovani matematici suoi seguaci Leila
Schneps e Pierre Lochak.
Tra il 1983 e il 1988 Grothendieck scrisse una bella
autobiografia intitolata Récoltes et Semailles (Raccolte e semine), nella quale
presentava la sua vita e il suo lavoro e forniva elementi eterogenei, come
poesie in tedesco e giudizi, talvolta critici, sulla comunità matematica
e gli ex colleghi.
e gli ex colleghi.
Nel 1988 gli si doveva assegnare il prestigioso Premio
Crafoord della Accademia Reale Svedese delle Scienze, assieme al suo ex
studente Deligne. Grothendieck tuttavia lo rifiutò, inviando a Le Monde una
cortese lettera in cui spiegava le sue ragioni**
In quell'anno andò in pensione e si dimise dall'Università di Montpellier e, nel 1991, anche dalla società: interruppe i contatti con quasi tutti, compresa la sua famiglia, composta da alcuni figli avuti da diverse relazioni. Si ritirò a vivere una vita semplice in un borgo sui Pirenei francesi, di cui volle tenere segreta l’ubicazione. Scrisse ancora un testo matematico, I derivatori, di circa 2000 pagine, che consegnò a un amico. D’altro canto, una volta diede alle fiamme una gran quantità di note, lettere e altri documenti: si stima circa 25.000 pagine. Il suo interesse principale diventò lo spiritualismo e la meditazione, entrando nella fase finale della sua vita, quella di eremita, dapprima influenzato dal buddismo, poi ispirato da una personale e mistica versione del cristianesimo. Lunghi digiuni minarono la sua salute.
Solo poche persone fidate sapevano dove viveva e dovevano
giurare di non rivelare questa informazione. Non aveva un indirizzo postale né
il telefono, né tantomeno internet. Alla fine il mondo seppe che Alexander
Grothendieck era morto il 13 novembre 2014 nel piccolo ospedale di
Saint-Girons, ai confini con la Spagna.
####
**Lettera pubblicata su Le Monde del 4 Maggio 1988 in
occasione del rifiuto del premio Crafoord
Montpellier, 19 aprile 1988
Caro Professor
Ganelius, la ringrazio per la sua lettera del 13 aprile, che ho ricevuto oggi,
e per il telegramma. Il premio Crafoord insignitomi insieme a Pierre Deligne
(che fu mio studente) quest’anno dall’Accademia reale svedese, accompagnato da
un’ingente somma di denaro, mi ha molto onorato. Tuttavia, mi rincresce
informarla che non desidero accettare questo premio, come nessun altro, per le
seguenti ragioni:
1) Lo stipendio
di professore e la pensione, che inizierà dal prossimo ottobre, sono più che
adeguati ai miei bisogni materialie a quelli dei miei dipendenti; per cui non mi occorre denaro.
Quanto alle onorificenze conferite ad alcuni dei miei lavori sui fondamenti,
sono convinto che solo il tempo darà prova della fertilità di nuove idee o
visioni. La fertilità si misura con il risultato e non con un riconoscimento.
2) Noto, inoltre, che tutti i ricercatori di alto livello, ai quali un prestigioso premio come quello Crafoord è indirizzato, hanno una posizione sociale che d`a loro più ricchezza materiale e più prestigio scientifico di quanto sia necessario, con il potere e i privilegi che ne conseguono. Eppure, non `e chiaro che la sovrabbondanza di alcuni è possibile solo al costo delle necessità altrui?
3) Il lavoro che
mi ha portato alla cortese attenzione della Accademia lo terminai venticinque
anni fa, quando facevo parte della comunità scientifica ed essenzialmente ne condividevo
lo spirito e i valori. Sono uscito da quell’ambiente nel 1970 e, sebbene la
ricerca scientifica abbia continuato ad appassionarmi, interiormente mi sono ritirato sempre più dal “milieu”
scientifico. Nel frattempo, l’etica della comunità scientifica (perlomeno dei
matematici) è decaduta al punto che il furto dichiarato tra colleghi
(specialmente alle spese di coloro i quali non sono in condizione di
difendersi) `e quasi diventato la norma ed è, a ogni modo, tollerato da tutti,
persino nei casi più evidenti e iniqui. A queste condizioni, accettare di
partecipare al gioco dei premi e delle onorificenze significherebbe anche dare
la mia approvazione a uno spirito e a una tendenza nel mondo scientifico che io
considero come essere fondamentalmente malsana e per di più condannata a scomparire presto, essendo tale spirito e tendenza cos`ı
rovinosi, spiritualmente, intellettualmente e materialmente.
La terza ragione è per me di gran lunga la più importante, anche se non va intesa, in nessun
modo, come una critica all’Accademia reale e al come intende amministrare i
suoi fondi. Non ho dubbi sul fatto che prima della fine del secolo degli eventi
totalmente imprevisti cambieranno completamente il nostro concetto di “scienza”
e dei suoi obiettivi e lo spirito con cui il lavoro scientifico `e svolto.
Certamente, a quel tempo l’Accademia reale sarà fra le istituzioni e le persone
che giocheranno un ruolo importante in questo rinnovamento senza precedenti,
dopo un equivalente collasso della civiltà senza precedenti. Mi dispiace
dell’inconveniente che può aver causato a lei e all’Accademia reale il mio
rifiuto di ricevere il premio Crafoord, soprattutto per il fatto che il premio
era già stato pubblicizzato prima che i candidati avessero accettato. Tuttavia, non ho mai rinunciato ad
esprimere la mia opinione sulla comunità scientifica e sulla “scienza
ufficiale” di oggi nota alla stessa comunità e specialmente ai miei vecchi
amici e ai miei giovani studenti del mondo matematico. Ciò che penso si trova
in Récoltes et Semailles, una lunga riflessione sulla mia vita di matematico, sulla
creatività in generale e sulla creatività scientifica in particolare; questo
saggio è diventato inaspettatamente un ritratto dei principi morali del mondo
matematico dal 1950 fino a oggi. In attesa che venga pubblicato sotto forma di
libro, un’edizione provvisoria di duecento copie è stata spedita ai colleghi
matematici, principalmente ai geometri algebrici (che adesso mi fanno onore
commemorandomi). In un plico a parte, le invio le due parti introduttive per
sua informazione personale. Di nuovo ringrazio lei e l’Accademia reale svedese e
porgo le mie scuse per l’inconveniente non voluto. La prego di accettare i miei più sentiti omaggi.
A. Grothendieck
A. Grothendieck
.
Philippe Douroux - «Alexandre
Grothendieck» - Images des Mathématiques, CNRS, 2012
Nicola Ciccoli - La lunga marcia in salita di Alexander
Grothendieck - MaddMaths, SIMAI, 2014
Wolfgang Bietenholz, &
Tatiana Peixoto (2016). To the Memory of Alexander Grothendieck: a Great and
Mysterious Genius of Mathematics Ciencia e Sociedade (CS) CBPF, Brazil, v.3,
n.1 (2015) 1-9 arXiv: 1605.08112v1
Nessun commento:
Posta un commento