uno dei due è l'altro

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venerdì 17 giugno 2016

Maledetto Frammento! (Falce e Robot)

Contro una lettura gradualista (“riformista”) e adialettica (infantile) del pensiero marxiano

I teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo e del Postcapitalismo hanno frainteso nel modo più clamoroso e infantile possibile la naturale tendenza del Capitale a creare sempre di nuovo occasioni di profitto senza alcun riguardo circa la natura (produttiva o improduttiva) dell’investimento, la quale per il singolo investitore non ha alcun significato, perché, com’è arcinoto (al netto dei soliti miserabili moralismi francescani e sinistrorsi), il profitto non ha né colore né odore. Lo sviluppo capitalistico per un verso ha irrobustito la caduta tendenziale del saggio di profitto industriale, spingendo con ciò stesso una massa sempre più cospicua di capitali a cercar fortuna fuori della sfera della produzione immediata del plusvalore, fondamento reale e concettuale di ogni tipologia di profitto e di rendita; e per altro verso ha generato una tecnoscienza in grado

1. di incrementare il grado di sfruttamento della capacità lavorativa impiegata in ogni sfera di attività (industria, commercio, finanza, servizi) e
2. di rendere l’intera esistenza umana una sola, gigantesca, vivente (e per questo sempre mutevole e plasmabile) occasione per drenare profitti. Un’esistenza interamente mercificata e, per mutuare abbastanza indegnamente il feticista di Treviri, ad alta composizione organica di capitale.

La tecnoscienza capitalistica non deve far altro che inventare nuovi procedimenti, nuovi servizi, nuovi oggetti, nuovi bisogni, nuovi sogni, nuove “utopie” in grado di intercettare e catturare il denaro che sta nella tasca dei clienti. Io ti vendo un’emozione, un sogno, un senso, un’ideologia, un’informazione, una conoscenza, una relazione, e tu mi paghi in denaro o in qualcos’altro che poi io saprò come monetizzare: ad esempio vendendo il tuo profilo di consumatore. Qui davvero il genio umano è messo nelle condizioni di dare il meglio di sé. «La verità è», scriveva Marx nel remoto 1865, «che in questa società borghese ogni lavoratore, purché sia un tizio intelligente ed astuto, e dotato di istinti borghesi, e favorito da una fortuna eccezionale, ha la possibilità di trasformarsi in sfruttatore del lavoro altrui» (1). La tecnologia digitale rende più facile, almeno potenzialmente (o virtualmente), la dinamica a suo tempo prospettata da Marx.



Leggo proprio oggi: 

«A dieci anni scova una falla nella sicurezza di Instagram e viene premiato con 10mila dollari dal social network. È la storia di un ragazzino finlandese, che si chiama Jani e vive a Helsinki, non si hanno altre informazioni sulla sua identità per motivi di privacy, e che in teoria non avrebbe neanche l’età per iscriversi a Instagram. Jani, sfruttando un malfunzionamento della popolare applicazione di immagini, aveva trovato il modo per cancellare i commenti pubblicati da qualsiasi utente. “Avrei potuto cancellare i commenti di chiunque, anche di Justin Bieber”, ha detto Jani alla pubblicazione finlandese Iltalehti» (Ansa.it)

Invece gli «istinti borghesi» hanno prevalso e l’«intelligente ed astuto» Jani ha portato a casa un malloppo niente male: complimenti!

Ma un conto è smungere denaro, far circolare la stessa ricchezza da una tasca all’altra, e tutta un’altra storia è generare la madre di tutti i profitti, ossia il famoso plusvalore “basico”. Se per i singoli capitalisti la ricerca del profitto appare come l’hegeliana notte in cui tutte le vacche appaiono nere (2), per la totalità sociale capitalistica le cose si presentano in ben’altro modo. In altri termini, il “Capitalismo cognitivo” non è riuscito a oltrepassare il limite storico immanente al concetto stesso di Capitale; di più: è esso stesso prodotto di quel limite, ossia dei vani tentativi messi in essere dal Capitale per superarli sempre di nuovo. Sto evocando anche la famosa legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto? Certamente! Del resto, anche Mason lo fa nel suo libro.

Niente, a mio avviso, tradisce l’autentico pensiero marxiano sulla natura sociale (nell’accezione più pregnante del concetto) del Capitalismo e sul suo superamento rivoluzionario reso possibile proprio da quel carattere, quanto la lettura “postcapitalistica” del celebre Frammento sulle macchine, il quale è parte organica dei manoscritti del 1857-58 dedicati da Marx allo «sviluppo del capitale fisso» (quaderni VI-VII), ossia all’incorporazione della scienza e, in generale, del «sapere sociale», nel capitale.

 «Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice […]; si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale» (3).



Attraverso la tecnoscienza, il capitale ha trovato il modo di impossessarsi delle qualità umane di cui il lavoratore poteva ancora vantare nel periodo di transizione dalla «sussunzione formale» a quella «reale» – oggi sarebbe forse più corretto parlare di sussunzione totalitaria, e non solo in riferimento ai lavoratori.

Anche Mason ha voluto dare il suo contributo alla pessima lettura “postcapitalistica” del Frammento, come si evince facilmente dai passi che seguono: 

«Sono andato a rivedere tutti i tentativi degli economisti e dei guru aziendali di costruire una cornice di riferimento per capire le dinamiche di un’economia basata su informazioni abbondanti e socialmente condivise. In realtà l’aveva già immaginata un economista dell’ottocento all’epoca del telegrafo e del motore a vapore. Il suo nome era Karl Marx. La scena si svolge a Londra, a Kentish Town. È un mattino di febbraio del 1858, verso le quattro. Marx è ricercato in Germania e sta lavorando duramente su una serie di esperimenti mentali e appunti personali. Quando finalmente leggeranno quello che sta scrivendo stanotte, gli intellettuali di sinistra degli anni sessanta del novecento saranno costretti a riconoscere che “mette in discussione tutte le più serie interpretazioni di Marx finora concepite”. Stiamo parlando del “Frammento sulle macchine”. In questo testo Marx immagina un’economia in cui il ruolo principale delle macchine è produrre, e il ruolo principale dell’uomo è tenerle sotto controllo. La principale forza produttiva è l’informazione. La capacità produttiva di macchine come il telaio automatizzato e la locomotiva a vapore non dipende dalla quantità di lavoro necessaria per produrle, ma dallo stato della conoscenza sociale. In altre parole, organizzazione e conoscenza danno un contributo maggiore alla capacità produttiva rispetto al lavoro necessario per costruire e far funzionare le macchine. Considerato quello che sarebbe diventato il marxismo – una teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro – si tratta di un’affermazione rivoluzionaria. Implica che quando la conoscenza diventa una forza produttiva in sé e diventa più importante del lavoro materiale impiegato per costruire una macchina, la questione centrale non è più “salari contro profitti”, ma chi controlla quello che Marx chiama il “potere della conoscenza”» (4).



Cioè il Capitale. Secondo Mason il Marx “rivoluzionario” del Frammento avrebbe abbandonato, forse per compiacere i futuri oltristi tipo Toni Negri (non a caso considerato da Mason come un insostituibile punto di riferimento per orientarsi nella complessità dell’«Infocapitalismo»), la sua “vecchia” legge del valore, tesi che appare risibile non solo alla luce dello stesso Frammento, ma in relazione a quanto il comunista tedesco premette alla riflessione sul general intellect. Posto il Capitalismo, anche quello ultra sviluppato immaginato da Marx (e fantasticato dai postcapitalisti), la sola produttività che conta non è quella puramente materiale (il numero di merci prodotte in un tempo definito), ma quella, per così dire, valoriale, perché quella capitalistica è in primo luogo produzione di valore – con incorporato plusvalore, ovviamente. Per questo la conoscenza non potrà mai diventare, in regime capitalistico, più importante «del lavoro materiale impiegato per costruire una macchina». Ma finiamo la citazione: 

«In un’economia dove le macchine svolgono gran parte del lavoro, la natura della conoscenza insita nelle macchine dev’essere “sociale”, scrive Marx. In un ultimo esperimento mentale a notte fonda Marx immagina il punto finale di questa parabola: la creazione di una “macchina ideale” che dura per sempre e non costa niente. Una macchina che può essere costruita per niente, scrive Marx, non aggiunge alcun valore al processo di produzione e nel giro di pochi intervalli contabili riduce il prezzo, il profitto e il costo del lavoro di tutto quello che tocca. Una volta preso atto che l’informazione è materiale, che il software è una macchina e che i prezzi delle capacità di memoria, della larghezza di banda e dell’elaborazione dei dati stanno crollando in modo esponenziale, il valore del pensiero di Marx diventa chiaro. Siamo circondati da macchine che non costano niente e che, se volessimo, potrebbero durare per sempre. In queste riflessioni, rimaste inedite fino alla metà del novecento, Marx immagina un flusso di informazioni archiviate e condivise all’interno di un “intelletto generale”, una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti. In breve, Marx immagina qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo. E aggiunge che la sua venuta farà “saltare in aria il capitalismo”».



Naturalmente nel Frammento marxiano non si trova alcuna traccia di tutto questo, e fino a che punto Mason non abbia capito il fondamento teorico della critica marxiana dell’economia politica lo testimoniano i passi che seguono:

«Nel decennio successivo Marx abbandonò le idee delineate nel “Frammento sulle macchine” e costruì una teoria del capitalismo in cui i meccanismi di scambio non saltano in aria per effetto della comparsa di un intelletto generale» (5).

Un abbandono che esiste solo nella testa del Nostro. In odio al Capitalismo “fordista”, basato sullo sfruttamento intensivo dell’«operaio massa» (base sociale dell’ex PCI e della CGIL), i cognitivisti hanno sviluppato una sorta di messianica aspettativa, e comunque una esagerata e infondata apertura di credito nei confronti del Capitalismo “cognitivo”, fondato sullo sfruttamento “intelligente” dei lavoratori cognitivi – evoluzione dell’«operario sociale» eletto negli anni Settanta a «nuovo soggetto rivoluzionario» dai «cattivi maestri» (di marxismo). Anche Mason individua nei lavoratori – cosiddetti – cognitivi il «nuovo – l’ennesimo! – soggetto rivoluzionario» (6):
«Mettendo in rete milioni di persone, economicamente sfruttate ma con l’intera intelligenza umana a portata di dito, l’infocapitalismo ha creato un nuovo agente del cambiamento nella storia: l’essere umano istruito e connesso».
Mi permetto di avanzare qualche riserva, diciamo così, sulle potenzialità rivoluzionarie dell’«essere umano istruito e connesso». «La nuova classe rivoluzionaria è tra noi [e io non lo sapevo!]: sono i white wire people, i sempre connessi, quelli con gli auricolari. E i robot saranno i loro alleati». Come no! Falce e Robot! Comunque sia, vado subito a comprare l’ultimo modello di auricolari: non si sa mai quel che il capitalismo cognitivo ci può riservare… D’altra parte, come ci informa Annamaria Testa, esperta di comunicazioni,
«C’è un robot giapponese che scrive romanzi. O meglio: un robot coautore, insieme a un essere umano, di un romanzo che riesce a entrare nella selezione di un concorso letterario. […] Alla rapida e stupefacente umanizzazione delle prestazioni dei robot in termini di versatilità e complessità si affianca un’altrettanto stupefacente umanizzazione in termini di aspetto. Guardate, per esempio, le espressioni di un androide della Hanson Robotics, Sofia. E fatelo senza dimenticare che, poiché nella nostra percezione di interlocutori un’espressione facciale altrui esprime uno stato d’animo, per scegliere le espressioni “giuste” Sofia deve essere in grado, se non di provare l’emozione, almeno di scegliere di volta in volta le espressioni più appropriate. Cioè quelle che produrrebbe se provasse emozioni» (L’Internazionale, 4 aprile 2016).



L’ultima frontiera della tecnoscienza: insegnare alla macchina a imitare non solo l’intelligenza umana, ma anche l’affettività umana, e questo proprio quando (e a dimostrazione del fatto che) la potenza sociale che ci governa ci costringe a vivere in uno spazio umano sempre più angusto e residuale, in una “riserva umana” minacciata da tutte le parti. Ci sentiamo intelligenti e civilissimi pensando a come “umanizzare” le macchine (già si progetta il robot da compagnia per pensionati abbandonati dai figli), quando si tratterebbe di diventare noi stessi umani. È poi rivelatore della nostra condizione sociale (esistenziale) il discorso secondo cui occorre umanizzare i robot per poterli meglio sfruttare: questo anche a proposito del concetto di «capitale umano».

Scrive Carlo Formenti, illustrando il vizio d’origine dell’operaismo di Negri e compagni, 
«vale a dire la tendenza ad “assolutizzare” l’autonomia del lavoro nei confronti del capitale, del quale si tendeva a sottovalutare l’incredibile capacità di inventare sempre nuove modalità di subordinazione del lavoro medesimo»: «Esiste il rischio di ripetere un errore simile a quello della fine degli anni Settanta, quando si sottovalutò la potenza della controffensiva capitalista? Solo un abbaglio clamoroso potrebbe indurre a non vedere in che misura siano stati distrutti i rapporti di forza dei knowledge workers. Per rendersene conto, basta leggere un servizio pubblicato qualche mese fa dall’Economist, dedicato al diffondersi delle agenzie di collocamento on-line per lavoratori freelance. Queste imprese, che negli anni precedenti agivano soprattutto da intermediari fra datori di lavoro dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi in via di sviluppo, funzionano sempre più spesso da reclutatoti di freelance a elevata qualificazione all’interno dei paesi avanzati. […] In questo caso, parlare di “autonomia” vorrebbe dire allinearsi alle tesi dell’ultraliberista Economist, che ha la faccia tosta di sostenere che questo tipo di soluzione regala ai lavoratori “flessibilità”, consentendo loro di dedicare più tempo agli affetti domestici e agli hobby personali!». Non a caso la teoria economica dell’ultraliberista Friedrich Hayek da qualche anno trova nuovi e quasi inaspettati consensi. Ma concludiamo la citazione: «In conclusione: la fase storica che stiamo vivendo, al pari di tutte le fasi di crisi e ristrutturazione capitalistica, non è affatto caratterizzata da un accresciuta autonomia del lavoro, bensì da una potente controffensiva capitalistica che, per la prima volta, non si limita a ridimensionare i rapporti di forza del lavoro, ma tenta addirittura di farlo sparire, nella misura in cui riesce a far credere che una serie di  attività vitali si stiano “liberando” dal mercato proprio quando quest’ultimo si prepara a colonizzarle» (7).



Critiche analoghe si trovano nei miei scritti su Toni Negri e sul Capitalismo cognitivo, ai quali rinvio (8).
«Marx, secondo A. Fumagalli e C. Vercellone, nel famoso “Frammento sulle macchine”, descrive un contesto possibile nel quale trovi giustificazione un reddito di cittadinanza, dal momento che egli in questo scritto prevede uno sviluppo sociale tale che il livello generale delle conoscenze diventa una forza produttiva immediata sostituendo il lavoro immediato e determinando la decadenza del tempo di lavoro come misura della ricchezza. […] Alcuni dicono, come Guy Aznar, che i fautori del reddito universale sono sognatori riformisti che finiscono per civettare con i liberisti. Anche Gorz (soprattutto quello di una decina d’anni fa) e Alain Bihr (9) sottolineano il rischio che una politica sociale limitata alla garanzia di un minimo vitale, non aggredendo l’attuale struttura occupazionale in sé, finisca con il sancire il crescente dualismo del mercato del lavoro tra pochi garantiti e la massa crescente dei sublavoratori, ribadendo il paradosso per cui alcuni lavorano, mentre altri rimangono del tutto inattivi. Sotto tale profilo, solo la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sarebbe una risposta adeguata alla flessibilità indotta dal Capitale ripartendo su basi eque e condivise il risparmio che le nuove tecnologie consentono nell’impiego di manodopera» (10)

Lavorare meno per lavorare tutti, secondo il vecchio e sempre più sbiadito slogan caro alla “sinistra” politica e sindacale? La stessa “sinistra”, detto en passant, che santifica il lavoro salariato posto a fondamento della Repubblica – capitalistica – «nata dalla Resistenza». Per mutuare Marx, si può essere nemici del regime democratico («costituzionale») senza essere per questo amici del fascismo («dell’assolutismo»).

Per come la vedo io, prescindendo dalla prospettiva della lotta dei lavoratori (comunque “declinati”: fordisti, postfordisti, manuali, cognitivi, a tempo determinato, precari, ecc.), dei disoccupati e dei nullatenenti in genere per strappare, qui e ora, migliori condizioni di lavoro e di esistenza fuori e contro la logica delle compatibilità economiche (sia nella sfera “privata” sia nella sfera “pubblica”); e al di là di un’autentica concezione anticapitalistica in grado di affermare nella società la possibilità/necessità della Comunità che non conosce né capitale, né Stato, né classi sociali; se si prescinde da questa prospettiva tutte le rivendicazioni di carattere economicosociali finiscono puntualmente e necessariamente per aderire alle mutevoli esigenze del dominio capitalistico. Personalmente approccio il tema delle rivendicazioni economico-sociali da questa prospettiva, la sola che, sempre a mio sindacabile avviso, aiuta a non fare di qualsivoglia rivendicazione un feticcio “rivoluzionario”.

La giustificazione teorica (economica) del reddito di cittadinanza, rivendicato anche da Mason, si base sulla leggenda metropolitana secondo cui il Capitalismo cognitivo ha reso produttivo di plusvalore praticamente qualsiasi attività, anche ludica, svolta sul Web, e in questo senso i cognitivisti parlano di superamento della marxiana legge del valore. Nella misura in cui ogni cittadino “connesso” genera valore e plusvalore digitando al computer, semplicemente (in realtà ogni azione sul Web mette in moto una massa più o meno grande di interazioni economiche di un qualche tipo: si tratta poi di verificarne la natura), è chiaro che egli ha diritto a una forma di salario sociale (11).



È sufficiente respirare sul Web per averne diritto, perché ogni algoritmo sollecitato digitando su una tastiera “secerne” valore. Ma chi dovrebbe pagare questa sorta di salario sociale? Lo Stato, che diamine! Come fa lo Stato a finanziare questa spesa? Anche qui la risposta appare quasi scontata: attingendo dalla fiscalità generale. Com’è noto, nessun pasto è gratuito. Ma così facendo lo Stato non distrugge una parte della ricchezza sociale prodotta? Pazienza! Donald Gillies, della University College London, che condivide la prospettiva proposta da Mason, lo dice senza peli sulla lingua:
«Chiaramente nessuno nel settore privato pagherà i lavoratori della conoscenza, a causa della difficoltà di produrre beni digitali sotto il capitalismo. Ne consegue, pertanto, che essi devono essere pagati dallo Stato. Così il socialismo di rete si basa su colletti bianchi in contrasto con precedenti forme di socialismo, che si basavano sui lavoratori manuali» (12)
Tra l’altro qui si rende palese la risibile concezione, già a suo tempo bastonata da Marx (vedi i metaforici glutei di Lassalle e dei lassalliani), che individua il Socialismo nel Capitalismo di Stato. Chiama «Socialismo di rete» il Capitalismo di Stato “cognitivo”, e il gioco è fatto! Questo ridicolo gioco di prestigio getta peraltro luce sul benicomunismo agognato da non pochi cognitivisti: attraverso una terminologia “postmoderna” costoro riciclano concetti stravecchi che puzzano di statalismo a chilometri di distanza. L’ingenuità, diciamo così, di Gilles:
«Il socialismo burocratico dà ai governi molto più controllo. Si nominano i top manager dalla gerarchia burocratica e attraverso di loro possono avere voce in capitolo su ciò che accade all’interno dell’organizzazione. Con il socialismo di rete le cose sono diverse. Il governo deve pagare un gruppo di lavoratori, assegnare loro un compito e poi lasciarli andare avanti senza interferenze. Tale approccio libertario non è molto attraente per i governi, com’è chiaramente dimostrato dall’esempio della ricerca scientifica (e non solo) che è già finanziata dallo stato». 
E tuttavia alla fine i governi sono costretti a prendere atto che nel nuovo contesto tecnologico solo in regime di «socialismo di rete»  la produzione di beni digitali è economicamente sostenibile. Insomma, il «Socialismo di rete» è inevitabile ed è imminente: gli statalisti possono esultare!

Come ho scritto altrove, il General Intellect è in radice l’intelligenza del Capitale. È vero che, come scrive Marx, «Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma» (Grundrisse), ma esso può farlo perché «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» (Il Capitale, I). Lo sviluppo capitalistico promuove sempre di nuovo l’espansione del «cervello sociale» (scuola, università, agenzie formative, pubbliche e private, di vario genere, relazioni sociali mediate tecnologicamente e via di seguito), e questo a sua volta accresce direttamente e indirettamente la potenza sociale del Capitale, il quale sa come mettere a profitto lo sviluppo complessivo della sua società. Solo il rovesciamento rivoluzionario del Dominio può rendere possibile il pieno dispiegamento delle tendenze emancipatrici di cui è gravida, e non da oggi, la società capitalistica.



Scrive Slavoj Žižek:
«Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’”intelletto generale”, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’”intelletto generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. Negri ha ragione su questo punto» (13). 
Ora, chiunque abbia una seppur minima dimestichezza con gli scritti “economici” marxiani sa bene come il critico di Treviri non solo non ha mai mancato di mettere in luce la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminentemente sociale e mondiale perché sociale e mondiale è la dimensione del Capitale, già nella sua genesi storica e nel suo stesso concetto – come Marx non smette di ricordare praticamente in ogni pagina dei suoi scritti “economici”.

Nelle pagine che precedono il Frammento, Marx contrappone dialetticamente il «lavoro immediato», il «lavoro in forma immediata» peculiare del Capitalismo ai suoi albori (caratterizzato, come già accennato, dalla sussunzione solo formale del lavoro al capitale), al lavoro astrattamente sociale del Capitalismo pienamente sviluppato (caratterizzato dalla sussunzione reale del lavoro al capitale); «il lavoro dell’operaio singolo» al processo produttivo basato sui più moderni sistemi tecno-scientifici. Il moderno Moloch capitalistico schiaccia definitivamente il residuo di personalità individuale che ancora permaneva nell’operaio appena uscito fuori dalla condizione artigianale. Il passaggio dal lavoro immediato a quello sociale corrisponde al passaggio dal vecchio «mezzo di lavoro» (o «strumento») al sistema automatico di macchine:   
«La macchina non si presenta sotto nessun rispetto come mezzo di lavoro dell’operaio singolo. […] A differenza dello strumento, che l’operaio anima – come un organo – della propria abilità e attività, e il cui maneggio dipende perciò dalla sua virtuosità, la macchina, che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima nelle leggi meccaniche in essa operanti» (14). 
Il lavoro del singolo operaio diventa un «semplice accessorio vivente della macchina».






Note

(1) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 136,Newton, 1976.
(2) Anche il celebre filosofo Jürgen Habermas mostra di brancolare nella notte capitalistica: «Con l’avvento della ricerca industriale su larga scala, la scienza, la tecnologia, e l’uso industriale sono state fuse in un sistema. [...] Così la tecnologia e la scienza diventano un’importante forza produttiva, rendendo non operative le condizioni per la teoria del lavoro di Marx. Non ha più senso calcolare la quantità di investimenti di capitale nella ricerca e nello sviluppo sulla base di forza lavoro non qualificata (semplice), quando il progresso tecno-scientifico è diventato una fonte indipendente di plusvalore, in rapporto alla quale la sola fonte di plusvalore considerata da Marx, ossia la forza lavoro dei produttori immediati, svolge soltanto un ruolo sempre minore» (Technology and Science as ‘Ideology, Toward a Rational Society, 1970). Qui siamo in piena orgia feticistica, altroché!
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 405.
(4) P. Mason, Postcapitalismo, p. 168. Ecco invece i passi marxiani: «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (Lineamenti, II, p. 403).
(5) Ibidem, p. 172.
(6) Scriveva già nel 1991 il sociologo Peter L. Berger, apologeta del sistema capitalista: «Il capitalismo ha prodotto il proprio antagonista non sotto forma di proletariato industriale (Marx) ma piuttosto come classe di operatori della conoscenza, sempre più richiesti in un’epoca di alta tecnologia e di costante riduzione di forza lavoro dedita alla produzione intensiva» (La rivoluzione capitalistica, p. 37, Sugarco, 1991).
(7) C. Formenti, Lavorare senza saperlo: il capolavoro del capitale, Sinistrainrete, maggio 2016. Nel suo interessante libro Utopie letali (Jaca Book, 2013) Carlo Formenti prende di mira le «utopie “di sinistra”», le quali secondo l’autore «hanno poco a che fare con l’utopia comunista che ancora spaventa il capitale» (p. 7). Tesi che mi sento di condividere pienamente. Di particolare interesse ho trovato la critica che Formenti rivolge ai teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo, Antonio Negri in testa, i quali «hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers» e «in particolare sostengono che oggi il general intellect non si oggettiva nel lavoro morto, cioè nel sistema delle macchine, bensì nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”. Per questo motivo, aggiungono, il lavoro vivo, pur dipendendo tuttora dall’impresa capitalistica nella sua attuale forma di rete, sarebbe in grado di auto-organizzarsi indipendentemente dal comando capitalistico […] Queste tesi esprimono un’incredibile sottovalutazione della capacità del nuovo sistema di macchine di sovra determinare non solo l’organizzazione, ma anche la stessa antropologia del lavoro» (p. 81). Non condivido invece l’impostazione politica generale che orienta l’analisi critica di Formenti: «Le periodizzazioni sono sempre opinabili, ma resta un dato storico inconfutabile: a partire dai primi anni Ottanta, il filo rosso che corre dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, proseguendo nel secondo dopoguerra con le lotte operaie in Occidente e con le guerre di liberazione in Asia, Africa e America Latina, si spezza definitivamente. La caduta del Muro di Berlino non ha fatto altro che calare il sipario su una tragedia che si era consumata da tempo» (p. 151). In questo caso la periodizzazione più che opinabile mi sembra del tutto infondata. Il filo rosso di cui parla Formenti si spezzò non «a partire dai primi anni Ottanta» del secolo scorso, in concomitanza con l’ascesa del thatcherismo, del reaganismo e – su una scala assai più modesta, diciamo casalinga – del craxismo, ma appunto con il trionfo dello stalinismo alla fine degli anni Venti.
(8) Vedi, ad esempio, Le superstizioni comunarde di Toni Negri, Quel che resta di Toni Negri, La valorizzazione capitalistica ai tempi di Toni Negri, dal quale cito i pochi passi che seguono: «Il capitale non si limitata a “catturare” le relazioni sociali, ma piuttosto le riproduce sempre di nuovo e a tutti i livelli, in ogni luogo dello spazio esistenziale degli individui. Come ho scritto altrove, il capitale non arriva dall’esterno per appropriarsi “il comune”, ma lo produce a sua immagine e somiglianza, e quindi gravido di profittevoli opportunità come di contraddizioni d’ogni sorta: economiche, politiche, sociali, esistenziali e via discorrendo. Il general intellect è l’intelligenza del capitale. So bene che questa tesi è poco appetibile in certi settori professionali (ad esempio presso il cosiddetto “proletariato cognitivo”), ma chi “vuole fare” la rivoluzione non deve necessariamente sentirsi al centro del Sistema, né, potenzialmente – e “dialetticamente” –, già oltre. “La lettura operaista del Capitale”, per dirla con Toni Negri, dagli anni ’60 in poi si materializza nello sforzo teso a dare sostanza oggettiva (economica) ai “soggetti sociali” individuati di volta in volta come i “nuovi soggetti rivoluzionari”. Per rimanere in qualche modo fedele alla marxiana teoria della rivoluzione sociale (ma in una sua interpretazione un po’ troppo economicista e determinista), l’operaismo ha visto (ha voluto vedere) sgorgare il vitale, e quindi dialetticamente mortale, plusvalore un po’ dappertutto: nelle metropoli, negli uffici, nei centri di formazione, nelle relazioni sociali genericamente intese e via di seguito. Questo vizio d’origine è radicato, a mio avviso, in un’inadeguata critica del “comunismo” italiano (il PCI e la CGIL, da Togliatti a Berlinguer, da Di Vittorio a Luciano Lama), la cui essenza anticomunista (borghese) non è mai stata ben compresa dai teorici dell’operaismo, i quali infatti si sono sempre sentiti interni a quella storia, sebbene “criticamente”». Sul «Capitalismo cognitivo» e sulla crisi economica del 2007-2008 rinvio invece a Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Su quello che definisco l’eterno proudhonismo invito alla lettura di Cripto-moneta del comune e “acciarpature monetarie”, e di molti altri post dedicati al tema.
(9) Scriveva Alain Bihr nel 1992: «È da (ri)lanciarsi la lotta per l’istituzione di un reddito sociale garantito. Esso dovrebbe essere assicurato a ciascun individuo in controparte di una sua partecipazione al processo sociale di produzione» (L’avvenire di un passato. L’estrema destra in Europa, p. 222, Jaca Book, 1997). Anche qui il «reddito sociale garantito» è fondato economicamente: il lavoro vivo e la sua retribuzione stanno diventando esterni al meccanismo di accumulazione come lo aveva concepito e criticato Marx.
(10) I. Nobile, Oltre il lavoro salariato, Crisi e conflitti, 2006.
(11) «Il reddito di base, oggi, è cosa buona e giusta. Le ragioni di tale affermazione prendono spunto dalle forme della composizione sociale del lavoro e dalle modalità di accumulazione e valorizzazione oggi dominanti. Quando le trasformazioni tecnologiche e organizzative favoriscono il diffondersi di produzioni sempre più immateriali con un elevato grado di non misurabilità, quando si mettono a valore tutta una serie di attività che sono legate ai processi d’apprendimento, alla riproduzione sociale e alle reti di relazione, allora si pone il problema della “misura”. Il tema della misura è legato al calcolo della produttività del lavoro. A differenza del passato, dove tale calcolo era possibile perché dipendente da un’attività lavorativa che poteva essere misurata in ore di lavoro e da una quantità di produzione altrettanto misurabile su base individuale, oggi la produttività ha cambiato forma: essa tende a dipendere in misura crescente dallo sfruttamento di nuove forme di economie di scala, le econome di apprendimento e di rete (learning e network economies). […] Se la conoscenza non si diffonde tramite processi relazionali non diviene economicamente produttiva, non rompe i recinti individuali. Solo se sviluppa cooperazione sociale e general intellect diventa produttiva». (A. Fumagalli, Reddito, sovversione e libertà, Sinistrainrete). No: solo se si scambia con capitale; si tratta poi di vedere la natura di questa produttività (primaria o secondaria, produttiva di plusvalore o di profitto).
(12) D. Gillies, Il Postcapitalismo di Paul Mason, real-world economics review, n.73/2015.
(13) S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
(14) K. Marx, Lineamenti p. 390.








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