uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

giovedì 27 luglio 2017

Robert Wyatt. Il comunista







 “Ho pensato che i macchinisti di treno vanno in pensione a 65 anni. Lo farò anch’io. Cinquant’anni passati al posto di guida non sono una cosa da poco e in questo momento a essere onesto sono più interessato alla politica che alla musica”








Musicista e  comunista. Una delle presenze più penetranti e schive della musica contemporanea. Artista geniale, radicale, impegnato: questo è Robert Wyatt. Batterista patafisico, cantante con una voce unica e commovente, tastierista, compositore di brani immortali e percussionista dalle densissime stratificazioni ritmiche. 

Un uomo che ha incrociato, collaborato e soprattutto stretto amicizia con i migliori talenti della sua epoca: da Jimi Hendrix a Brian Eno da Frank Zappa a Syd Barret a Daevid Allen (l'incomparabile gnomo magico fondatore dei Gong), amico e maestro degli albori. Un musicista che ha contribuito enormemente, dai primi anni settanta con i Soft Machine e i Matching Mole, alla nascita  della superba, multiforme e complessa "scena di Canterbury" e allo sviluppo del progressive rock.   


 Srive Scaruffi

“Robert Wyatt ha prodotto una delle più toccanti musiche di tutti i tempi e almeno uno dei capolavori del secolo”.  e ancora: “Moon in June rimarrà probabilmente nel canone della musica occidentale anche dopo la scomparsa della musica Rock”


Oltre a tutto ciò, quest' uomo dalla delicata e complessa sensibilità, naturalmente portato all'amicizia quanto all'impegno sociale, radicalmente e inevitabilmente sovversivo, ha scritto e interpretato, sempre con originalità, un repertorio di canzoni politiche  che testimoniano il suo impegno militante e concreto: contro l'apartheid        in Sudafrica, contro la guerra nelle Falkland, contro l'invasione americana di Grenada,  contro l'invasione sudafricana della Namibia. Si è impegnato a favore dei minatori in sciopero contro il governo della Thatcher

E’ stato per un decennio membro del Partito Comunista di Gran Bretagna e ha intrecciato una fitta corrispondenza con prigionieri politici di tutto il mondo. 

Vittima di un incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle dal lontano  1973, condivide con un altro genio della musica inglese, Syd Barret, il triste destino di essere stato estromesso dalla band che aveva contribuito a creare.







Valerio D'onofrio




Per raccontare la variegata storia di Robert Wyatt servirebbe un libro di diverse centinaia di pagine. Qui, invece, vogliamo approfondire un aspetto della sua vita poco conosciuto, che ha a che fare con la musica solo in modo marginale, e cercheremo di farlo soprattutto attraverso le interviste che ha rilasciato nel corso degli anni, lasciando trapelare di volta in volta piccole parti delle sue idee, del suo modo di pensare e di porsi di fronte alla politica.
 

Bisogna anzitutto premettere che Wyatt non è mai stato un “politico” nel senso stretto del termine, non ha mai visto la politica come un lavoro; è stato semplicemente un'artista che, in una ristretta fase della sua vita, ha percepito con estrema urgenza la necessità di impegnarsi contro il razzismo, l’imperialismo occidentale, il capitalismo dilagante e in generale contro le enormi ingiustizie e diseguaglianze sociali. Per questo motivo si iscrive al Partito Comunista inglese - non come dirigente o come personaggio di spicco - bensì da semplice militante che amava parlare, scambiare opinioni, approfondire argomenti con altri iscritti al partito. Ma soprattutto per lui la politica è un potenziale strumento per difendere i più deboli, una missione ideale fatta senza mai pensare, neanche per un attimo, ai propri interessi personali.






La passione di Wyatt per la politica nasce tardi ed è una conseguenza di vari eventi che fanno crescere in lui una fortissima insofferenza verso tutti i generi di ingiustizia, soprattutto se rivolta verso gli strati più deboli e indifesi della società. I suoi genitori si occupavano di politica in modo superficiale ma avevano le loro idee: 

“Erano due liberal immagino, mi avvertivano sempre di lavarmi le mani dopo aver toccato una copia del Daily Express. Per loro il Welfare State rappresentava tutto il senso del secolo scorso, tutto quello per cui era valso la pena combattere nel Novecento”.

Nella sua giovinezza Robert pensa soprattutto alla musica, ma la sua formazione esula da quella di un musicista rock; la sua vera passione è il jazz, la musica dei neri americani. Ecco cosa dice in un’intervista del 1988:

“La musica che prima di tutti mi ha ispirato è stato il jazz e i suoni ad esso imparentati. Oggi si parla tanto di world music, ma secondo me il jazz era già world music. La musica popolare occidentale è stata completamente trasformata dall’apporto dei neri americani, cioè gli afro-americani. All’inizio, sebbene non mi interessassi di politica, non mi capacitavo della disparità tra l’immensa ispirazione che traevo dalla meravigliosa cultura nero-americana e le condizioni delle persone di colore nel mondo che mi circondava. Non riuscivo a capirne il senso e così assunsi un atteggiamento protettivo. E quando cominci a difendere una musica, va a finire che prendi le parti di chi la fa. Perciò se la gente che nella vita ti ha dato più piacere di chiunque altro viene trattata come un problema e senti sempre qualcuno che dice che bisogna ridurne il numero, bè... ti arrabbi. Non perché sei buono o gentile, ma perché difendi ciò che ami”.






Il giovane Wyatt comincia quindi con un semplice senso di protezione verso i musicisti che ama, discriminati per motivi razziali. Ma è solo un sentimento iniziale; Wyatt non pensa affatto alla politica, abbandona addirittura la scuola prima del diploma perché, dice lui stesso: “Ero troppo impegnato a vivere”. La sua vita è pienissima, suona con i Wilde Flowers, registra i primi quattro album dei Soft Machine, due con i Matching Mole e uno solista, partecipa a vari altri album tra i quali i solisti di Syd Barrett, suona dal vivo svariate volte con i Pink Floyd che insieme ai Soft Machine erano le band britanniche più famose della scena psichedelica di quegli anni. Partecipa al tour americano di Jimi Hendrix suonando insieme ai Soft Machine come gruppo di supporto. Finito il tour resta ospite di Hendrix in America, dove conosce, tra gli altri, Frank Zappa, al quale resta legato da un ottimo rapporto.

Nel 1972 pubblica il primo album in cui fa trapelare le sue idee politiche; lo splendido secondo album dei Matching Mole, la piccola registrazione rossa, “Little Red Record”. L’album - dalla copertina chiaramente ideologica - vede i quattro musicisti impegnati nella difesa di Taiwan. “Little Red Record” è un disco emblematico, che segna il superamento del periodo d’oro degli anni 60 e degli ideali della Summer of Love, che si sono scontrati contro un muro che appare indistruttibile, se non con cambiamenti radicali di mezzi e proposte. Il passo è breve ma segna il superamento di un’epoca: si passa dai fiori californiani a Robert Wyatt che imbraccia un mitra.




Gli eventi si susseguono e l’episodio più tragico della vita del musicista inglese avviene il primo giugno del 1973. Wyatt cade da una finestra del quarto piano, ma miracolosamente sopravvive e resta paraplegico: non potrà mai più suonare la sua batteria. Questo non può che portare grandi cambiamenti nella sua vita. 

Inizialmente sembra ovvia la scelta di abbandonare la musica, ma poi con l’aiuto della compagna Alfie e di vari amici, tra cui Nick Mason, decide di continuare e pubblica il suo capolavoro, Rock Bottom; ma purtroppo il destino ha in serbo per lui un secondo trauma. L’album - che nell’ambiente di Canterbury è reputato un capolavoro (oggi è considerato uno dei più importanti della storia del rock) - è seguito dalla pubblicazione di un singolo, la cover di un brano dei Monkees, “I’m A Believer”. Il successo è tale che Robert viene invitato a Top of Pops (1974). Ecco come lui stesso racconta gli eventi:

 “Andai a Top of the Pops e c’era quel balordo (il produttore Robin Nash) che mi disse: ‘Le dispiacerebbe sedersi su un’altra sedia? Non sta bene mostrare una sedie a rotelle in uno spettacolo d’intrattenimento per famiglie’. Mi venne una rabbia! Mi pareva di perdere il controllo della mia vita. Rimasi atterrito da Top of the pops, dal mondo dei 45 giri, da quell’industria. Ero sopravvissuto senza classifiche fino ad allora e, fin tanto che avessi avuto i soldi per un buon tè e per le mie sigarette avrei potuto continuare a vivere felice”.

Dopo questa assurda esperienza i suoi amici organizzano un concerto in suo onore diffondendo manifesti dove sono tutti fotografati in sedia a rotelle per solidarietà (tra loro, vedete Mike Oldfield e Nick Mason).
 






Questo episodio fa rinascere in lui una forte avversione verso ogni tipo di discriminazione. Pochi mesi dopo un altro evento decisivo, la morte del suo migliore amico; il grande trombettista Mongezi Feza. Un evento che desta molti sospetti: è effettivamente molto strano pensare come un giovane di trent’anni che ha sempre goduto di buona salute sia potuto morire in un ospedale britannico senza che nessun medico si accorgesse delle sue gravi condizioni.

Ecco cosa ci dice Wyatt:

“La morte di Mongezi mi colpì molto drammaticamente. Il motivo reale della tragedia va ricercato nel fatto che era venuto in Inghilterra per sfuggire alla tirannia del razzismo e vi aveva invece trovato la madre e il padre dell’apartheid. Credeva di scappare dagli orrori del Sudafrica e venne a vivere in quello che continuiamo a chiamare ‘mondo libero’. In Inghilterra, anche se non esiste un razzismo ufficiale, è molto difficile adattarsi, se non si è bianchi. Nel suo caso, dovette rivolgersi a un ospedale psichiatrico, dove gli venne diagnosticata una forma di schizofrenia e dove morì inaspettatamente di polmonite doppia. È un fatto inaudito: la morte per polmonite doppia di una persona giovane che già si trova in ospedale è tutt’altro che inevitabile. Qualcosa mi dice che se fosse stato il principe Carlo non sarebbe morto; o anche, semplicemente, se fosse stato bianco. Credo che da ciò il mio processo di politicizzazione abbia ricevuto una forte spinta”.

Siamo nel 1975, Wyatt comincia a cambiare totalmente il suo modo di pensare:

 “A partire dalla metà degli anni 70, mi sentii molto confuso. La mia musica mi pareva totalmente inadeguata. Trovavo immensamente presuntuosa e ridicola l’idea della generazione degli anni 60 che si potesse migliorare il mondo con le sole canzoni di protesta. Cominciai a interessarmi maggiormente alla seria attività rivoluzionaria, cioè quella tesa al rovesciamento del potere”.

Wyatt decide di riprendere e completare gli studi che aveva interrotto da giovanissimo, sono anni in cui la sua attività musicale si fa molto più sporadica: dal 1975 al 1982 non pubblica più alcun album solista.

“In quegli anni ero molto più interessato a leggere, studiare e guardare in tv quelle bellissime lezioni universitarie di alcuni professori di storia, letteratura o filosofia. Ritenevo che farlo fosse molto più utile di suonare”.



 
Nel 1979 Wyatt decide quindi di iscriversi al Partito Comunista inglese.

“La gente mi diceva: ‘Come è possibile partecipare a un partito che ha le stesse probabilità di sopravvivenza di un cubetto di ghiaccio in un forno?’ Io rispondevo: ‘Se sei stato un fan del free jazz e andavi ai concerti free jazz, dove il pubblico era regolarmente in numero inferiore ai componenti del gruppo, anche quando era costituito da sole tre persone, allora puoi anche pensare di unirti al Partito Comunista’”.

La verità è che Wyatt si iscrive al Partito Comunista come una sorta di extraterrestre, la sua visione ideale è talmente estrema da essere incompresa persino in quel partito. I suoi pensieri principali sono rivolti alla lotta al razzismo e alle politiche liberiste e colonialiste degli Stati Uniti, ma è in particolare l’apartheid sudafricana a occupare gran parte dei suoi pensieri. 

Wyatt nutre grande stima dei veri combattenti rivoluzionari, come ad esempio i leader Sudafricani Joe Slovo e Nelson Mandela, ascolta con assiduità la radio appassionandosi ai vari problemi del terzo mondo. È ormai convinto che la carica rivoluzionaria del rock degli anni Sessanta abbia perso ogni credibilità.


 




Wyatt non sarà mai una figura di spicco del partito, la sua natura schiva, introversa glielo impedisce. Dobbiamo immaginarcelo come un semplice attivista che preferisce la compagnia di un operaio che legge i libri di Marx nel tempo libero, piuttosto che di un leader del partito. In ogni caso, si dedica con particolare attenzione ai problemi del Terzo Mondo e in particolare del Sudafrica, ha una fitta corrispondenza con prigionieri politici sparsi in tutto il mondo, organizza e partecipa a convegni, tra i quali Art against Racism and Fascism, oltre che a varie manifestazioni e dibattiti in difesa dell’African National Congress

Wyatt devolve gli utili di due Ep del 1984 ai minatori in sciopero contro il governo Thatcher e continua a farlo a ogni successiva tiratura, si occupa con grande passione della sanguinosa guerra del Guatemala, finanziata dagli Stati Uniti, della difesa della Namibia.

Vede nell’Occidente ricco e prosperoso la causa principale del razzismo e della povertà dei paesi meno sviluppati:

“Credo che l’Inghilterra sia particolarmente colpevole di quelle che succede in Sudafrica, cosi come lo sono i francesi nella parte orientale dell’Africa e il fatto che ora ci sono molti africani che vivono a Londra ci aiuta a parlare con questa gente e questa è un’occasione culturale importante”.

 Dell’America dice:

“Io penso che se non fosse per il jazz, sarebbe stato meglio che l’America non fosse mai esistita. Ma poiché il jazz è esistito, personalmente gliene sono grato”.
 



Le sue iniziative sono innumerevoli, a volte come protagonista, a volte come semplice attivista: a Wyatt non sono mai interessate le luci della ribalta, così è possibile vederlo in foto in cui vende per le strade il giornale del suo partito, il Morning Star.

Negli anni Ottanta il musicista inglese pubblica, in formato 45 giri, varie reinterpretazioni di vecchie canzoni politiche che poi raccoglierà nell’album “Nothing Can Stop Us”. Tra i brani, c’è anche “Arauco”, canzone folk della songwriter cilena Violeta Parra, grido di disperazione dei capi indiani contro il colonialismo dei cristiani che, dice Wyatt, “prosegue da quattrocento anni”




“Red Flag” è un traditional irlandese, divenuta successivamente inno dei partiti laburisti. “Strange Fruit” è un grande classico degli anni 30, nonché una delle prime canzoni in cui si parlasse apertamente del razzismo in America. “Caimanera” è una versione della cubana “Guantanamera”, dedicata ai cubani che hanno deciso di restare a Cuba in contrapposizione ai politici inglesi e americani che elogiavano chi espatriava negli Stati Uniti. “Stalin Wasn’t Stallin” è il brano più ideologico; un elogio del regime sovietico, la reinterpretazione di un brano del 1943 scritto da un autore che è ancor oggi sconosciuto, o perlomeno quello che si crede essere l’autore, Bill Johnson, nega di esserlo:

“Mi aveva divertito molto sapere che c’era questa canzone di cui non si riusciva a scoprire l’autore, perché lui stesso non osava confessarlo, neppure per riscuotere le proprie percentuali”.

Il testo è uno sperticato elogio di Stalin, descritto come un grande orso che agguanta e uccide la bestia di Berlino, vale a dire ovviamente Adolf Hitler, sorta di essere demoniaco partorito dal diavolo in persona. “Shipbuilding” è un brano contro la guerra delle Falkland, composto per Wyatt da Elvis Costello. “Trade Unions” è un inno sindacale suonato per convincere gli operai inglesi a iscriversi al sindacato. “Born Again Cretin”, unico brano del lotto scritto da Wyatt stesso, suona come una rivendicazione della sua libertà di parola. 

Ma Wyatt sa benissimo che il suo diritto di espressione è solo una faccia della medaglia del capitalismo: lui può parlare ma Mandela marcisce in carcere; mentre il titolo ironizza sui “Born Again” americani, i rinati in Cristo, che rappresentano una faccia ambigua e inquietante di una società ormai allo sbando, che non ha niente in cui credere ed è quindi capace di credere a qualunque cosa.




Se esaminiamo questi anni e i suoi brani politici, Wyatt appare come un marxista ottimista che ha la vera speranza di cambiare la società. Questa, però, col tempo è destinata a svanire. A un certo punto il musicista inglese acquista la consapevolezza che le sue idee siano destinate a scontrarsi con la dura realtà. Wyatt è un'idealista che crede fermamente in tutto quello che fa, ma il mondo intorno a lui sta cambiando; soprattutto stanno cambiando le persone che gli stanno intorno. Una nuova generazione di giovani si sta facendo strada; siamo alla fine degli anni Ottanta e un personaggio come Wyatt sta diventando un vecchio arnese di cui disfarsi. Nel 1987, così, il musicista inglese esce dal partito:

“Me ne sono andato dal Partito Comunista perché era ormai diventato solo un trampolino di lancio per sapientoni da tribune televisive o giornalistiche. Non vedo più alcuna differenza tra le posizioni del partito comunista-marxista e quelle dei socialdemocratici. Quando entrai nel partito, alla fine degli anni Settanta, le persone che mi piacevano davvero erano spesso i vecchi e gloriosi antifascisti che si erano iscritti negli anni Trenta e ne avevano viste tante. C’era un idraulico che, malgrado l’opportunità di fare carriera, aveva preferito rimanere un militante di base e viveva fino in fondo i propri ideali. Andavamo ai mercatini del Morning Star e mi innamorai perdutamente delle persone che li frequentavano. Ma poi rimasi deluso, quando arrivò un bel po’ di gente molto più alla moda, quelli della generazione post-Beatles; se ne stavano lì a fare battute sarcastiche sui vecchi che ascoltavano Paul Robeson (cantante e attivista civile americano). Non mi piaceva affatto quella gente! Mi trattavano con apparente simpatia, ma in realtà non avevano niente in comune con me: ‘Oh, abbiamo un musicista, un fiore all’occhiello per la nostra immagine!’. Non mi interessava unirmi allo scherno della destra verso i vecchi comunisti”.





Manca poco al crollo del comunismo, ma le idee di Wyatt non cambiano.

“Molti di noi sono diventati bird-watcher, ma io non sono cambiato affatto. Morirò col marchio marxista-leninista impresso sulla mia spina dorsale. Non si tratta di quel che faccio o dico: è come il mondo mi appare, non mi aspetto che le altre persone mi seguano, ma io non abiurerò mai. Non vedo ancora alcuna altra seria analisi del mondo, per me l’abbandono del Marxismo sarebbe come se i creazionisti seguissero Darwin. Sono molto grato al Marxismo, lo considero inestimabile nella lotta contro l’apartheid. E penso che Joe Slovo (leader del partito comunista sudafricano), sia stato un vero gigante tra gli uomini, un comunista di successo che ha saputo guardare la realtà”.





La storia politica di Robert Wyatt, dunque, resterà sempre segnata dalla sincerità e dalla fortissima autonomia, le stesse caratteristiche che hanno contraddistinto la sua carriera musicale. Wyatt non è mai stato interessato a fare cose che avessero un seguito, non ha mai cercato proseliti, sia nella musica che nella politica, ha sempre fatto quello che riteneva giusto fare, il senso di competizione che esiste tra i musicisti non ha mai fatto parte della sua mentalità.

Chiudiamo con un passaggio da un’intervista che descrive perfettamente la personalità di Wyatt e che dovrebbe essere d’insegnamento a tanti giovani musicisti:

“Non ho mai sopportato la divisione tra successo e fallimento di cui parla l’industria pop, per loro un disco è un successo o un completo fallimento. Il mondo della cultura da cui vengo, che ho nella mia testa, non ha niente a che fare con tutto questo. Si tratta solo di persone che fanno il loro lavoro giorno per giorno. Invece ho visto musicisti andare nel panico per avere venduto meno copie di un loro collega. Tutto questo non mi riguarda. Non significa nulla per me l’avere molto, la ricchezza, il grande profitto. Voglio solo avere abbastanza soldi per vivere e stare con i miei amici. Se una persona compra un mio disco, è molto gentile da parte sua e gliene sono molto grato. Se a una persona piace ciò che faccio, questo è meraviglioso. Altrimenti vuol dire che ascolterà qualcos’altro”.




  














sabato 15 luglio 2017

Usa e getta. Le follie del'obsolescenza programmata






 



Curiosità che svelano, alla luce di una semplice lampadina, il senso e il moto di una legge implacabile.


Dice il Saggio








Nel film Prêt à jeter, di Cosima Dannoritzer, si vede un ragazzo alle prese con una stampante che non ne vuole sapere più di funzionare. Il tipo si rivolge a un centro assistenza autorizzato, dove gli rispondono che il costo della stampante nuova è praticamente lo stesso della riparazione. Il ragazzo è testardo: cerca in rete e scopre che il problema sta in un chip “messo appositamente nella macchina per farla bloccare dopo 18.000 copie”. Il ragazzo trova un software distribuito gratuitamente sul web da un internauta russo, che annulla il contacopie della stampante e la fa ripartire. 

È esattamente quello che è successo a me. Ed è un episodio analogo a un altro che mi è capitato di recente. Vado dall’elettrauto e gli domando: “Scusi, ma perché la prima automobile che ho posseduto non ha mai avuto bisogno che le cambiassi la batteria? Mi bastava rabboccare la stessa con l’acqua distillata…”. E lui: “Signore, ha visto che adesso le batterie, nell’alloggio dell’acqua distillata, sono tutte sigillate? Si è mai domandato perché?”. Ecco. Questi due episodi sono esemplificativi di cosa sia l’obsolescenza programmata, ossia l’accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, argomento centrale di questo libro snello ma densissimo e formidabile di Serge Latouche, guru della decrescita e tra i massimi sostenitori al mondo della necessità di invertire la continua sbornia di consumi che andiamo facendo da oltre un secolo a questa parte.


Insieme al credito al consumo e alla pubblicità, l’obsolescenza programmata è la base del consumo forsennato: “la pubblicità crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi, l’obsolescenza programmata ne rinnova la necessità”. Va da sé che quella programmata non sia la sola forma di obsolescenza. È però quella più perversa. Le altre sono l’obsolescenza tecnica e l’obsolescenza psicologica

Quella tecnica per gran parte della storia dell’uomo è proceduta con lentezza millenaria. La si può esemplificare nel passaggio dalla diligenza alla locomotiva. Quella psicologica è la quintessenza di quella che Vance Packard chiamava la persuasione occulta: metto in circolazione l’iPhone5 e il tuo iPhone4, perfettamente funzionante, ti sembrerà obsoleto. 






Quella programmata, dicevo, è la più mostruosa e perversa di tutte. Giustificata dall’assunto capitalista secondo il quale l’unico modo per mantenere costante l’occupazione è quello di mantenere costante il consumo, garantendo la deperibilità degli oggetti, l’obsolescenza programmata ha mandato in pensione i concetti di durata e recupero, con le sole eccezioni dei periodi di forte recessione. 

Ecco allora che tra il 1940, quando Dupont de Nemours lancia una calza di nylon praticamente indistruttibile (ha una tale solidità, racconta Latouche, che “può fungere da cavo per rimorchiare un’automobile” e non si smaglia mai, e il 2003, anno della prima class action contro l’iPod della Apple, le cose sostanzialmente non sono mai cambiate. 

Nel caso della calza di nylon, gli ingegneri dell’azienda stessa “vennero incaricati di fragilizzare la fibra miracolosa inserendovi dei geni di mortalità”; nel secondo, l’azione legale collettiva fu sollecitata dal fatto che gli acquirenti dell’iPod si erano accorti che il loro giocattolino “aveva una batteria non riparabile programmata per durare soltanto diciotto mesi”. Pur nella difficoltà di datare con esattezza l’eclissi dell’etica del durevole a tutto vantaggio dell’obsolescenza programmata, Latouche colloca quest’inversione di rotta intorno agli anni ’30 del Novecento, mentre non ha dubbi nell’additare il paese che ne è il maggiore responsabile: gli Stati Uniti d’America





Anticipato dal fenomeno dell’adulterazione, suo strettissimo cugino che ha investito il campo dell’alimentazione, l’obsolescenza programmata è figlia legittima di qualcosa con cui liberisti e neoliberisti ci martellano la testa da decenni: la concorrenza. La concorrenza non è affatto benefica come dimostra quello che avvenne negli anni ’30, quando il modello fordista – di per sé non certo un modello di virtù, giacché era fondato sulla catena di montaggio – subì i contraccolpi della concorrenza della General Motors

Quest’ultima produceva auto molto meno affidabili, di qualità e resistenza nel tempo inferiori, ma vi aggiungeva i gadget e il colore (all’opposto, è diventata famosa la frase di Henry Ford a proposito della sua Ford T: “potete acquistarla di qualsiasi colore, purché sia nero”). Da lì in avanti, una gran parte degli oggetti che contenessero della tecnologia avrebbero dovuto osservare lo stesso diktat: ridurre il ciclo di vita del prodotto. 

Ecco allora che eventi come la festa organizzata nel 2001 in occasione del centesimo anno consecutivo di funzionamento di una lampadina a filamento di carbonio che “dal 1901 aveva illuminato ininterrottamente l’ingresso” della caserma dei pompieri di Livermore, in California, diventano una rarità assoluta e cedono il passo, per rimanere nello stesso ambito, a prodotti sempre più deperibili, a lampadine che si fulminano nel giro di qualche mese. 

È una storia che nasce ancora prima, e le cui avvisaglie iniziali si possono rintracciare nel 1872, anno in cui in America si producevano 150 milioni di colli e polsini di camicia non lavabili. La “colpa”, però, non era tutta degli americani: gran parte degli immigrati europei erano uomini scapoli che non avevano alcuna consuetudine con lavaggio e stiraggio. La storia continuava con Gillette che inventò il rasoio usa e getta, Lasker che nel 1924 lanciò i kleenex, concepiti inizialmente per esaurire le scorte di cellulosa prodotta durante la prima guerra mondiale; dieci anni più tardi arrivarono i Tampax





Tutti questi eventi costituiscono soltanto la prima delle 5 fasi che Latouche individua nella marcia trionfale dell’obsolescenza programmata. La seconda è, appunto, il cosiddetto “modello Detroit” (la città delle automobili per eccellenza), con la fine del monopolio della Ford, a cui segue l’obsolescenza programmata propriamente detta, l’avvento della data di deperimento ovvero “il trionfo del nuovo usa e getta e infine l’obsolescenza alimentare”

Rispetto a queste ultime due, vale la pena di ricordare, per quanto riguarda la seconda ondata di usa e getta, l’invenzione della Motorola, negli anni ‘50, della prima radiolina che non poteva essere riparata. Per ciò che attiene all’obsolescenza alimentare, basterebbe l’abbandono della pratica della restituzione dei vuoti e la diffusione sempre più massiccia di prodotti i cui contenitori devono essere buttati (la massima perversione, a mio avviso, è l’insalata già tagliata e venduta in busta: gli acquirenti di quei prodotti andrebbero incriminati e processati per direttissima perché sono la quintessenza del cretino, stando alla definizione di Carlo Maria Cipolla: oltre a danneggiare gli altri, l’ambiente, danneggiano anche loro stessi a causa del microclima insalubre che si crea all’interno della busta, dove proliferano batteri a gogo) per averne un qualche sentore. 

Latouche ci ricorda anche del fenomeno sempre più diffuso del dardanismo, che – al di là del nome dotto – altro non è che una forma “di distruzione su vasta scala delle derrate alimentari”.






Tutto questo non pone soltanto serissimi problemi ambientali, economici e sociali, ma anche etici. Scomparso pressoché del tutto il “capitalismo buono” (un ossimoro?), gli uomini d’affari di oggi e i loro lacchè hanno una sola ragion d’essere: trarre il massimo profitto dall’ampliamento della domanda. 

“Come la morale di Eichmann, che consisteva nell’eseguire senza discutere le istruzioni provenienti dall’organizzazione – ci ricorda Latouche – la religione del profitto è la porta spalancata su quella che Hannah Arendt chiamava la banalità del male. Ma come difendersi da tutto ciò? È chiaro che la lotta tra produttori e consumatori è impari: troppo possente la capacità di seduzione dei primi sui secondi, troppo difficile riuscire ad avviarsi verso quella “abbondanza frugale” (un altro ossimoro) che però è l’unica via di uscita a una situazione che non lascia scampo alla fine delle risorse naturali. 

L’industria dovrà dunque abbandonare progressivamente l’obsolescenza programmata incorporata nei prodotti, ma al tempo stesso sarà necessario che i consumatori comincino a transitare – come suggeriva anche Rifkin ne L’era dell’accesso – verso beni condivisi. Ma il vero punto chiave – come avevo già ricordato recensendo La religione dei consumi di Ritzer – è la decolonizzazione dell’immaginario e il reincantamento del mondo: soltanto quando ci saremo liberati dell’ideologia dell’usa e getta e dell’accumulo seriale di beni forse potremo sentirci più felici e liberi.

venerdì 7 luglio 2017

Nessuno mi sfida inpunemente. Il barile di Amontillado di Edgar Allan Poe





Signori, non ci facciamo mancare nulla! A dispetto di una realtà che ci appare ogni giorno che passa più sottilmente raccapricciante (e umiliante), ciò grazie alla epifanica teoria, ma soprattutto alla deprecabile prassi del neoliberismo (pensiero e gesto unico), imperante e pervasivo, dentro e fuori dalla nostra incoscienza, e grazie  anche alle opere della supina banda di solenni cialtroni politici multimedialici che localmente lo gestiscono qui, nel nostro bel paese (svendendolo),
 godiamoci divagando  un po' di relax, nel segno, in perfetto spirito anglosassone, di una  suprema vendetta ai danni di un italiano.

Eccovi il racconto breve più geometricamente terrificante, diabolico, tetro, indelicato, gelido,  crudele, sublime, lucido, oscuro, tagliente, umido, massonico, conciso, irredimibile, cupo, tenebroso, fosco, nitrico,  malvagio, claustrofobico, impeccabile, angoscioso, straziante. 

Colmo di tormento,  di infinita afflizione, prostrazione, orrore, cruccio.

E di pena, disperazione e perfezione... e di ciò che sempre ci piacerebbe le superasse: la bellezza.









Il barile di Amontillado



Avevo sopportato del mio meglio le mille ingiustizie di Fortunato; ma quando poi arrivò all’insulto, giurai di vendicarmi.

Tuttavia, voi che ben conoscete la natura dell’anima mia, non supporrete, certo ch’io gli abbia rivolta una sola minaccia. A lungo andare, dovevo essere vendicato; questo era definitivamente, irrevocabilmente fissato; ma la stessa perfezione della mia risoluzione escludeva qualunque idea di pericolo. Dovevo non solamente punire, ma punire impunemente. Un’ingiuria non è riparata se il castigo arriva a punire il riparatore; e non è riparata nemmeno quando il vendicatore non ha cura di farsi conoscere dall’insultante.

Bisogna sapere che a Fortunato non detti alcuna ragione di dubitare della mia benevolenza, né colle mie parole, né colle mie azioni. Continuai, come al solito, a sorridergli in faccia, e lui non indovinava che ormai il mio sorriso non traduceva che il pensiero della sua condanna.

Aveva un lato debole, quel Fortunato, benché fosse sott’ogni rispetto un uomo da rispettare, ed anche da temere. Si vantava d’essere un gran conoscitore di vini. Son pochi gli italiani veramente conoscitori; il loro entusiasmo il più delle volte è preso a prestito, accomodato al tempo e all’occasione; è una ciarlataneria per far bene coi milionari inglesi e americani. In fatto di pitture e di pietre preziose, Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano; ma, davvero, in materia di vecchi vini era sincero. Per questo riguardo non differivo troppo da lui; anch’io me n’intendevo molto di vini italiani, e ne facevo delle provviste considerevoli ogni qualvolta potevo.

Una sera, proprio nel colmo del carnevale, m’imbattei nel mio amico. Mi venne incontro con grand’espansione, perché avea bevuto assai. Era mascherato, con un vestito stretto stretto, a due colori, e con un berretto in testa, conico e circondato di campanelletti. Ero così felice di vederlo che non avrei mai finito di stringergli la mano.

Gli dissi:

– Caro il mio Fortunato, v’ho incontrato proprio a proposito. – Che bella ciera che avete oggi! – Ma ho ricevuto un barile di amontillado , o almeno d’un vino che m’è stato dato per tale, e m’è venuto qualche dubbio.

– Come!- disse lui, – dell’amontillado? un barile? Ma è impossibile! nel carnevale!…

– Già; come dico, m’è venuto qualche dubbio; – e poi, sono stato così stupido da pagar tutto il prezzo dell’amontillado senza consultarvi. Ma che cosa volete? Ho fatto di tutto per trovarvi, ma non m’è riuscito, e temevo di perdere un’occasione.

– Dell’amontillado!

– Ci ho dei dubbi.

– Dell’amontillado!

– E vorrei sincerarmene.

– Dell’amontillado!

– Se siete invitato in qualche luogo, andrò a trovar Lucchesi. Eh, lui ci ha un senso critico… Mi dirà…

– Lucchesi! Quello non è capace di distinguere l’amontillado dal xeres.

– E tuttavia ci son dei cretini che vogliono dire che il suo gusto non la cede al vostro.

– Andiamo!

– Dove?

– Alle vostre cantine.

– Ma no, mio buon amico. Non voglio abusare, davvero, della vostra bontà. Lucchesi…

– Non sono invitato in nessun luogo, andiamo!

– No, amico mio. Non è per l’affar dell’invito; ma pel gran freddo che soffrirete, a quel che vedo; le cantine sono insoffribilmente umide: son tappezzate di nitro.

– Ma che freddo! Niente! Andiamo, andiamo! Dell’amontillado! Vi devono aver ingannato. – E quanto a Lucchesi, lui non è capace di distinguere il xeres dall’amontillado.





E così dicendo Fortunato mi prese a braccetto. Io mi misi una maschera di seta nera, e mi lasciai condurre da lui fino al mio palazzo.

Non c’era nemmeno un domestico in tutta la casa; erano andati a far baldoria anche loro, a far onore al carnevale. Avevo detto loro che non sarei ritornato prima del mattino, e avevo ordinato formalmente che non si muovessero da casa. Quest’ordine era più che sufficiente, n’ero sicuro, perché se n’andassero, tutti, fin all’ultimo, appena avessi voltato le spalle.

Presi due fiaccole, ne diedi una a Fortunato, e lo diressi compiacentemente, traverso una lunga sfilata di stanze, fino al vestibolo che conduceva alle cantine. Io discesi dinanzi a lui una scala lunga e tortuosa, voltandomi di tratto in tratto, e raccomandandogli di star bene attento.

Finalmente toccammo gli ultimi gradini, e ci trovammo insieme sul suolo umido delle catacombe dei Montresors.

Il mio amico camminava un po’ barcollando e i campeneluzzi del suo berretto risuonavano ad ogni sua sbandata.

– E il barile d’amontillado? – disse

– E’ più lontano,- riposi; ma osservate, ma guardatemi questa tappezzeria bianca che scintilla sul muro.

Si voltò verso di me e mi guardò negli occhi con due globi vitrei che distillavano le lagrime dell’ebbrezza .

– Il nitro! – disse finalmente.

– Già, il nitro. – Ma è molto tempo che avete questa tosse!

– Eh ! eh! eh! – eh! eh! eh! – eh! eh! eh! – eh!

Fu impossibile al mio povero amico di rispondermi prima di qualche minuto.

– Non è niente – disse finalmente.

– Là, andiamo,- replicai con fermezza e con serietà, – andiamo, via; la vostra salute è preziosa. Siete ricco, rispettato, ammirato, amato; siete felice, come fui un tempo anch’io; siete un uomo che lascerebbe un vuoto; mentre io… Là, la, andiamo, ché potreste ammalarvi. E poi, c’è Lucchesi.

– Ma che, se non è niente, vi dico! Eh, un po’ di tosse! Non sarà mica un male da morirne. State sicuro che non morirò d’un reuma.

– E’ vero, è vero; – replicai – davvero, non avevo l’intenzione di mettervi inutilmente in apprensione; – ma,ecco, dovresti avervi maggior cura, maggiori precauzioni… Prendete un po’ di questo medoc; vi farà molto bene contro l’umidità.






Tolsi una bottiglia da una lunga fila di sue compagne che stavan lì, distese per terra, e ne spezzai il collo.

– Bevete, – gli dissi presentandogliela.

Lui ci s’attacco fissandomi colla coda dell’occhio. Fece una pausa, mi strinse assai familiarmente la mano (i campanelli tintinnarono), e disse:

– Bevo ai defunti che riposano intorno a noi

– Ed io, alla vostra lunga vita.

Mi riprese a braccetto e tirammo avanti.

– Come son grandi queste grotte! – disse

Ed io:
– I Montresors erano una gran famiglia, e numerosa.

– Non ricordo le vostre armi.

– Un gran piede d’oro in campo azzurro; il piede schiaccia un serpente che ficca i denti nel tallone.

– E il motto ?

– Nemo me impune lacessit

– Bellissimo! – disse lui.

Il vino gli scintillava negli occhi, e i campanelli tintinnavano. Il medoc mi aveva riscaldato anche me. Eravamo arrivati, attraverso a muraglie d’ossi accatastati, intramezzate da barili e fusti di vino, alle ultime profondità della catacombe. Mi fermai di nuovo, e questa volta osai di prendere Fortunato per un braccio, sotto il gomito.

– Ma guardate: il nitro aumenta. Guardate come pende delle volte. Siamo sotto il letto del fiume. Le gocce di umidità filtrano attraverso le ossa. Là, via, andiamo, prima che si faccia troppo tardi. La vostra tosse…

– Ma non è niente, – disse, – tiriamo avanti. Ma prima prima però, un altro po’ di medoc.

Ruppi il collo a un fiasco di vin di grave e glielo porsi. Lo bevve tutto d’un fiato. Gli occhi gli brillarono d’un fuoco ardente . Si mise a ridere e gettò il fiasco per aria con un gesto di cui non compresi il significato.





Lo guardai sorpreso.

Lui ripetè il movimento, – un movimento grottesco.

– Non capite – disse.

– Io no.

– Allora non siete della loggia?

– Come?

– Non siete lavoratore.

– Ah! sì! sì! – diss’io.

– Voi lavoratore! E’ impossibile!

– Ma sì, vi dico!

– Un segno.

– Eccolo, – replicai, e dalle pieghe del mio mantello trassi fuori una cazzuola.

– Volete scherzare, voi, – esclamò dando un passo addietro.- Ma vogliamo quest’amontillado.

– Allora, andiamo, – diss’io, rimettendomi quell’arnese sotto il pastrano, e offrendogli di nuovo il braccio, su cui s’appoggiò pesantemente.

Continuammo il nostro cammino in cerca dell’amontillado.

Passammo sotto una fila d’archi bassissimi; poi scendemmo; facemmo alcuni passi,e,scesi ancora, ci trovammo in una cripta profonda dove l’aria impura faceva arrossare piuttosto che brillare le nostre fiaccole.

In fondo in fondo a questa cripta se ne vedeva un’altra, meno vasta. Ne erano stati rivestiti i muri con resti umani, ammucchiati nelle grotte sopra noi, al modo delle grandi catacombe di Parigi.

Tre lati di questa seconda cripta erano ancora così decorati. Dal quarto le ossa erano state strappate e giacevano confusamente sul suolo, formando in un punto una barriera d’una certa altezza.

Nel muro, messo così a nudo per la rimozione delle ossa, si vedeva ancora un’altra nicchia, profonda circa quattro piedi, larga tre, alta sei o sette. Non pareva che fosse stata costrutta per un uso speciale, ma formava semplicemente l’intervallo fra due degli enormi pilastri che sorreggevano la volta delle catacombe e s’appoggiava ad uno dei grossi muri di granito massiccio.
Invano Fortunato alzò la sua torcia affievolita. Quella poca luce non ci permise di scorgere l’estremità della nicchia.

– Andate avanti, -diss’io, – è là l’amontillado. In quanto a Lucchesi…

– E’ un ignorante, interruppe il mio amico, precedendomi e andando a zig-zag, mentre io la seguivo da vicino. In un istante avea raggiunto l’estremità della nicchia e trovandosi bruscamente fermato dalla roccia, si fermò stupidamente attonito. Un momento dopo l’ebbi incatenato al granito.






Sulla parete c’eran due anelli di ferro, alla distanza di circa due piedi un dall’altro, in linea orizzontale. Ad uno era sospesa una corta catena, all’altra un lucchetto.

Dopo avergliela passata intorno alla vita, il fermar la catena al lucchetto fu l’affare d’un momento.

Era troppo istupidito per resistere. Levai la chiave e mi tirai indietro d’alcuni passi fuor della nicchia.

– Passate la mano sul muro,- diss’io; sentite quanto nitro? Ma è proprio umido, troppo umido! Via, lasciate che vi supplichi ancora una volta d’andarvene. – No?

– Allora bisognerà che vi lasci. Ma prima vi renderò tutti quei piccoli servigi che posso.

– L’amontillado! – escamò il mio amico non ancora del tutto rinvenuto dal suo sbalordimento.

– E’ vero, – diss’io, – l’amontillado.

E così dicendo mi misi intorno a quel gran mucchio d’ossa di cui ho parlato più sopra. le buttai da un parte, e così ebbi presto scoperto una buona quantità di pietre e di calcina. Con quei materaili, coll’aiuto della cazzuola cominciai attivamente a murare l’ingresso della nicchia.

Avevo appena terminato il primo strato della mia costruzione, che scopersi come l’ebbrezza di Fortunato si fosse in gran parte dissipata. Il primo indizio che ne ebbi fu un grido sordo, un gemito che usci dal fondo della nicchia. Non era il grido d’un uomo ubbriaco! Poi ci fu un silenzio lungo, ostinato. Collocai il secondo strato, poi il terzo, poi il quarto; allora sentii le furiose vibrazioni della catena. Il rumore durò alcuni minuti, durante i quali, per potermene meglio dilettare, interruppi il mio lavoro e mi sedetti sulle ossa. Finalmente, quando il rumore si calmò, ripresi la mia cazzuola, e terminai, senza interruzione, la quinta, la sesta e la settima fila. Il muro allora era quasi all’altezza del mio petto.

Mi fermai un’altra volta, ed innalzando le fiaccole al disopra della costruzione, gettai alcuni deboli raggi sul rinchiuso.

Dall’ugola di quella persona incatenata fece repentinamente esplosione una serie di grand’urli, di grida acute, e mi ributtò, per così dire, violentemente indietro. Per un istante esitai, – tremai. Tirai fuori la mia spada e cominciai a trinciare furiosamente dentro la nicchia; ma un istante di riflessione bastò a tranquillarmi. Tastai la muratura massiccia della grotta, e l’esame mi rassicurò completamente. Allora mi riaccostai al muro e risposi agli urli del mio uomo. Feci loro eco ed accompagnamento, – li sorpassai in volume e in forza. Ecco come feci, e lo strillone si chetò.





Era la mezzanotte, allora, e il mio lavoro era presso al termine. Avevo completato un ottavo, un nono e un decimo strato. Già avevo terminato una parte dell’undicesimo ed ultimo; non restava che una sola pietra da metterci. La rimossi e l’alzai con isforzo; e la posi a un dipresso nella sua giusta posizione. Ma allora sfuggì dalla nicchia un riso soffocato che mi fece rizzare i capelli sulla testa. A quel riso successe una voce triste che difficilmente potei riconoscere per quella del nobile Fortunato. La voce diceva:

– Ha! ha! ha! – He! he! – Un bello scherzo, davvero! – grazioso! magnifico! Che risate che ne faremo al palazzo, – he! he! – del nostro buon vino! – He ! he! he!

– Dell’amontillado, – diss’io.

– He! he! – he! he! – già, – dell’amontillado. Ma non si fa tardi ? Non ci aspetteranno al palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Andiamocene.

– Sì, – dissi, – andiamocene.

– Per l’amor di Dio, Montresors! –

– Sì, – dissi, – per l’amor di Dio!

Ma a queste parole non ci fu risposta; invano tesi l’orecchio. M’impazientai. Chiamai forte:

– Fortunato!

Niente risposta. Di nuovo fortissimo:

– Fortunato!

Niente. – Passai una torcia attraverso all’apertura che rimaneva e la lasciai cadere là dentro. In risposta non ricevetti che un tintinnare di campanelli, sordo, lontano. Mi sentii un brivido al cuore, senza dubbio a causa dell’umidità delle catacombe. M’affrettai a por fine al mio lavoro. Feci uno sforzo, e misi a posto l’ultima pietra; poi la ricoprii di calcina. Contro la nuova muratura rimisi l’antico strato d’ossa.
 Da un mezzo secolo nessuno le ha rimosse. 

In pace requiescat!














Traduzione di RODOLFO ARBIB
SOCIETA’ EDITRICE SONZOGNO IN MILANO
(1903)
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