uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

mercoledì 30 marzo 2016

Come si fabbrica un terrorista (mantenere viva la paura)

il pedante





Quando avanzi una proposta di budget per un'agenzia di pubblica sicurezza, un'agenzia di intelligence, non chiedi i soldi dicendo "Abbiamo vinto la guerra al terrore e tutto va bene", perché per prima cosa ti dimezzerebbero il budget. Hai presente il motto di Jesse Jackson, "Mantieni viva la speranza"? Ecco, per me è il contrario: "Mantieni viva la paura"
Mantienila viva. (Thomas Fuentes, ex dirigente FBI)


In allegato a questa riflessione mi piace proporre ai lettori più pazienti il testo da me tradotto di un'inchiesta condotta dal giornalista investigativo americano Trevor Aaronson alla fine del 2011. 

L'articolo è uno dei tanti (recentemente è uscito anche un documentario) in cui si descrive come l'FBI, nel condurre le proprie attività di contrasto al terrorismo islamico sul territorio degli Stati Uniti d'America, crei ad arte queste minacce selezionando, istruendo, armando e finanziando i soggetti che succesivamente si vanterà di avere arrestato.



In sintesi, funziona così. Gli agenti federali reclutano un "informatore", preferibilmente di origini mediorientali e con carichi penali pendenti, in modo da poterlo ricattare qualora non collaborasse, e lo infiltrano in una comunità islamica con l'incarico di fingersi membro di un'organizzazione terroristica e individuare soggetti poveri, disadattati e/o psicolabili ai quali proporre un attentato. Grazie al supporto logistico e finanziario prestato dall'FBI, l'infiltrato fornisce al suo pupillo denaro, armi ed esplosivi, gli suggerisce un piano e lo mette in condizione di realizzarlo rimuovendo ogni eventuale ostacolo alla sua attuazione. Poi, subito prima che azioni il detonatore, l'FBI arresta l'"attentatore" in flagranza di reato e un tribunale federale lo condanna a decine di anni di carcere per tentato atto terroristico.

Lo schema replica fedelmente la vicenda narrata da George Orwell in 1984, dove il dirigente governativo O'Brien si finge un dissidente per conquistare la fiducia di Winston e Julia affinché si dichiarino pronti a compiere atti terroristici e giurino fedeltà al fantomatico cospiratore Emmanuel Goldstein (in un caso descritto nell'inchiesta, la talpa dell'FBI fa recitare a un sorvegliato un finto giuramento ad Al Qaeda). I due protagonisti del romanzo, credendo di avere trovato complicità e rifugio presso un antiquario - in realtà un membro della psicopolizia - finiranno per essere arrestati e torturati dallo stesso O'Brien.




Rispetto alla fantasia di Orwell, nella realtà dell'antiterrorismo americano le prede non sono cittadini politicamente consapevoli, ma soggetti indigenti, psicologicamente disturbati e cresciuti nella miseria materiale e morale dei ghetti, che nelle comunità islamiche locali cercavano forse una via di fuga dall'emarginazione e un riferimento identitario. E i loro falsi amici non sono alti dirigenti di partito, ma avanzi di galera, truffatori, spacciatori e violenti ingaggiati dallo Stato in cambio di qualche soldo o di uno sconto di pena per ingannare il prossimo e l'opinione pubblica.

I "terroristi" incastrati e arrestati dall'FBI non sono evidentemente tali, neanche se lo volessero. Disadattati che sopravvivevano ai margini di una società diseguale e iperclassista, genericamente arrabbiati col mondo, avrebbero ingrossato al più le fila della piccola criminalità e "non avrebbero fatto nulla se gli agenti governativi non ce li avessero spinti a calci nel sedere" (Aaronson, pag. 4). Essi appaiono piuttosto vittime sacrificali che il governo ha utilizzato per vantare successi nella lotta al "terrorismo" interno, mantenendo al contempo alta l'attenzione del pubblico verso quella presunta minaccia. In tal guisa si coniuga la distopia orwelliana con il fanatismo di epoche lontane, quando emarginati, storpi e ritardati mentali erano indotti a confessare relazioni col diavolo (che è il nome antico - e più onesto - di Goldstein e Bin Laden) e immolati per appagare la paura e l'ignoranza dei benpensanti, cementandone la fiducia nell'autorità.


Sarebbe fin troppo facile - ma giusto - osservare che le risorse impiegate per incastrare quei disgraziati avrebbero potuto essere spese per alleviare le piaghe che li hanno partoriti - disoccupazione, negato accesso all'assistenza sanitaria, bassa scolarità, degrado materiale ecc. - e per bonificare un sottobosco dove, se non il terrorismo, covano disagio, esclusione e rabbia sociale.

Ma qual è lo scopo di questa pantomima? Perché il governo americano "crea crimini per risolvere crimini" (ibid.)? La risposta è suggerita dalla citazione che apre questa pedanteria: mantenere viva la paura. E non certo allo scopo di tutelare gli stipendi e i livelli occupazionali dell'FBI, che dubito figuri tra le priorità odierne del governo americano.




Sui modi in cui la sedicente "guerra al terrore" abbia allargato il potere e la ricchezza di poche élites, nonché il terrorismo stesso, sottraendo libertà e sicurezza al restante 99% della popolazione, sono stati scritti articoli e libri. Se ne è anche accennato su questo blog a proposito di socialismo dei ricchi. Un popolo impaurito è più agevole da controllare e meno propenso a mettere in discussione gli atti di un governo percepito come unico presidio possibile contro la furia de-civilizzante dei "cattivi". Come la pecora con il suo pastore, quel popolo si lascerà condurre verso qualsivoglia esito gli sia presentato come salvifico e risolutivo rispetto all'emergenza che incombe. Lo si è visto dopo i recenti fatti di Bruxelles, all'indomani dei quali rappresentanti politici e giornalisti hanno invocato, con inquietante sincronia, un'accelerazione del processo di unificazione politica e militare degli stati europei. Un non sequitur totale, il cui tempismo e la cui accettazione diffusa dimostrano come la paura serva gli obiettivi del dominus preservandoli dal vaglio critico delle masse.

Sicché non stupisce che, se gli eventuali sceicchi del terrore battono la fiacca, il compito di mantenere vivi l'allarme e il pungolo dello spavento possa toccare direttamente ai governi che vogliano operare in deroga al compromesso democratico.

L'inchiesta di Trevor Aaronson ha il pregio di presentare il fenomeno con rigore documentale, calandolo nel suo contesto storico e giuridico. Dopo gli eventi di Parigi e Bruxelles, il fatto che il nostro alleato più importante - lo stesso che si è intitolato il ruolo di difendere l'occidente dai terroristi - impieghi le proprie forze dell'ordine per escogitare piani terroristici, reclutarne gli esecutori, indottrinarli, armarli e metterli in condizione di operare, è un dettaglio che penso ci debba riguardare. Come minimo, segnala che il rapporto tra governi occidentali e terrorismo islamico è molto più complesso e simbiotico di quanto non emerga dal mortificante manicheismo delle narrazioni mediatiche.

In quanto poi al dubbio che, una volta confezionato l'attentato e l'attentatore, i burattinai governativi possano "dimenticarsi" di fermare la mano di chi aziona la bomba, è questione non documentabile che lascio alla fiducia di ciascun lettore nel buon senso e nelle buone intenzioni di chi ci governa.

***
http://ilpedante.org/files/other/Aaronson.pdf



venerdì 25 marzo 2016

Iniziata la fase B?

Raffaele Sciortino

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Sembra ufficiale: secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse mondiali - i più consistenti dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 - segna inequivocabilmente il passaggio da toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui non si riesce a prevedere l'atterraggio. Controprove principali: corsa all'oro come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un click del computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa, tedeschi, inglesi come "porti sicuri" per il risparmio anche a costo di rendimenti negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni sui rischi di default (cds) in netto rialzo.

C'è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell'economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni valutarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali - ma con epicentro proprio negli States! - con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l'aggravante di livelli di indebitamento - supportati in questi anni dalle politiche monetarie "facili" delle banche centrali - che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta. Non è affatto tutta speculazione, dunque.

Janet Yellen, boss della Federal Reserve, ha fatto una mezza ammissione nei giorni scorsi sui "rischi di recessione" negli Stati Uniti, mentre la sua politica monetaria diventa sempre più incerta tra propositi di rialzo dei tassi di interesse (oggi ai minimi storici: Zirp) e ambigui annunci di passi indietro se la situazione economica dovesse peggiorare. Intanto, la mossa disperata della Banca Centrale del Giappone che ha portato i tassi di interesse in territorio negativo (Nirp) è nata già morta, mentre la Bce di Draghi si trova in grosse difficoltà visto che il suo Quantitative Easing (cfr. Draghi's Drug) non ha potuto evitare il tracollo delle banche europee.


Insomma, le politiche monetarie delle banche centrali sono agli sgoccioli quanto a (già decrescente) efficacia. Il momento della verità sembra farsi più vicino: salvare con emissione di moneta e quindi ulteriore indebitamento la montagna di debiti su cui è seduta l'economia globale - la ricetta anti-crisi dopo il 2008 - ha provvisoriamente tenuto ma non può reggere per sempre. Il cavallo, la ripresa di investimenti, non ha bevuto nonostante fiumi d'acqua a disposizione, anzi si sono create bolle speculative come e più di prima. E ora i "mercati", stretti tra inflazione degli asset finanziari e deflazione reale, hanno iniziato a chiedere indietro i soldi. Dopo il lungo rinvio si ripresenta lo spettro di una crisi non di liquidità ma di vera e propria insolvenza.

Se questo quadro verrà confermato nei prossimi mesi, il punto non è se avremo meccanicamente un nuovo 2008 (con la Deutsche Bank al posto della Lehman?) ma come a questa svolta ci arriva l'economia globale, nel suo insieme e nelle sue articolazioni. Quel che è certo è che ci arriva con meno munizioni essendo i bilanci statali già sovraccarichi dei salvataggi di questi anni e, come detto, avendo le banche centrali dilatato al limite gli interventi monetari.

Inoltre, se nel 2008-9 la Cina ha potuto fungere da ancora di salvataggio grazie ai margini per politiche espansive, oggi sembra essere parte del problema più che della soluzione - questo al di là delle letture unilaterali e/o esagerazioni sulla crisi in corso (cfr. Crash tutto cinese?). Ancora, non solo il quadro geopolitico è decisamente più esplosivo in un Medio Oriente da sempre termometro delle tensioni internazionali, ma crescono le tensioni fra Washington e i tentativi cinese e russo di costruirsi un circuito economico e finanziario più autonomo dal predominio del dollaro e della finanza nordamericana.

È in questo quadro di contrasti e tensioni che andrebbe inserito questo passaggio della crisi. Gli Usa rispetto al 2008 sono messi relativamente meglio degli altri, avendo maggiormente accorciato la leva finanziaria di banche e fondi, anche se non hanno risolto nessuno dei problemi di fondo. Il punto è che si stanno creando le condizioni favorevoli per un più agevole scarico della crisi innanzitutto sui paesi emergenti (indebitati a breve in dollari e non a caso al centro di una fuga di capitali: la stessa America Latina rischia di ridiventare riserva di caccia dei capitali yankee), nonché su Russia (manovre geopolitiche e finanziarie per far cadere il prezzo del petrolio) e Cina (anche qui fuga di capitali, svalutazione monetaria e perdita di riserve). Ma anche su un'Europa sempre più sfilacciata.


Ciò non toglie che per Washington ci sono almeno due incognite rilevanti. La prima riguarda la strategia della Fed. Un aumento dei tassi di interesse sarebbe opportuno per tutta una serie di ragioni: non restare a corto di munizioni in caso di recessione, contenere le bolle debitizie ricreatesi dopo il 2008, richiamare risorse verso il dollaro per contrastare i tentativi di de-dollarizzazione cinesi, russi, iraniani, ma soprattutto provare a controllare la svalorizzazione di capitali oramai non più rinviabile scaricandola sugli altri soggetti, "alleati" e avversari.

Solo che i contraccolpi negativi di ciò, dal probabile rafforzamento del trend deflattivo ai fallimenti di imprese con volatilizzazione dei risparmi e caduta di occupazione e consumi, difficilmente si limiterebbero all'esterno dato l'intreccio oramai inestricabile del mercato mondiale. Non è facile tornare a un'economia del debito meno instabile e precaria (perorata dai dirigenti della Banca dei Regolamenti Internazionali). Eppure, senza bruciare una parte della montagna di capitale fittizio che risucchia risorse e impedisce qualsiasi rilancio dell'accumulazione, il timore che si diffonde oltreoceano è quello di una "stagnazione secolare".

In secondo luogo, la strategia Usa di un nuovo contenimento anti-cinese e anti-russo è una corsa contro il tempo, a evitare un'eccessiva autonomizzazione delle due potenze. La stessa svalorizzazione di capitali che si darà deve poter essere scaricata anche sulla Cina se si vuole preservare il predominio occidentale. Ciò spiega perché il livello delle provocazioni viene spinto da Washington sempre più avanti (dall'Ucraina alla Siria, ai mari dell'Asia Orientale). Ma spiega anche certi azzardi come la guerra economica sul prezzo del petrolio che sta mettendo a rischio l'Arabia Saudita e lo stesso circuito dei petrodollari, un meccanismo essenziale questo, insieme alla subordinazione dell'officina del mondo, al predominio della finanza a stelle e strisce.

Al tempo stesso, la fretta viene anche da come si stanno mettendo le cose sul fronte interno che, come sta evidenziando la stessa campagna presidenziale, forse la più dura da quella del '68, è sempre più polarizzato e a rischio di esplosioni sociali in un futuro non troppo remoto. Se Obama ha fallito nel rivitalizzare per un rilancio dell'Impero il fronte interno "progressista", il prossimo presidente, democratico o repubblicano, dovrà passare all'offensiva facendo leva sulla difesa nazional-"sociale" dell'american people.


Se le cose stanno così, a questo giro l'Europa rischia grosso. Non solo per il trilione di crediti deteriorati (un quinto e più italici, suggeriscono i... gufi) a fronte di una ripresa che si allontana. Ma per le crescenti divisioni che una Germania indebolita da ripetuti "fuochi amici" (affare Snowden, Ucraina, ricatto sui profughi siriani con polarizzazione interna e indebolimento di Merkel, scandalo Volkswagen, ora la DB...) sempre meno riesce a contenere. Borghesie meschine in concorrenza reciproca pronte a fare gli utili idioti dello zio d'America e un proletariato passivo e sempre più chiuso su dimensioni nazionali e subnazionali, completano il quadro desolante.

Renzi - tanto vuoto di sostanza quanto buon galleggiatore che approfitta delle nullità che lo circondano - l'ha capito e ha iniziato a pigiare il tasto antitedesco. Unica strada che gli resta visto che non solo non è migliorata affatto la situazione del capitalismo italico (il jobs act non ha creato occupazione ma solo regalato soldi e potere d'arbitrio a imprenditori incapaci di investire mentre la sottocapitalizzazione e il clientelismo politico-familiare delle banche è sotto gli occhi di tutti) ma la crisi che avanza spazzerà via gli escamotage di bilancio fin qui usati per continuare a campare e metterà a serio rischio i risparmi del "ceto medio" e dunque quel welfare familistico che ha attutito fin qui i colpi del declassamento sociale e internazionale.

Sono appunto i nodi che, con ancora maggiore drammaticità, si presenteranno in questa fase.


Uno: la ripresa dei toni anti-tedeschi, buoni per tutti i palati, di destra e di sinistra, europeisti e anti-europeisti; non che Berlino non se li meriti ma il piccolo problema è che servono a coprire le responsabilità nazionali/ste e i giochi di Washington. Ma far capire questo è senza speranza, dovremo passarci attraverso.

Due: è iniziata la tosatura in grande dei risparmi dei ceti medi occidentali (le misere vicende bancarie italiche ne sono solo un piccolo segnale), il che in prima battuta darà luogo a reazioni confusissime "nazional-sociali" dentro le quali, a date condizioni, si può però riaprire un discorso di classe a patto di sapervi vedere i nodi di fondo di un capitalismo sempre più distruttivo e sempre che il proletariato non continui a dormire. Ne verrà ridisegnata sia la nuova composizione sociale del lavoro sia la soggettività delle lotte (movimenti diversissimi come il No Tav e i forconi potrebbero essere in qualche modo un'anticipazione di dinamiche a venire assai più esplosive).

Tre: ritorna in forza il tema guerra dell'Occidente contro... terroristi (mostri buoni per tutte le stagioni) e soprattutto "dittatori" che attentano alle nostre "libertà". La Libia è vicina: si tratterà di tornare sul tema, vecchio ma sempre nuovo, di cosa è l'imperialismo.



L'articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2016 su infoaut







martedì 22 marzo 2016

Quando i ladri presero la città

di Ennio Flaiano
monteverdelegge




Questa favoletta fu pubblicata nel 1960.
56 anni fa.
Inutile dire che è molto attuale.
Ed è attuale non perché Flaiano fosse dotato di particolari doti profetiche.
No. È che gli Italiani del 2016 sono babbei quanto quelli del 1960.
***


Quando i ladri presero la città, il popolo fu contento, fece vacanza e bei fuochi d'artifizio.
La cacciata dei briganti autorizzava ogni ottimismo e i ladri, come primo atto del loro governo, riaffermarono il diritto di proprietà.
Questo rassicurò i proprietari più autorevoli.
Su tutti i muri scrissero: 'Il furto è una proprietà'. Leggi severe contro il furto vennero emanate e applicate. A un tagliaborse fu tagliata la mano destra, a un baro la mano sinistra (che serve per tenere le carte), a un ladro di cappelli, la testa.
Poi si sparse la voce che i ladri rubavano.
Dapprincipio, questa voce parve una trovata della propaganda avversaria 
e fu respinta con sdegno.
I ladri stessi ne sorridevano e ritennero inutile ogni smentita ufficiale.
Tutto parlava in loro favore, erano stimati per gente dabbene, patriottica, ladra, onesta, religiosa. 
Ora, insinuare che i ladri fossero ladri sembrò assurdo.
Il tempo trascorse, i furti aumentavano, un anno dopo erano già imponenti, e si vide che non era possibile farli senza l'aiuto di una grossa organizzazione.
E si capì che i ladri avevano quest'organizzazione. Una mattina, per esempio, ci si accorgeva che era scomparso un palazzo del centro della città. Nessuno sapeva darne notizia.
Poi sparirono piazze, alberi, monumenti, gallerie coi loro quadri e le loro statue, officine coi loro operai, treni coi loro viaggiatori, intere aziende, piccole città.
La stampa, dapprima timida, insorse: sparirono allora i giornali coi loro redattori e anche gli strilloni, e quando i ladri ebbero fatto sparire ogni cosa, cominciarono a derubarsi tra di loro e la cosa continuò finché non furono derubati dai loro figli e dai loro nipotini. 
Ma vissero sempre felici e contenti. 

Nota. I compilatori di un libro di lettura per le scuole elementari mi avevano chiesto una favola arguta per bambini dai sette ai dieci anni. Ho inviato loro questa favola, l'hanno respinta cortesemente, dicendo che "non era adatta". Forse non è una favola arguta. O forse non è nemmeno una favola  

sabato 19 marzo 2016

Qohélet (1-12)*


Cimitero Monumentale di Antella

***


Parole di Qohèlet
 figlio di David
re di Ierushalèm

Un infinito vuoto
dice Qohélet
Un infinito niente
Tutto è vuoto niente

Tanto penare d'uomo sotto il sole
Che cosa vale?

Venire andare di generazioni
E la terra che dura

Levarsi il sole tramontare il sole

Corre in un punto
In un altro riappare

Il vento va verso Sud 
Gira verso Settentrione

Gira e va e gira
Il vento nel suo girare

Tutti i fiumi senza riempirlo
Si gettano nel mare

Sempre alla stessa foce
Si vanno i fiumi a gettare

Si stanca qualsiasi parola
Di più non puoi fargli dire

Occhi avidi sempre di vedere
Orecchi mai riempiti di sentire

Quel che è stato sarà
Quel che si è fatto si farà ancora

Niente è nuovo
Di quel che è sotto il sole

Si parla di qualcosa
- Guarda! Qui c'è del nuovo -

E sono cose che già sono state 
Nei tempi prima di noi

Dei vissuti non c'è memoria 
E anche di quelli da essere ancora
In chi verrà non ci sarà memoria.

Io Qohélet re d'Israel
Ero in Ierushalèm

[...]



* versione di Guido Ceronetti

giovedì 3 marzo 2016

Partorirai con denaro!


di   Sebastiano Isaia   (11/02/2016)


Un primo approccio critico alla questione dell’utero in affitto.
Senza la promessa di un suo ulteriore approfondimento.
***

«A parte le difficoltà tecniche e mediche», dichiarava qualche mese fa Karine Chung, della University of Southern California’s Keck School of Medicine,
«non vedo nessun motivo etico per respingere l’idea di eseguire un trapianto di utero in un paziente maschio. Un paziente maschio che desideri fare l’esperienza della gravidanza ha il diritto di poterla vivere. Le difficoltà non sono poche, visto che l’anatomia maschile e femminile non sono proprio analoghe. Probabilmente tra cinque o massimo dieci anni qualcuno prima o poi sarà in grado di farlo» (Marie claire, dicembre 2015).

«Ma tra gli ostacoli all’effettiva realizzazione dell’intervento c’è il fattore economico» (Tgcom24, 4 dicembre 2015).

Allora siamo a cavallo: infatti, è nella natura del Capitalismo abbassare progressivamente i prezzi dei beni e servizi. Forse non dovremo aspettare il Ventinovesimo secolo, come pensava J. K. Jerome nel 1891, per vedere La nuova utopia egalitaria:

«In questi giorni felici, gli uomini non solo hanno imparato a essere eguali, ma anche ad apparire eguali, per quanto è possibile. Facendo in modo che tutti gli uomini siano ben rasati, e che tutti gli uomini e tutte le donne abbiano i capelli neri, tagliati alla stessa lunghezza, noi rimediamo, fino a un certo punto, agli errori della Natura».

 Mi scuso con il lettore per questa frivola introduzione a una “problematica” molto seria. E mi scuso anche per le ripetizioni formali e concettuali contenute nel testo; si tratta in effetti di appunti presi alla rinfusa nell’arco di diverse settimane. D’altra parte ripetere può forse giovare a spiegare meglio la mia posizione su un tema così scottante e controverso. Forse!


1. La teoria del piano inclinato e della deriva (economica, politica, etica, antropologica) praticata da molti intellettuali di “destra” e di “sinistra” conferma come il riflesso conservatore e il Principio d’ordine (sociale, morale, psicologico, antropologico) siano sempre in agguato quando non si ha chiara coscienza circa i rapporti sociali che oggi informano l’intera nostra esistenza, e in tutto il pianeta. Il corretto punto di partenza non è chiedersi «di questo passo dove andremo a finire» («La deriva dell’inimmaginabile è imboccata», scriveva ad esempio Annalisa Borghese nel 2014), ma piuttosto cercare di capire dove già siamo finiti. Quando si affrontano le grandi questioni connesse ai temi cosiddetti eticamente ed antropologicamente sensibili, a cominciare dalla mercificazione della nostra vita, tenuta in ostaggio dal Dio denaro, si omette, o si  sottovaluta grandemente la necessità di prendere in considerazione la natura radicalmente disumana del Capitalismo, al quale certo si possono dettare leggi e regole di comportamento, così da frenarne, imbrigliarne e correggerne in qualche modo “gli eccessi”. Questi tentativi sono però destinati, nell’essenza, al fallimento più clamoroso per un semplice motivo: i cosiddetti “eccessi” mostrano in realtà la vera e più intima natura del Moloch. Ecco perché mi fanno sorridere quelli che teorizzano la falsa antitesi fra modernità (cosa bella e giusta) e ipermodernità (cosa brutta e ingiusta). La vera antitesi è fra l’attualità del Dominio e la possibilità della liberazione universale degli individui, in tutto il pianeta.

In ogni sfera della nostra esistenza l’eccezione getta un potente fascio di luce sulla regola: si tratta, se mi è concesso esprimermi in modalità contraddittoria (“dialettica”?), di non distogliere lo sguardo dall’accecante verità. Inutile dire che invece ci regoliamo diversamente, facciamo cioè esattamente quello che ci suggerisce la sirena della minor resistenza: puntare gli occhi altrove, alla ricerca di risposte già confezionate (ce ne sono per tutti i gusti politici ed ideologici), quelle che ci promettono cambiamenti «graduali ma certi» della situazione, seguendo metodi che non intaccano una routine esistenziale che evidentemente, tutto sommato, ci piace: dopo tutto paghiamo i politici e gli esperti perché siano loro a prendersi cura dei nostri problemi, intanto che noi studiamo, lavoriamo, paghiamo le tasse, mettiamo al mondo figli e così via.

A mio avviso, e così tento una prima incursione nel merito della questione, la vicenda rubricata come Utero in affitto non «ci interroga con forza e prima di tutto sullo statuto del figlio», come sostiene dalla sua peculiare prospettiva scientifica lo psicanalista Giancarlo Ricci, autore del libro Il padre dov’era. Le omosessualità nella psicoanalisi (Sugarco); ci interroga piuttosto «con forza e prima di tutto sullo statuto» dell’individuo creato a immagine e somiglianza del Dominio. Sto parlando di tutti noi, sia ben chiaro.

Prima ancora che giuridico, simbolico e antropologico il problema è schiettamente e radicalmente sociale, investe cioè l’essenza stessa della nostra società, la cui dimensione mondiale è oggi una realtà e non più una bizzarra/visionaria ipotesi marxiana.

Più che sulla «mancanza ontologica della condizione di madre» (Ricci) nel caso della pratica dell’utero in affitto, invito il lettore a riflettere, anche in relazione a quel problema specifico, sulla «mancanza ontologica della condizione» di uomo, dell’«uomo che non è ancora un essere umano» (Marx), dell’individuo atomizzato e massificato che non controlla con la propria testa e con le proprie mani la Cosa che pure esso stesso crea sempre di nuovo, peraltro con l’ausilio di mezzi tecnici e organizzativi sempre più razionali, scientifici, “intelligenti” – a dimostrazione che nella società classista in generale e in quella capitalistica in particolare la razionalità, la scienza e l’intelligenza devono piegarsi sempre e puntualmente alle necessità dell’economia e del Potere: vedi, fra l’altro, le carneficine belliche del XX secolo.

È giusto sostenere che non tutto ciò che la tecnica e la scienza rendono possibile è anche eticamente e umanamente desiderabile; ma se non si scorge la Potenza sociale che sta dietro, prima, sopra e sotto la tecno-scienza cadiamo in quel feticismo tecnologico (peraltro intimamente imparentato con il feticismo della merce e del denaro che considera l’una e l’altro come cose e non come rapporti sociali) che ci condanna all’impotenza sociale e concettuale nello stesso momento in cui ci armiamo per andare a duellare con i mulini a vento di turno: la televisione, le biotecnologie, Internet, gli organismi geneticamente modificati, ecc., ecc. Si tratta piuttosto di umanizzare la tecnica e la scienza, di porle davvero e per la prima volta nella storia (o «preistoria») al servizio dei molteplici bisogni, desideri e speranze degli uomini, cosa impossibile senza fuoriuscire dalla vigente dimensione classista e capitalistica.


2. Per evitare fraintendimenti di sorta e per offrire all’interlocutore la corretta chiave di lettura di queste righe, ne anticipo la conclusione politica. Mentre le “femministe storiche”, coerentemente al loro punto di vista filosofico e politico che non mette in discussione la continuità del Dominio (capitalistico, non semplicemente e genericamente patriarcale), fanno appello alle classi dirigenti nazionali e internazionali (dai Parlamenti all’ONU) per mettere al bando lo sfruttamento sessuale della donna (dalla prostituzione all’utero in affitto), chi scrive pensa invece che solo l’autonoma iniziativa dei nullatenenti, al di là della loro divisione per sesso, razza, nazionalità e religione, può davvero 1) porre un argine a ogni genere di sfruttamento e 2) preparare le condizioni per il superamento di quei rapporti sociali che oggi rendono possibile l’universale prostituzione degli individui.

Il punto di vista critico-radicale (o semplicemente “rivoluzionario”) che sostengo non equivale ad assumere un atteggiamento di spocchiosa ed elitaria indifferenza nei confronti delle rivendicazioni parziali di qualsiasi genere: sindacali, politiche, “civili” e quant’altro; significa piuttosto approcciare le contraddizioni sociali che generano quelle rivendicazioni, e dunque queste stesse rivendicazioni, da una prospettiva concettuale e politica che non conceda alcuna attenuante a questa società, che, detto in altri termini, non contribuisca a creare, soprattutto “nella testa e nel cuore” dei dominati, illusioni circa una sua possibile “umanizzazione”.

La risposta alla sempre più spinta disumanizzazione della nostra esistenza non si trova né nel passato né in un futuro concepito come mera estensione temporale dell’attuale status quo sociale: essa va costruita a partire dal superamento della divisione classista degli individui, la quale necessariamente presuppone e pone sempre di nuovo relazioni e prassi di dominio e di sfruttamento. Necessariamente.

Leggere e ascoltare la posizione che con «estrema indignazione» stigmatizza lo sfruttamento sessuale delle donne assunta da chi non ha mai avuto nulla, ma proprio nulla, da dire sullo sfruttamento e sull’oppressione sociale degli individui più che ridere mi stimola fisiologicamente, diciamo. Da “destra” e da “sinistra” mi arriva addosso un’ondata di ipocrisia che per fortuna ho imparato a cavalcare. Ma i sommersi sono tanti.


3. So benissimo di affrontare una “problematica” assai controversa, che si presta a diverse letture e a molteplici valutazioni d’ordine etico e politico, molte delle quali personalmente considero interessanti e feconde anche quando prendono le mosse da presupposti filosofici (incluse visioni religiose del mondo) e politici molto lontani dalla mia prospettiva. Non pretendo, insomma, di dire “la cosa giusta”, di affermare una posizione univoca, esauriente, priva di contraddizioni interne, sulla questione che sto trattando, peraltro in una forma molto sommaria e sintetica; intendo, molto più modestamente e realisticamente (ossia alla mia portata), contribuire a impostare in un certo modo il tema, a inquadrarlo, a metterlo a fuoco, così che la riflessione possa dispiegarsi tenendo conto di ciò che ai miei occhi appare alla stregua di un’indiscutibile verità (ne ho poche, il lettore mi consenta di esternarne almeno una): la natura classista e disumana della vigente società.

Ecco, quando riflettiamo sui problemi e sulle contraddizioni del mondo, e soprattutto sui problemi e sulle contraddizioni che ci toccano personalmente e quotidianamente, cerchiamo di non perdere mai di vista l’essenza disumana dei rapporti sociali che determinano, «in ultima analisi», i nostri comportamenti e le nostre scelte – il più delle volte si tratta di “scelte obbligate”, anche quando esse ci sembrano ispirate dalla massima libertà.

 Come ho scritto altre volte, cerchiamo di essere più indulgenti con le nostre e con le altrui magagne personali (contraddizioni, debolezze, paure, idiosincrasie, paranoie, angosce, scorrettezze d’ogni genere) e molto più severi nel giudicare la società che non ci permette di vivere secondo umanità. Lo so, è un discorso che si scontra con la dominante etica della responsabilità personale, quella che ci invita a essere bravi e onesti cittadini – o soldatini – kantiani. «Tutto il pathos dell’imperativo categorico kantiano si riduce a ciò, che l’uomo fa “liberamente”, cioè per intima persuasione, quello a cui sul piano del diritto verrebbe costretto a fare» (E. B. Pašukanis).

Mi si potrebbe giustamente obiettare: «Ma sulla base del tuo ragionamento politico e del tuo approccio etico ai problemi sociali non si governa un Paese; al massimo si può fare una rivoluzione». Esatto! D’altra parte di realisti e pragmatici è pieno il mondo; e, infatti, ecco i bei risultati che abbiamo sotto gli occhi…

Certo, si potrebbe anche pensare che sostengo l’essenziale (radicale) irresponsabilità individuale, beninteso posto un regime di universale illibertà (ricordate la Banalità del male di Hannah Arendt?), non per intime convinzioni etico-filosofiche ma, molto più prosaicamente, egoisticamente e in armonia con i tempi, pro domo mea. Ebbene, chi sono io per stigmatizzare una simile interpretazione?


4. Quando ci relazioniamo con i problemi posti alla società e ai singoli individui dalla sessualità, dai rapporti di coppia, dalla cosiddetta genitorialità e così via ci confrontiamo con una costellazione di problemi che, a mio avviso, hanno assai poco a che fare con la natura “in sé” delle cose e delle persone mentre molto a che fare hanno invece con la prassi sociale umana colta e “declinata” nella sua ricca e assai mutevole molteplicità.

Sotto questo aspetto è corretto dire, ad esempio, che non c’è nulla di meno naturale e di più sociale dell’istituto familiare, ed è sufficiente leggere qualsiasi serio testo di storia sociale della famiglia (ma anche il Vecchio Testamento va benissimo!) per rendersi conto di quanto concettualmente ridicole e politicamente strumentali siano le tesi difese in questi giorni dai sostenitori di una mitica «famiglia tradizionale» o «naturale». Non c’è, insomma, una naturalità da preservare nei rapporti fra gli esseri umani ma piuttosto una dimensione autenticamente umana da conquistare per questi stessi rapporti.

Detto in altri termini, il problema si riduce, diciamo così, alla qualità dei rapporti sociali, il che mi porta dritto a questa dirimente domanda: possiamo pretendere dalle istituzioni, qui genericamente intese, dalle pratiche sociali d’ogni tipo e dagli individui comportamenti autenticamente umani nella società informata da rapporti sociali disumani? Io penso, con Adorno, che «Non si dà vera vita nella falsa». Per «vera vita» Adorno intendeva, sulla scorta della migliore tradizione filosofica umanista mondiale, la vita «dell’uomo in quanto uomo», il quale rimane ancora uno splendido progetto, una meravigliosa possibilità – peraltro sempre più negata, sebbene sempre più fondata sul terreno economico, scientifico, tecnologico: ciò che nega allo stesso tempo promette.

Quando parlo di comportamenti «autenticamente umani» non intendo evocare sciocche e infantili utopie circa l’uomo perfetto o la società perfetta: parlo piuttosto della possibilità di un uomo che, innanzitutto, viva in una comunità che non conosca la divisione degli individui in classi sociali, e che quindi produca e distribuisca i beni (materiali e immateriali) secondo i bisogni e non secondo la «bronzea legge del valore». Oggi è con la società fondata sulla ricerca del massimo profitto che abbiamo a che fare; oggi, quando ci troviamo a dover ragionare su qualsivoglia argomento  (economico, politico, ideologico, scientifico, culturale, etico, psicologico, “antropologico”) non possiamo prescindere dal considerare la mostruosa (disumana) potenza del denaro, la Cosa che può comprare tutte le altre cose («Ma la Cosa è un rapporto sociale!»).

 Conosco molte persone che pur sapendo molto meglio di me quanto appena sostenuto, non ne tengono però in alcun conto, o solo marginalmente, quando si tratta di dar conto di questioni apparentemente particolari, soprattutto quelle che in qualche modo riguardano appunto i temi «eticamente o antropologicamente sensibili».

Personalmente non vedo niente di progressivo (tutt’altro!) nei processi sociali che svuotano di significato e che disarticolano la «famiglia tradizionale», la quale un tempo prometteva agli individui strapazzati dai meccanismi sociali almeno un’apparenza, un simulacro di rifugio, un’estrema difesa nei confronti delle forze sociali esterne: oggi è proprio la distinzione fra interno ed esterno (riferita anche al singolo individuo: vedi il corretto, non modaiolo, concetto di biopolitica) che non regge alla prova dei fatti. E quando dico oggi intendo riferirmi a una intera epoca storica: quella borghese, la quale, come aveva ben capito Marx, si distingue dalle altre epoche storiche per il carattere «rivoluzionario» dei rapporti sociali che la connotano: nulla, salvo il dominio del Capitale, può conservarsi inalterato per troppo tempo, tutto deve continuamente cambiare sotto la sferza delle sempre più forti, impellenti e totalitarie necessità economiche.

Tutto questo è vero e bisogna lasciare agli apologeti dei diritti a tutto e su tutto le illusioni intorno a un avanzamento di progresso che esiste solo nelle loro teste arcobaleno.

Estendere l’istituto matrimoniale anche alle coppie dello stesso sesso ha a che fare con i diritti patrimoniali borghesi (auguri e figli… come il politically correct vuole!), ma non mi si venga a parlare di un avanzamento di progresso umano.

Ciò detto non è certo invocando un impossibile – e non desiderabile, almeno per chi scrive – ritorno al passato che possiamo venire fuori dal vero e proprio cul de sac esistenziale nel quale ci siamo cacciati.

«Come accade per tutte le forme di mediazione tra singolarità biologica e totalità sociale la famiglia, nel suo contenuto sostanziale, viene risussunta a proprio conto nella società. La crisi della famiglia è d’ordine sociale; e non è possibile negarla, o liquidarla come semplice sintomo di degenerazione e decadenza. […] La crisi della famiglia è crisi integrale dell’umanitarismo. […] La famiglia soffre di ciò come ogni particolare che preme verso la propria liberazione: non vi sarà emancipazione della famiglia senza emancipazione della totalità sociale» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, Einaudi, 2004).

Di qui, la disillusione di quelle femministe che si erano illuse di poter emancipare la società intera attraverso la cosiddetta emancipazione della donna. Cosiddetta perché più di una emancipazione nel significato più profondo del concetto si è trattato piuttosto di una modernizzazione del ruolo della donna funzionale al progresso della società – capitalistica.

Condividere la stessa cattiva condizione esistenziale del maschio (con relativo declino dell’“autostima” di quest’ultimo, evidentemente appesa al nulla di un’esistenza sempre più disumana – per tutti: uomini e donne) non mi sembra un acquisto rivoluzionario per le donne. Sto forse insinuando che la donna “stava meglio quando stava peggio”? Per un simile atteggiamento mentale (passatista, conservatore, reazionario, stupido) bisogna bussare alla porta di qualcun altro, non alla mia.


5. Inaspettatamente – ma non certo per chi scrive – Giuseppe Vacca e Mario Tronti hanno ripreso le vecchie posizioni del PCI (da Togliatti a Berlinguer) per denunciare gli aspetti «più delicati e controversi» della legge sulle unioni civili in discussione in questi giorni al senato.

«Le riserve di due intellettuali di cultura comunista del calibro di Vacca e Tronti arrivano da lontano, da una radice che ha avuto una profonda influenza nella storia politica italiana, la radice del realismo incarnata dal leader del Pci Palmiro Togliatti che nel dibattito sulla Costituente nel 1947 disse: “Per noi la semplice unione dell’uomo e della donna non è condizione sufficiente per la formazione della famiglia. […] La famiglia per noi esiste soltanto quando è fondata sul vincolo matrimoniale”. Una impostazione pragmatica e tradizionalista ripresa da Enrico Berlinguer nella sua opposizione al referendum sul divorzio del 1974, sostenuto invece dalla corrente libertaria della sinistra italiana, quella radicale e socialista» (F. Martini, La Stampa, 1 febbraio 2016).

 Ovviamente solo chi sconosce completamente il significato della parola comunismo e, cosa assai più “riprovevole”, lo associa senz’altro allo stalinismo, magari nella sua variante italiana (togliattiana), può parlare, riferendosi a Vacca e a Tronti, di «due intellettuali di cultura comunista». Sono talmente “comunisti” e “marxisti”, quei due grossi calibri dell’intellighentia sinistrorsa nostrana, da scendere in campo in difesa della «tradizione millenaria della famiglia, dal Medioevo in avanti». Vacca, in particolare, teme «la deriva nichilista della sinistra» sui temi antropologici: «Giuseppe Vacca è un filosofo marxista, una vita nel Partito comunista italiano e nelle sue successive declinazioni, fino al Partito democratico di cui è uno degli intellettuali più autorevoli. Nel 2012, insieme ad altre figure di riferimento della sinistra, come Mario Tronti e Pietro Barcellona, firma un documento sull’”emergenza antropologica”: si sostiene che esistono “valori non negoziabili” e si apprezza l’impegno della Chiesa, allora di Benedetto XVI, per difenderli. Ai firmatari viene affibbiata l’etichetta di “marxisti ratzingeriani”» (M. Rebotti, Corriere della Sera, 3 febbraio 2016).

Tanto in Italia l’etichetta di “comunista” o di “marxista” non si nega a nessuno: da Marco Rizzo a Papa Francesco. «La famiglia naturale», sostiene Vacca, «è il prodotto della storia: prima il sovrano e oggi il legislatore ne prendono atto». Insomma, il “marxista” di cui sopra difende la famiglia sorta sulla base della divisione classista della società; la famiglia che porta in radice i contrassegni del Dominio di classe, di cui «prima il sovrano e oggi il legislatore prendono atto»; la famiglia naturale ed eterna da una supposta «deriva antropologica» che tenderebbe a scardinarne l’assetto naturale – ossia storico-sociale.

Nino Bertoloni Meli ha scritto oggi sul Messaggero che Beppe Vacca sulla famiglia ha una «posizione premarxista»: come dargli torto!

Sghignazzo sulle balle speculative di questi conservatori-autoritari che amano vestire i panni di “intellettuali marxisti” da quando ero adolescente, e quindi ogni loro perla reazionaria non fa che confermare e rafforzare il mio giudizio sul “comunismo” italiano, il quale non di rado assumeva, su diverse questioni, posizioni politiche ancora più destrorse di quelle elaborate a suo tempo dalla Democrazia Cristiana.

Per capire il tipo di “comunismo” che ha formato l’ossatura dottrinaria e politica di Tronti, e che spiega la sua infatuazione per “l’umanesimo” del Papa Emerito, è sufficiente leggere quanto segue: «Nella storia del movimento operaio, nell’attrezzatura teorica del marxismo, nelle esperienze pratiche dei comunisti c’è una disattenzione all’uomo» (Il Manifesto, 5 maggio 1991).

Sì, effettivamente nello stalinismo, nel maoismo e negli altri ismi un tempo assai graditi all’intellettuale italiano «c’è una disattenzione all’uomo». Ecco perché mentre certi “comunisti” – nonché intellettualoni –  dalla coda di paglia si salvano in corner, per usare il sofisticato gergo calcistico, invocando il katechon (1), chi scrive può tranquillamente parlare, senza evocare nella propria testa esperienze contrarie a ogni prassi emancipativa, di rivoluzione sociale.

Alla sinistra italiana e occidentale, i “marxisti ratzingeriani” imputano di aver ceduto a «culture falsamente libertarie, per le quali non esiste altro diritto che non sia il diritto dell’individuo». A questo “nichilismo individualista”, che si conforma alla tesi antisociale espressa una volta dalla Thatcher («la società non esiste, esistono solo gli individui») i “marxisti ratzingeriani” oppongono la «dimensione comunitaria, ossia la società vigente, e un «umanesimo condiviso»: il Capitalismo dal volto umano, appunto.

Se Dio vuole, chi scrive non appartiene né alla «sinistra italiana e occidentale» né al “marxismo” comunque declinato dai sinistrorsi. È poco, ma mi accontento. Per godere punto su pratiche che in qualche modo hanno a che fare con l’argomento qui trattato.

Come non esistono “in natura” una società in generale, un’economia in generale, uno Stato in generale, ma una società, un’economia e uno Stato storicamente e socialmente peculiari, allo stesso modo non ha alcun fondamento storico e sociale parlare della famiglia in generale. Ebbene, la famiglia borghese, l’istituto familiare tipico di questa epoca storica, deve necessariamente vivere una condizione di permanente crisi, deve necessariamente subire periodici processi di cambiamento a causa della già accennata natura «rivoluzionaria» della società borghese. La politica e il diritto non possono che prenderne atto, in maniera più o meno rapida, con soluzioni più o meno adeguate alle realtà. Sotto questo aspetto, il mondo anglosassone e l’Italia offrono i due modelli opposti di modernizzazione capitalistica della società: il primo rapido e – relativamente – lineare, il secondo lento e contraddittorio. Nel caso dell’Italia la funzione “katecontica” del Vaticano ha sempre avuto un certo peso nelle scelte della politica nazionale, soprattutto sui temi “eticamente e antropologicamente sensibili”.


6. Apprendo, nientemeno che da Famiglia Cristiana, che «le lesbiche francesi hanno detto che “Il corpo delle donne non può essere mercificato”». Non può o non dovrebbe? e a quali condizioni? Riprendo la cristiana citazione: «Le lesbiche francesi» si battono contro le «lobby molto organizzate dal discorso menzognero» che sostengono in Francia e in Europa il diritto di avere un figlio anche attraverso la pratica dell’utero in affitto – chiamata anche maternità surrogata o Gestazione per altri.

«L’associazione lesbica francese CLF ha deciso di tagliare i ponti con altre associazioni omosessuali possibiliste o favorevoli alla pratica dell’utero in affitto. I motivi? “Vendere i propri ovociti e il proprio corpo non ha nulla di libero”, hanno detto, “il corpo delle donne non può essere mercificato, né altrove, né qui”». Verissimo: «Vendere i propri ovociti e il proprio corpo non ha nulla di libero»; però mi chiedo: vendere a qualsiasi titolo il proprio corpo per ricavarne denaro, possibilmente molto e in fretta, si può considerare, al di là di ogni apparenza, una pratica segnata dalla libertà d’arbitrio? Vietiamo allora anche la prostituzione e la pornografia? Posto il vigente regime sociale mondiale fondato sulla ricerca del massimo profitto, ha un minimo senso, che non sia quello passatista, biecamente moralista e conservatore, chiedere al Leviatano, ossia al cane da guardia chiamato a difendere il rapporto sociale capitalistico che sta alla base della mercificazione degli individui e della loro sempre più spinta disumanizzazione, di proibire una pratica che peraltro si armonizza (si sposa!) perfettamente con l’essenza – non con le fumisterie ideologiche tipo “Diritti inalienabili dell’uomo” – di questa escrementizia società? Io credo proprio di no.

Per un verso non si risolve il problema (2), perché esiste comunque un bisogno da soddisfare (com’è noto, il proibizionismo non elimina il mercato, ossia la compravendita di un bene o servizio, ma, per così dire, si limita a colorarlo di “nero” per la gioia di chi vende e la maledizione di chi compra: vedi, ad esempio, il mercato delle droghe); e per altro verso si porta tanta acqua al mulino dello status quo sociale, come dimostra la seguente citazione: «Nessun essere umano può essere ridotto a mezzo. Noi guardiamo al mondo e all’umanità ispirandoci a questo principio fondativo della civiltà europea» (Appello contro la pratica dell’utero in affitto).

Ma la «civiltà europea», ossia la civiltà capitalistica moderna apertasi con le rivoluzioni borghesi, dalla fine del XVI secolo in poi, si basa proprio sulla riduzione degli esseri umani a meri strumenti, a pure risorse economiche (bio-merci, bio-mercati), a «capitale umano»! «Denunciamo l’utilizzo degli esseri umani il cui valore intrinseco e la cui dignità sono cancellati a favore del valore d’uso e del valore di scambio» (Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata). Benissimo! Iniziamo allora con l’abolizione del lavoro salariato, ossia della prestazione lavorativa venduta e acquistata nella sua maligna qualità di «merce particolare» (Marx)!

È una provocazione, si capisce. E già che abbiamo tirato la barba al vecchio surrogato di Treviri, caliamo sul tavolo la solita bella citazione intonata al tema: «La prostituzione generale appare come una fase necessaria dello sviluppo del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività personali. Esprimendosi più compiutamente: l’universale rapporto di utilità e utilizzabilità» (K. Marx, Grundrisse).

Altro che «principio fondativo della civiltà europea»! Con una certa nonchalance raddoppio senz’altro la dose: «La prostituzione è soltanto un’espressione particolare della prostituzione generale dell’operaio, e siccome la prostituzione è un rapporto di tale natura che vi rientra non solo chi è prostituito ma anche chi prostituisce – la cui abiezione è ancor più grande – anche il capitalista, ecc., rientra in questa categoria» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844). Di qui, il concetto di prostituzione universale.

Se a qualcuno non piace il termine prostituzione applicato a prassi che non implicano l’uso mercantile del corpo delle donne, non ho problemi a sostituirlo con sfruttamento: il concetto rimane tuttavia lo stesso. Per quanto mi riguarda non c’è umanità né dignità nel lavoro salariato (sì, il lavoro che fonda anche la «Repubblica democratica nata dalla Resistenza»), nel lavoro venduto e comparto in guisa di merce.


7. Si badi bene (e qui mi cito, e mi scuso): «Contro ogni evidenza (o apparenza), la merce che il capitalista acquista non è il lavoro, come pensa lo stesso lavoratore, ma l’intera esistenza di quest’ultimo, un’esistenza ridotta appunto a merce. Infatti, ciò che il lavoratore vende e che il capitalista compra è l’uso di capacità lavorativa per un tempo stabilito: un’ora, otto ore, ecc; in cambio di questo uso il lavoratore riceve dal capitalista un salario. Ma questa capacità lavorativa naturalmente non è separabile dall’esistenza del lavoratore, non è qualcosa che il venditore di prestazione lavorativa possa mettere dentro una confezione e alienarla senz’altro in questa guisa reificata: qui è il venditore stesso a essere la confezione della propria merce. Forma e contenuto qui sembrano essere la stessa cosa, in onore alla filosofia della pura identità. Insomma, Il valore di scambio di questa bio-merce equivale, come per ogni altra merce, al tempo di lavoro oggettivato nei “beni e servizi” che ne rendono possibile l’esistenza e la continuità generazionale attraverso la formazione di una famiglia e la procreazione. L’esistenza del lavoratore calcolata (quantificata) in termini di tempo di lavoro oggettivato nei “beni e servizi” vitali rappresenta il valore di scambio della merce-lavoratore, mentre la disponibilità a essere usato per un tempo stabilito contrattualmente costituisce il valore d’uso della nostra bio-merce. Quando il capitalista porta a casa, cioè nell’impresa, la merce-lavoratore (o bio-merce) dando in cambio salario, egli non commette alcuna ingiustizia nei confronti dell’operaio-venditore, non gli sottrae nulla che non abbia restituito interamente sotto forma di salario (di denaro): “Con ciò è quindi realizzata la piena libertà del soggetto. Transazione volontaria; nessuna parte ricorre alla violenza. […] È solo in virtù degli equivalenti che nello scambio i soggetti sono come equivalenti l’un per l’altro”» (K. Marx, Lineamenti, II. Vedi il post Stato di diritto).

Scrive Eugenia Roccella, militante devota alla Chiesa Romana e felicissima di poter assistere ai dolorosi travagli delle “femministe storiche” («La sinistra è spiazzata, le sicurezze ideologiche vacillano, il senso comune, legato all’esperienza, si prende la sua rivincita»): «Emanuele Trevi spiega [a proposito dell’utero in affitto] che si tratta solo di “un contratto tra esseri umani liberi e consapevoli”, senza minimamente considerare che molte forme di sfruttamento nel mondo si basano appunto su contratti liberi e consapevoli» (Il Foglio, 13 dicembre 2015). Brava, sottoscrivo!

Ecco perché quando la simpatica Ministra (si dice così?) della Salute Beatrice Lorenzin parla, sempre a proposito della pratica dell’utero in compravendita, di prostituzione al quadrato, anzi di «ultraprostituzione» con il sottoscritto sfonda una porta aperta, di più: spalancata. Ma la mia porta non si apre verso un atteggiamento repressivo, punitivo, proibizionista, bensì verso un atteggiamento radicalmente critico nei confronti della società che rende possibile l’universale prostituzione, pardon: sfruttamento degli individui.

Secondo alcune femministe “storiche”, attraverso la pratica dell’utero in affitto l’uomo (omosessuale) cerca di «impossessarsi della prole e di un processo, la maternità, da cui gli uomini sono quasi del tutto esclusi, a parte l’apporto biologico iniziale». Pare che ancora oggi, se Dio vuole, non si possa fare a meno di questo «apporto biologico iniziale», anche se la provetta non è certo un simpatico surrogato delle buone pratiche, diciamo così. Ora, anche se così fosse, mi chiedo che bisogno c’è di chiamare la polizia, i carabinieri, la magistratura, l’Unione Europea e l’ONU a tutela del “bene comune-maternità”.

La sociologa femminista Daniela Danna lamenta che «Ci sono in America giovani eterosessuali che si rivolgono a cliniche private per commissionare un bambino. Nonostante siano eterosessuali, cercano di bypassare la presenza materna» (Linkiesta, 5 febbraio 2015). E allora? È questo il nocciolo del problema? Io non credo. Non c’è niente da fare: sento puzza di lesa maestà riproduttiva, mi pare di cogliere la paura di perdere qualcosa (una funzione, un ruolo, un potere) a vantaggio della concorrenza – ognuno è libero di declinarla come crede.

Prima di correre dai carabinieri e di invocare il carcere per «pratiche contrarie alla natura» sforziamoci piuttosto di capire di cosa veramente si tratta, ciò che implica necessariamente un discorso centrato sui processi sociali che modellano e rimodellano sempre di nuovo il nostro mondo.


Scrive Luisa Muraro, «filosofa e figura di riferimento del femminismo italiano»: «Per combattere la prostituzione la legge Merlin funzionò benissimo fino a quando l’immigrazione dai Paesi poveri non diede il via alla massiccia importazione di donne, allettate con l’inganno proprio a causa della loro povertà» (L’Avvenire.it). Si vede che la filosofa femminista non ha mai sentito parlare del mercato nero della prostituzione che fiorì proprio quando le famigerate Case vennero chiuse: il celebre invito di Totò (Italiani, arrangiatevi!) non alludeva solo a pratiche manuali, diciamo. «L’immigrazione dai Paesi poveri» si è poi sommata alla popolazione femminile autoctona, diversificando l’offerta a beneficio della clientela maschile, la quale, detto per inciso, si trova nella paradossale situazione di sfruttare “oggettivamente” (per legge!) una prostituta, sebbene la prestazione professionale erogata da quest’ultima, ancorché non legalmente riconosciuta, non è sanzionata penalmente. Sono i paradossi del proibizionismo e dell’ipocrisia sociale. Certo, si potrebbero sempre abolire i clienti… (3). Ma riprendiamo la citazione: «Allo stesso modo la pratica dell’utero in affitto prospera solo dove c’è miseria. La Francia – lo ha scritto anche Le Monde – risente molto di questo vero e proprio ritorno al colonialismo, con un movimento di francesi che si recano nelle ex colonie. È un colonialismo particolarmente inaccettabile, perché dalla vendita del suo corpo chi non trae alcun vantaggio è la donna».

Siamo sicuri che la risposta giusta sia creare un regime internazionale di proibizionismo su quella pratica affidato alla cura degli Stati e delle organizzazioni internazionali create da quegli stessi Stati?

C’è poi chi è talmente progressista e difensore dei diritti dei bambini da voler costringere per legge tanto le coppie eterosessuali quanto quelle dello stesso sesso alla prova del «progetto genitoriale», così da accertarne l’idoneità alla corretta educazione intellettuale, civile e sentimentale dei figli. E chi dovrebbe stabilire i criteri per fissare i corretti “standard di genitorialità”? Lo Stato? una Commissione scientifica creata ad hoc?, chi? Come sempre le strade che menano all’inferno sono lastricate di eccellenti intenzioni.

Concepire la maternità “tradizionale” come l’ultimo baluardo che ci separa dal baratro del nichilismo totale, come «l’ultima relazione davvero inscindibile, “per sempre”, in un mondo di rapporti labili e precari, che si possono spezzare e interrompere in ogni momento», è una posizione ideologica di retroguardia inefficace sul piano della teoria (comprendere il mondo, capire la natura della Cosa che ci manipola e che ci minaccia) e della prassi (difenderci efficacemente dagli attacchi della Cosa mentre conquistiamo la capacità di metterla definitivamente a letto, diciamo così).


8. Scriveva Oriana Fallaci nel giugno del 2005, alla vigilia del referendum sulla procreazione medicalmente assistita: «Non mi piace, questo referendum, perché, a parte l’industria farmaceutica il cui cinismo supera il cinismo dei mercanti d’armi, dietro questo referendum v’è un progetto anzi un proposito inaccettabile e terrificante. Il progetto di reinventare l’Uomo in laboratorio, trasformarlo in un prodotto da vendere come una bistecca o una bomba. Il proposito di sostituirsi alla Natura, manipolare la Natura, cambiare anzi sfigurare le radici della Vita, disumanizzarla massacrando le creature più inermi e indifese. Non a caso, quando otto anni fa gli inglesi crearono la pecora Dolly, invece di esaltarmi ebbi un brivido d’orrore e dissi: «Siamo fritti. Qui ci ritroviamo con una società fatta di cloni. Qui si torna al nazismo». Quando porti il discorso su Hitler e sul nazismo, su Mengele, fanno gli offesi anzi gli scandalizzati. Cianciano di pregiudizi, protestano che il paragone è illegittimo. Poi nel più tipico stile bolscevico ti mettono alla gogna. Ti chiamano bigotto, baciapile, servo del Papa e del Cardinale Ruini, mercenario della Chiesa Cattolica. Ti dileggiano con le parole retrogrado oscurantista reazionario e posando a neo illuministi, a progressisti, avanguardisti, ti buttano in faccia le solite banalità. Strillano che non si può imporre le mutande alla Scienza, che il Sapere non può essere imbrigliato, che il Progresso non può essere fermato, che i fatti sono più forti dei ragionamenti, che il mondo va avanti malgrado gli ottusi come te».

Lo spettro di Oriana Fallaci con me può stare tranquillo: anch’io disprezzo l’atteggiamento degli illuministi fuori tempo massimo, e nei confronti della religione ho sempre avuto un atteggiamento storico-materialistico, non illuminista. Come mi piace dire, sono “tecnicamente ateo” ma non ateista sul piano filosofico. L’illuminismo e l’ateismo furono una cosa seria nel XVII e nel XVIII secolo, e già a metà del XIX secolo quelle due posizioni avevano perduto ogni vitalità e carattere autenticamente progressista, almeno nei Paesi più sviluppati del mondo. Il punto è, al di là di più o meno fondate analogie storiche fra passato e presente, che tutto quello che preoccupava la Fallaci è già alle nostre spalle, si è già verificato, è già da molto tempo una realtà, e noi non facciamo altro che registrare le continue accelerazioni di un processo ultrasecolare.

Altro che «malefatte dei Frankenstein»: il problema è molto più serio! «Chi in buona fede favorisce il mondo nuovo si ripara sempre sotto l’ombrello delle parole Scienza e Progresso. Forse le più abusate dopo le parole Amore e Pace». Condivido, salvo che per un punto: non si tratta affatto del «mondo nuovo» ma del mondo vecchio, nel cui seno Scienza e Progresso equivalgono a sviluppo capitalistico. Ecco perché è perfettamente inutile prendersela con «i maledetti computer, i maledetti telefonini e il maledetto Internet con cui puoi calunniare chi vuoi e rubare il lavoro altrui senza finire in galera».

Ripeto: chi sostiene che non tutto quello che è tecnicamente concepibile è eticamente e umanamente corretto non capisce la natura profondamente sociale (o antisociale, punti di vista) della tecnoscienza, come ad esempio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio la “conquista atomica”. Non è nelle nostre mani il potere di decidere sulle cose che riguardano gli aspetti fondamentali, vitali della nostra vita, e continuare a illudersi che le cose potrebbero cambiare a parità di regime sociale serve solo ripetere, anno dopo anno, decennio dopo decennio, la solita triste litania: «in fondo prima si stava meglio». Sono secoli che si ripete questo sciocco ritornello. La verità è che, posta la società divisa in classi sociali, il peggio è sempre, soprattutto per i nullatenenti, e non smette di peggiorare.


9. Come si vede, io mi muovo, a tentoni e goffamente, sul terreno della critica radicale della vigente società, non su quello dei diritti, più o meno astratti, più o meno “civili”. Al di là del merito delle singole battaglie, conta moltissimo la prospettiva concettuale dalla quale ci muoviamo per dare battaglia. Non poche lotte iniziate rivendicando la salvaguardia di ciò che di umano residua nella nostra condizione disumana (penso alle battaglie ecologiste, o a quelle connesse alla “biopolitica”) finiscono per risolversi in un illusorio tentativo di rallentare processi sociali radicati nell’essenza stessa di questa società. Non pochi “umanisti”, poi, conservano l’illusione giacobina di poter cambiare le teste e le inclinazioni degli individui senza mutare ciò che, «in ultima analisi», orienta quelle teste e quelle inclinazioni. E magari, a fallimento accertato, decapitare gli incorreggibili, in attesa di veder rotolare la propria testa. Ma l’illusione giacobina del XVIII secolo fu una cosa tragicamente seria, mentre gli odierni “giacobini” non arrivano nemmeno a sfiorare il livello della farsa.

«Bisogna fermare lo sfruttamento del corpo femminile e il sistema di produzione industriale dei bimbi». Ci sto dentro! Ma senza proibizionismi di sorta, senza invocare la protezione del Leviatano, e senza ideologismi – del tipo di quelli che tendono a discriminare tra supposti bisogni naturali e cosiddetti bisogni artificiali o «indotti dal mercato»: il Capitalismo (il Capitalismo tout court, non la sua presunta variante degenere chiamata neoliberismo o liberismo selvaggio, come pensano le “femministe storiche”) (4) va superato, non esorcizzato o, men che meno, “umanizzato” mediante illuministiche “rivoluzioni culturali”.

Invocare il senso del limite e la necessità di una «zona di impossibilità» (Massimo Recalcati) in grado di porre un freno a un godimento completamente in balìa delle sirene del mercato, sordo a ogni etica della responsabilità e delle conseguenze (5), il tutto a parità di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, significa davvero non capire la natura del Moloch sociale con cui abbiamo a che fare; significa voler raddrizzare un albero che deve essere storto a causa delle leggi che ne informano lo sviluppo.

Odisseo non va legato all’albero della ricurva nave: va piuttosto liberato portandolo in acque interdette per sempre a ogni forma di dominio e di sfruttamento.



Note

(1) «Toni Negri mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico. Penso che non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze» (M. Tronti, Noi operaisti, p. 111, DeriveApprodi, 2009). «La crisi europea è proprio crisi di potenze catecontiche. Il potere politico non frena, non trattiene il globale, e anche la Chiesa governa sempre meno… E quando il katechon non frena più, che cosa succede? Il pensiero reazionario dell’800 vedeva la vittoria dei barbari: socialismo, ateismo… C’è anche questo, ma io ho una lettura apocalittica: non semplicemente l’assalto esterno, barbarico, ma “energeitai”. L’Anticristo non si è manifestato, ma è già in tutta la sua energia ovunque, anche nella Chiesa» (M. Cacciari, Politica e Chiesa non sanno più contenere il male, La Stampa, 29 marzo 2013). Su questi temi rimando ai miei appunti di studio Dominio e katechon.

(2) Scrive Riccardo Staglianò: «Le donne del mondo industrializzato vogliono un figlio che possono permettersi economicamente, ma non fisicamente. Le “donatrici” indiane, brasiliane, dell’Est Europa hanno lombi fecondi e non un euro in tasca. Che domanda e offerta finissero per incontrarsi secondo logiche globalizzate era fatale. Ci si può chiedere se il prezzo sia giusto. Discutere sulle implicazioni etiche. Senza illudersi di arginare il bisogno più di quanto si possa con i container cinesi» (Associazione Luca Coscioni). Staglianò informa che dall’Ucraina ti porti a casa un bellissimo bebè da madre surrogata spendendo sui 20-40 mila euro. E nel resto del mondo? «Dal ‘76 a oggi, calcola l’Organization of Parents Through Surrogacy, sono venuti al mondo così circa 28 mila bambini negli Stati Uniti. I costi variano dai 30 ai 60 mila dollari, tutto compreso. Più che in Ucraina, senza considerare la maggiore distanza e il viaggio. Il motivo per cui solo i ricchi europei si avventurano a varcare l’oceano. Gli altri prendono un biglietto per Kiev…».
«L’industria della maternità surrogata in Thailandia negli ultimi anni è cresciuta notevolmente. Le coppie che non sono capaci di riprodurre ricorrono ai servizi delle società che si trovano là per selezionare una madre surrogata. In generale, i prezzi della realizzazione della FEC in Thailandia non si differenziano molto da quelli praticate in altre cliniche di riproduzione. Il costo dei servizi di maternità surrogata è però molto più basso che nei paesi in cui la maternità surrogata è completamente legale» (Lavitanova.net). Come sempre cinico è innanzitutto il Dominio e non tanto le parole che ne danno testimonianza.
(3) Nel febbraio del 2014 il Parlamento europeo approvò una «risoluzione non vincolante» sullo sfruttamento sessuale e la prostituzione basata su un testo proposto dalla deputata laburista inglese Mary Honeyball. Secondo questa risoluzione, che giudica la prostituzione «una forma di schiavitù incompatibile con la dignità umana e i diritti umani» (non più di altri meno retribuiti e più pesanti mestieri, direbbero alcune lavoratrici sessuali), bisogna criminalizzare «chi acquista servizi sessuali e non chi li vende», secondo il cosiddetto modello nordico proibizionista adottato in Svezia, Islanda e Norvegia. Naturalmente il mondo dei sex workers si è rivoltato contro: «Il modello svedese di criminalizzazione dei clienti», sostiene Luca Stevenson, coordinatore dell’International committee on the rights of sex workers in Europe, «non solo è inefficace per ridurre la prostituzione e la tratta, ma è anche pericoloso per le/i sex workers. Infatti aumenta lo stigma che è la maggiore causa di violenza contro di noi. È una politica fallimentare denunciata da tutte le organizzazioni di sex workers e da molte organizzazioni di donne, Lgbt e migranti». Secondo Marija Tosheva, advocacy officer della Swan, «Il rapporto non riesce a rappresentare le differenti realtà del lavoro sessuale nei contesti europei. Rinforza gli stereotipi che tutte le donne provenienti dall’Est Europa siano trafficate in Europa occidentale, mettendo a tutte l’etichetta di “vittime”, escludendole dal dibattito e dai processi decisionali. Alcune sex workers migrano per cercare migliori opportunità di lavoro, alcune diventano vulnerabili alla violenza e allo sfruttamento, ma etichettare tutte le sex workers come vittime di violenza e criminalizzare ogni aspetto del lavoro sessuale vuol dire distogliere lo sguardo dalla realtà per guardare a soluzioni moralistiche e repressive».
(4) «Per questo micidiale neoliberismo tutto deve tradursi in merce, tutto si compra e si vende. Non è solo un business, è una cultura, una tendenza generale a farci ragionare in questi termini» (Luisa Muraro). Non a caso Marx parlò di «immane raccolta di merci» a proposito della moderna società capitalistica. Il corpo stesso degli individui è, infatti, diventato una «immane raccolta di merci», una verde prateria in continua espansione a disposizione del cavallo capitalistico (il Capitale non conosce un limite fisico, ma anzi esso crea sempre di nuovo spazio esistenziale su cui scorrazzare liberamente), un laboratorio che fa la gioia e la fortuna di chi per mestiere inventa nuovi bisogni, nuovi desideri, nuove “utopie”, nuovi sogni, nuove necessità. Ma che fa anche la gioia e la fortuna di chi si guadagna il pane aggiustando l’anima strapazzata di un «capitale umano» a sempre più alta «composizione organica» e a sempre più basso “saggio di umanità”: la caduta di questo “saggio” non è tendenziale ma fattuale, quasi misurabile.
(5) «Si tratta di spiegare alla gente che la libertà illimitata cioè privata d’ogni freno e d’ogni senso morale non è più Libertà ma licenza. Incoscienza, arbitrio. Si tratta di chiarire che per mantenere la Libertà, proteggere la Libertà, alla libertà bisogna porre limiti col raziocinio e il buon senso. Cnoi cannibali e i figli di Medeaon l’etica» (O. Fallaci, Noi cannibali e i figli di Medea, Corriere della Sera, 3 giugno 2005). Il punto è: siamo davvero liberi? Su questi temi rimando a Eutanasia del Dominio, L’Angelo Nero sfida il Dominio, Il libero arbitrio.