uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

domenica 31 dicembre 2017

Trentunodicembreancora







Tempo al tempo
il tempo si rinnova.
Non passa mai quest'ora
ed e già passata un'era.















venerdì 29 dicembre 2017

I sogni elettrici di Philip K. Dick






"Philip K. Dick’s Electric Dreams" è la nuova serie cult ispirata ai racconti del maestro della sci-ficton e che ne rispetta la sua anima più politica e visionaria. Si lascia affascinare da un piccolo e prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere è sinonimo di controllo occulto.


***

“Io sono Vivo, voi siete morti”

Philip K. Dick – Ubik



“Dio promette la vita eterna” disse Eldritch. “Io posso fare di meglio; posso metterla in commercio.”



Philip K. Dick – Le tre stimmate di Palmer Eldritch








Il 17 settembre 2017, su Channel 4, debutta una nuova serie TV prodotta dall’omonimo canale inglese insieme ad Amazon Prime Video (che ospiterà gli episodi per la distribuzione USA) e Sony Pictures Television. Ispirata interamente alle opere di Philip K. Dick e intitolata Philip K. Dick’s Electric Dreams, con evidente riferimento al titolo originale del romanzo breve più famoso dell’autore, Do Androids Dream of Electric Sheep?, che in italiano suona più o meno Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, la serie promette bene già dal trailer. È singolare che sia proprio l’opera del ’68, tradotta in Italia col più sobrio nome Il Cacciatore di Androidi, a ispirare il titolo di questa singolare operazione Tv britannica.



In totale controtendenza con l’odierno protrarsi dello sviluppo seriale, che vede come scelta principale la moltiplicazione del tempo e lo sviluppo ossessivo dei personaggi, gli autori di Electric Dreams scelgono la propria dimensione nel racconto finito, presentando episodi slegati tra loro, strutturati in sé stessi e abilmente selezionati. Ne vengono fuori 10 “sogni elettrici”, sogni a occhi aperti in cui la narrazione stessa viene affidata a individualità distinte, cioè il meglio degli sceneggiatori americani attualmente su piazza.





Quasi schierando una squadra di calcio fatta solo di eccellenze, ogni capitolo si avvale di una firma di prestigio: Matthew Graham (Life On Mars)David Farr (The Night Manager), Jack Thorne (Harry Potter e la maledizione dell’erede)Ronald D. Moore (Outlander, Battlestar Galactica), Tony Grisoni (The Young Pope), Jessica Mecklenburg (Stranger Things), Dee Rees (Bessie), Travis Beacham (Pacific Rim, Scontro tra titani), i veterani Kalen Egan e Travis Sentell (The Man in the High Castle) già sperimentatori di suggestioni dickiane e infine Michael Dinner (Justified, Master of sex, Sons of Anarchy).



Il parterre di sceneggiatori si confronta a colpi di penna allo scopo di restituire scenari e personaggi venuti fuori dalla prolifica mente di Dick e, in particolare, delle sue short story dei primi anni ‘50. L’obiettivo è più che ambizioso, ma il merito sta già nella scelta delle storie che vanno dal ‘53 al ‘55. Anni fondativi per la fantascienza americana, in cui proliferavano magazine straordinari, densi di spazi narrativi modernissimi e, purtroppo, spesso dimenticati. I Racconti vengono pubblicati su riviste utopiche: Imagination, Amazing, IF, Future Science Fiction, Startling Stories, Science Fiction Adventure e Galaxy, veri e propri contenitori di magie, di costruttori dall’inarrivabile ingegno e di copertine fantasmagoriche che in Italia furono presto ispirazione per la collana Urania, e poi, negli ’80, riferimento per riviste illustrate come l’Eternauta e Frigidaire.




La scelta della serie è quindi affidarsi al Dick degli esordi – il suo primo racconto, “The Little Movement”, è infatti del 1952 – e di attingere a un corpus di racconti che presenta un immaginario meno noto e più visionario. Scelta singolare e politica, in totale controtendenza con il mercato. Rinunciando al già noto, Philip K. Dick’s Electric Dreams si lascia affascinare da un piccolo e prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere è sinonimo di controllo occulto.



Ma facciamo un passo indietro.



Philip K. Dick nasce nel 1928, la sua gemella muore dopo pochi giorni dal parto. Cresce con la madre, una donna nevrotica e anaffettiva che lo costringe a una perpetua infelicità. L’infanzia dolorosa lascia il segno e consegna Philip a una precoce e tormentata esistenza da tossicomane. Un giovane uomo dalle tendenze suicide, sbandato e paranoico.



Dick è lo scrittore fallito per eccellenza, che sbarca il lunario scrivendo ossessivamente un racconto dopo l’altro, e intanto, all’insaputa del mainstream che lo respinge, ibrida la fantascienza con la satira e la parodia con la politica. In silenzio, come un artigiano del futuro, innesta il gusto per la detective story – ispirandosi a maestri del calibro di Wells e Van Vogt – nell’ erotismo velato delle sue protagoniste femminili. Dietro una porta chiusa, che cercherà disperatamente di aprire, diventa il sommo Cantore della science fiction, il precursore di quello che sarà poi definito Cyber-punk. Novello Van Gogh, è l’autore che sfonderà qualsiasi barriera di notorietà senza avere il piacere di saperlo e senza visualizzare quel flashforward che, di fatto, lui stesso ha inventato.





A sua insaputa Dick è uno degli autori dai quali Hollywood ha attinto a piene mani e spesso malamente, un saccheggio costante e certosino che ha portato il suo nome al successo e che, ironia della sorte, si vedrà pochi giorni dopo la sua morte (1982) con l’arrivo in sala del Blade Runner di Ridley Scott, tratto appunto da Do Androids Dream of Electric Sheep? E realizzando anche, con la sua dipartita, un ennesimo tragico racconto dei suoi.



Blade Runner, è utile ribadirlo, diviene subito un successo planetario, e in seguito Il Cult dei Cult per tutto il cinema che segue, tanto che ancora oggi, dopo trentacinque anni dalla sua distribuzione, il pubblico planetario ha vissuto in trepidante attesa l’arrivo in sala di Blade Runner 2049, a firma di Villeneuve (uscito il 4 ottobre). Insomma, grazie al Rick Deckard interpretato da Harrison Ford e allo struggente replicante Roy interpretato da Rutger Hauer, il mondo di Dick inizia a sfondare il muro del silenzio, utilizzando un impietoso rewind e proiettando lo sconosciuto Philip nell’iperuranio dei più grandi. Ma visto che Philip non è fortunato come Rachel (Sean Young in Blade Runner) e non presenta alcun difetto di fabbricazione, molto banalmente muore prima di vedere cose che noi umani…

Tuttavia fa in tempo a porre uno dei quesiti più affascinanti in seno alla letteratura fantascientifica, ovvero: fino a che punto l’uomo può dirsi Umano? Tema cardine della sua poetica, troppo spesso eluso dal cinema che seguirà.





Dopo l’epifania dell’82, infatti, in un grottesco gioco rovesciato delle parti, è proprio il mainstream hollywoodiano, quello puro e feroce, per intenderci: quello da cassetta, a prendere spunto dal suo immaginario normalizzandone gli affondi rivoluzionari e utilizzando quasi sempre solo l’involucro delle sue profonde speculazioni. Così, come per magia, i ‘90 si aprono con Atto di Forza (Total Recall), in cui il massiccio Arnold Schwarzenegger banalizza a colpi di cazzotti uno dei racconti più complessi dello scrittore (We Can Remember It For You Wholesale), nel quale, totalmente inascoltati, emergono per la prima volta due degli aspetti fondamentali dello stile dickiano: una particolare affinità con il kitsch e la sensazione di costante sbalordimento dei suoi personaggi.



Il nuovo millennio cinematografico è integralmente suo, gli Usa sfornano in rapida successione e senza soluzione di continuità Impostor (2001), Minority Report (2002), Paycheck (2003), A Scanner Darkly (2006), Next (2007), ma la carcassa è grande e gli anni Dieci si affidano alla sua inventiva lasciando stare la poetica, regalando a un pubblico di credenti gli scialbi adattamenti di Radio Free Albemuth (2010) e I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, 2011), e infine gli imbarazzanti remake Total Recall (2012) e Minority Report (stavolta per il piccolo schermo, 2015).



Insomma Dick è tutto quello che serve per fare un buon film di successo, e inutile aggiungere l’importanza e l’influenza massiccia della sua filosofia e delle sue liricissime paranoie precognitive, che spuntano come semi sparsi in tutto l’impianto visivo e narrativo del cinema contemporaneo. Senza lo scrittore americano non sarebbero mai esistite saghe e film di culto come Terminator, The Truman Show, o The Matrix, né tantomeno le serie che hanno fatto la storia della televisione come Lost o quelle che si concentrano sulla contorsione distopica dello spazio-tempo partendo da Dottor Who passando per Fringe e fino ad arrivare a Black Mirror.






È per questo che oggi, quasi come un dovuto tributo postumo, il mondo delle serie cerca di riportare la riflessione contemporanea dell’immaginario dickiano verso una sorta di redenzione, spingendosi oltre i confini del mainstream, dell’incasso a ogni costo e cercando di risarcire l’autore-culto con adattamenti che tendono alla sua dimensione più vera, politica e undergound. In questa precisa ottica prende vita l’adattamento di La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 2015), giunto con successo al rinnovo per una terza stagione su Amazon Video e, senza dubbio, verso questo nuovo territorio si iscrive il progetto di Philip K. Dick’s Electric Dreams con i suoi 10 episodi (ognuno di circa 60 minuti) tutti indipendenti tra loro e senza badare più di tanto al botteghino.



Come un regalo inaspettato in Philip K. Dick’s Electric Dreams la scelta dell’episodio singolo regala a questa coraggiosa serie anche un’altra sorprendente bizzarria, moltiplicando una quantità ragguardevole di ruoli attoriali: tutti solidi e distinti. Un boccone ghiotto cui interpreti illustri non riescono a rinunciare.



Così i dieci capitoli prendono forma sperimentando scrittura, regie e ruoli di cui è interessante seguirne sfaccettature e sorti. Nel primo episodio: “In the Hood Maker”, basato sulla short story pubblicata nel ‘55 sul magazine Imagination, è Richard Madden, il Robb Stark del Trono di Spade, a confrontarsi con una perfetta Holliday Grainger, l’ultima Cenerentola di Kenneth Branagh, in una storia d’amore tra telepati. 

In “The Impossible Planet”, omonimo del racconto uscito nel ‘53 ancora su Imagination, è il talentuoso Jack Reynor, l’intellettuale del vinile di Sing Street, a confrontarsi con l’icona del cinema mondale Geraldine Chaplin, in un viaggio che trascende i limiti del possibile.



Il terzo episodio, “The Commuter”, dal racconto pubblicato sulla Fanzine Amazing del ’53, ha come protagonista il sommo Timothy Spall, il Turner di Mike Leigh, nonché il personaggio di coda liscia della saga di Harry Potter. Qui l’attore è messo a confronto con Hayley Squires, la coprotagonista di Io Daniel Blake, e scopre da impiegato di una stazione ferroviaria che i pendolari viaggiano verso una città che non dovrebbe esistere. Il quarto episodio, “Real Life”, tratto dal racconto “Exhibit piece” uscito nel ‘54 sulla rivista di science fiction IF, vede la simbiosi investigativa di due dei migliori attori “seriali” dei nostri tempi, ossia la Anna Paquin di True Blood e il Terrence Howard di Empire.


L’interpretazione dell’episodio “Crazy Diamont”, invece, tratto dal racconto “Sales Pitch” del ’54, uscito sul magazine Future Science Fiction, è affidata a un incredibile Steve Buscemi, coinvolto in un clamoroso furto del futuro. Mentre “Human Is”, tratto dall’omonimo racconto del ‘55 per la rivista Startling Stories, vede come protagonista Bryan Cranston (Breaking Bad), in cui l’attore culto, nonché produttore dell’intero progetto seriale, sperimenta una tormentata relazione coniugale. Per “Kill all others”, ispirato a “The Hanging Stranger” pubblicato in Science Fiction Adventure nel ’53, è la Norma Bates (Vera Farmiga) di Bates Motel a svolgere il ruolo della fredda donna politica che fomenta la violenza in uno paese ormai allo sbando.



In “Autofac”, dall’omonimo racconto del ‘55 uscito su Galaxy, invece, è Juno Temple, geniale scopritrice di talenti della serie Vinyl, a condurre la rivolta verso chi ritiene il libero arbitrio solo un ritardo del consumo dei prodotti. In “Safe and Sound”, ispirato a “Foster You’re Dead!”, uscito su Star Science Fiction Stories nel ’55, sarà Annalise Basso (Captain Fantastic), affiancata dalla star di E. R. Maura Tierney, a dar forma alla paranoia esistenziale di una società ossessionata dalla sicurezza. Infine, nell’ultimo episodio, toccherà alla coppia Greg Kinnear (Little Miss Sunshine) e Jack Gore (The Michael J. Fox Show) dover configgere nei meandri del rapporto padre-figlio, durante un’invasione aliena.



L’operazione complessiva di Philip K. Dick’s Electric Dreams, tra sceneggiature e cast stellare, si discosta dal già visto proponendo una libera interpretazione di Dick che si concentra sui significanti più che sui semplici significati dei suoi racconti. Grazie a questa scelta di prolificazione dei punti di vista, la serie compone e destruttura generi differenti passando dal “drama” antirazzista di un poliziotto telepatico (chiaro omaggio al Rick di Blade Runner) al noir robotico.



Dalla crook story, ambientata in un futuro post-apocalittico, alla paura del diverso che esplode in una metropoli fagocitante. Dal padre alieno al marito violento, da macchine più sagge degli umani a viaggi simulati. Il tutto tenuto insieme attraverso una rappresentazione complessiva che produce una singolarità impeccabile, quasi aspirando all’atmosfera dell’indimenticabile serie tv degli anni ‘60 The Twilight Zone, in cui per ogni episodio la stentorea voice off annuncia che:



C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.”





E Philip K. Dick’s Electric Dreams prova a spingersi ai confini della realtà, la realtà di un mercato spesso ottuso e impietoso verso l’opera di un maestro come Dick. Quello che resta è senza dubbio un tentativo assolutamente politico e in controtendenza, che ha l’obbiettivo di investigare la poetica più che la retorica di Dick, attingendo alle maglie più nascoste del suo sterminato immaginario. Philip K. Dick’s Electric Dreams meriterebbe quindi il successo da riservare alle opere di puro coraggio e non resta che augurare alla serie buona fortuna in attesa della prossima opera ispirata al maestro della sci fiction, sicuri del fatto che sia dietro l’angolo, ma speranzosi che si orienti nella giusta “quinta” dimensione.


lunedì 18 dicembre 2017

Il punto della concentrazione


 



In un precedente articolo si introduceva la pseudo-formula della concentrazione. L'idea tautologica di fondo è che all'accrescersi della concentrazione dei capitali e dei poteri di sorveglianza e di intervento decresca il grado di democrazia. Che cioè, in definizione, la democrazia ceda progressivamente terreno all'oligarchia e al totalitarismo:




Se la democrazia si realizza nella disseminazione non solo dei poteri decisionali ma anche del benessere, del risparmio e della proprietà (Cost. art. 47), non può stupire che il suo recente declino si sia accompagnato a innovazioni politiche, giuridiche ed economiche attivamente tese a promuovere un maggior grado di concentrazione. La tendenza riguarda tutti i settori, esprimendosi ad esempio in campo economico come concentrazione dei capitali, già caposaldo dell'analisi marxiana:
Gli esercizi commerciali diventano franchising di catene internazionali, i marchi storici finiscono in pancia alle corporation, le banche si aggregano, gli operatori di servizi e le aziende di Stato arricchiscono il portafoglio dei grandi investitori, le compagini azionarie e le sedi legali migrano da una giurisdizione all’altra – impercettibili al fisco, onnipresenti al consumatore e ai listini di borsa. Il tutto tra il plauso e l’incentivo del legislatore, che immemore del «Too Big to Fail» si vanta di promuovere l’«efficientamento» e le «economie di scala» (La crisi narrata, pag. 41).

Nell'articolo citato, dove si indagava la declinazione informatica del concetto e la collegata ossessione della «dematerializzazione», si ipotizzava che la concentrazione cresca al diminuire della «diffusione dei poteri» o lunghezza della catena decisionale (D) e del «loro costo» (C) e all'aumentare delle persone (Pa) che subiscono il potere p:





A corredo dell'ipotesi si osservava che nella retorica politica e giornalistica più vulgata la concentrazione non appaia come una piaga a cui metter freno per proteggere i diritti della democrazia, ma sia anzi programmatica e auspicata:
L'idea che la disseminazione delle responsabilità e degli ostacoli all'esercizio di un potere garantiscano la sicurezza e i diritti di tutti è... un principio fondante della democrazia, la quale allarga la base dei poteri intrecciando «pesi e contrappesi», organi di vigilanza, collegi giudicanti e legislativi, commissioni, articolate gerarchie di comando ecc. e coinvolgendo periodicamente l'intera cittadinanza nella nomina di chi la amministra. Non è assolutamente un caso che in anni recenti [le] garanzie [del]la diffusione dei poteri decisionali e [de]l loro costo... siano esplicitamente demonizzate dai teorici, commentatori e protagonisti più accreditati e vocali del «riformismo» politico. Né che seguano gli appelli a «tagliare i costi della politica», rimuovere «lacci e lacciuoli», diminuire i parlamentari, sopprimere organi politici come province e Senato, snellire ulteriormente i processi legislativi, «disintermediare» i rapporti di lavoro ecc. Tutto serve a... consegnare più poteri a un numero più ristretto di decisori.



Dopo avere pubblicato la formula, i più pensosi tra i miei lettori mi fecero notare un «baco», che cioè al diminuire del costo C (che io stesso avevo ipotizzato tendente a zero, in un caso teorico) il numero di decisori D sarebbe stato irrilevante persino nel caso in cui D ≥ Pa.

È però evidente che una pseudo-formula sociale ha un valore strettamente maieutico e non può soddisfare i requisiti di una legge fisica o matematica. Se non altro perché i valori di costo ipotizzati - che includono «costi economici diretti, numero di azioni richieste, difficoltà fisiche e logistiche, eventuali rischi legali ecc.» - sono qualitativi e non puntualmente quantificabili. Su quella linea di critica si sarebbero dovuti rilevare altri e più seri problemi nell'equazione, come ad esempio il fatto che le unità di misura non si elidono nella frazione.

Sebbene tutto ciò non ne infici la funzione esplicativa, mi sono riproposto di correggere la formula con l'aiuto di un consulente più qualificato di me, non tanto per pedanteria ma perché quella matematizzazione si era rivelata utile per indagare le dinamiche e i determinanti di un fenomeno altrimenti sottinteso e sfuggente. 

Tra le migliorie possibili: uno sviluppo dei costi C che includa la sommatoria della catena degli esecutori E con i relativi costi > 1 (gli esecutori sono anche decisori, possono decidere di non eseguire), o ancora l'inclusione di una variabile di partecipazione ai costi della decisione da parte della platea Pa che la subisce, diventandone così un esecutore indiretto.


L'ultimo aspetto appare urgente se si considera che, come è stato accennato, il trasferimento ai vertici di poteri e sostanze cerca il consenso della base che ne è deprivata, e quasi sempre lo trova. Il costo della concentrazione, specialmente nel suo costituirsi, finisce così per essere in massima parte sostenuto da chi è destinato a subirne gli effetti. Per cogliere i moventi di questa complicità degli spogliati ci soccorrono il titolo e la chiusa di un articolo di Alberto Bagnai pubblicato sul Fatto Quotidiano del 3 gennaio 2017, dove l'intento di istituire un controllo e un potere di censura centralizzati sulla pubblicazione delle «fake news» era giudicato tanto più pericoloso in quanto, tra l'altro, consegnerebbe in futuro uno strumento di oppressione a una destra autoritaria «che incombe minacciosa» nei sondaggi europei. Lo stesso concetto è stato più recentemente rilanciato dalla giornalista Stefania Maurizi su Twitter e, in termini più generali, anche dal sottoscritto.





Ora, un arbitrio non può essere più o meno accettabile a seconda di chi lo commette: se la destra, la sinistra o il centro. Sicché il monito di Bagnai coglie bene l'aporia fondamentale di chi accetta di concentrare sovranità, poteri, diritti e posizioni di vantaggio nelle mani di un soggetto forte di cui oggi si fida, omettendo di considerare la contingenza delle qualità - vere o presunte - che lo renderebbero degno di quella fiducia. Se è teoricamente possibile - ma empiricamente poco plausibile - che una forte concentrazione di poteri produca oggi il massimo beneficio per chi vi è soggetto, nulla garantisce che domani, o in circostanze diverse, il suo abuso non annulli quel beneficio introducendo problemi più seri e più difficili da revocare. 

La valutazione richiede però uno sguardo programmatico che manca a un pubblico accecato dall'orizzonte breve dell'emergenza, del «fate presto» e del pericolo politico, finanziario, terroristico, sanitario, mediatico, fascista eccetera che incombe, tanto incline a dare carta bianca ai forti e a proiettarvi il proprio bisogno di un «mondo giusto» (Lerner, 1980), quanto spaventato, se non incattivito, dalla presunta inadeguatezza dei deboli nel far fronte alle minacce del momento. Spaventato cioè da se stesso, dal popolo anonimo e diffuso e dalla libertà dei suoi membri. E, quindi, dalla democrazia.
 
E poiché nulla è nuovo sotto il sole, dall'illusione di un'emergenza perpetua scaturisce l'esigenza di un'altrettanto perpetua legge marziale, la smania di consegnarsi bendati a un Goffredo da Buglione:
Ove un sol non impera, onde i giudíci
pendano poi de' premi e de le pene,
onde sian compartite opre ed uffici,
ivi errante il governo esser conviene.
Deh! fate un corpo sol de' membri amici,
fate un capo che gli altri indrizzi e frene,
date ad un sol lo scettro e la possanza,
e sostenga di re vece e sembianza.





La questione è tutta di metodo, sicché le discussioni di merito servono solo ad annacquarla. Sarebbe profondamente sciocco dilungarsi - come purtroppo accade - sulla maggiore o minore propensione di agenzie nazionali e sovranazionali, banchieri, grandi investitori, multinazionali del farmaco e dell'industria, colossi del web e monopolisti ad abusare degli enormi poteri che stiamo accumulando nelle ristrette consorterie di chi li dirige, sulla loro buona o cattiva fede, su quanto siano galantuomini, sinceri o privi di scrupoli, su quali crimini possano commettere avvalendosi di quei poteri e fin dove siano disposti a spingersi per realizzare un vantaggio privato a scapito di quello generale.

Ciò non ha alcuna importanza, è anzi fuffa, dietrologia, gossip. L'unica posizione ragionevole è che quel potenziale non deve neanche esistere e che le libertà e i poteri diffusi, o quel che ne resta, devono essere difesi coi denti perché sia negata la possibilità dell'abuso. Gli eventuali «buoni» saranno i «cattivi» di domani, i decisori di cui ci fidiamo cederanno il posto ad altri decisori, gli azionisti ad altri azionisti, «le sinistre» a «le destre» e viceversa. Se non sappiamo chi e come adopererà le armi che stiamo conferendo in un solo arsenale, abbiamo però una certezza: che non le riavremo più indietro quando ne subiremo i colpi.





Quando mio figlio guarda il cartone animato di Robin Hood crede che i cittadini di Nottingham soffrano perché il perfido Giovanni Senzaterra si è insediato sul trono del fratello Riccardo. Ma una volta cresciuto gli racconterò un'altra storia, che il problema era invece il buon Riccardo, il cui regno illuminato aveva illuso i sudditi di potersi fidare del potere in carica. E che, al contrario, fu dalle tensioni insorte tra il dispotico Giovanni e i baroni ribelli che scaturì la Magna Charta con cui si tracciava un limite all'arbitrio assoluto del sovrano: di qualunque sovrano, amico o nemico secondo il metro di ciascuno. 

Correva l'anno 1215. Otto secoli dopo quegli aristocratici strabilierebbero sentendoci blaterare di «esecutivo forte», «Senato di rappresentanza», «misure drastiche», «governance internazionale», «mercati globali» e investitori che «ci chiedono», «dimensioni per competere», «ricatto delle minoranze», centrali di acquisto, economie di scala, «nanismo delle imprese», big data, digitalizzazione dei processi, armonizzazione delle norme. Riderebbero della nostra nostalgia di un totalitarismo de iure o de facto che ci dovrebbe costringere... al progresso.

Il discorso sulla concentrazione è un caso lampante di ripetizione dell'ovvio. Perché i suoi pericoli sono già tutti nella definizione di democrazia, nell'applicazione dell'aritmetica alle masse di uomini e capitali e nella serie ormai lunga dei suoi fallimenti storici e delle sue promesse mancate. Per quanto sintomo e non causa, la sua ricorrenza in fenomeni all'apparenza molto diversi ne fa uno strumento utile per registrare e comunicare i tanti volti del decadimento economico e sociale e della «rifeudalizzazione» in corso.


Perché in effetti non c'è quasi problema in cui non si affacci un aumento della concentrazione: dal trasferimento delle sovranità nazionali alla Commissione di un superstato continentale solo nominalmente democratico, all'umiliazione dei governi locali ridotti a funzionari, intermediari, esattori; dal trionfo dei gruppi industriali transnazionali che divorano le produzioni locali e dettano le regole del lavoro e del consumo, alle fusioni bancarie con l'abolizione del voto diffuso e cooperativo e la creazione di gruppi facili da vendere, impossibili da controllare; dal progressivo coagulo di monopoli privati nei servizi pubblici alla formazione di fondi finanziari in grado di comprare tutto, anche le politiche degli Stati . 






E ancora: l'affermazione di una «verità ufficiale» mediante commissioni e algoritmi, il transito di dati pubblici e privati sulle piattaforme digitali di pochi e onnipotenti operatori, la compulsione alla «smaterializzazione» e il conseguente trasferimento di tutte le informazioni, anche sensibili, anche strategiche, anche determinanti per il governo pubblico, nei canali telematici e sui sistemi di una manciata di imprenditori privati, la digitalizzazione coatta dei pagamenti, la sorveglianza telematica globale, il delirio distopico delle «città smart»

Fino all'ultima declinazione del concetto, quella con cui si mira a concentrare il potere anche sull'hardware dei nostri corpi: la somministrazione permanente, universale e obbligatoria di farmaci accidentalmente vaccinali e «salvavita» a intere popolazioni, nessuno escluso e per nessun motivo, direttamente nel sistema circolatorio, preparati da un oligopolio mondiale di industrie in miliardi di dosi e sotto gli auspici di un unico organismo sovranazionale.
 
Di questi, come degli altri suddetti, ci siamo fidati troppo ieri epperò dobbiamo fidarci oggi e anche domani consegnando loro poteri ancora più ampi. Cosa può andare storto?

La concentrazione è infine un fattore intrinseco di instabilità. Anche in regime di perfetta buona fede - qualsiasi cosa voglia dire, cioè nulla - basta un errore per produrre effetti abnormi che si riverberano e si alimentano nella sterminata platea dei soggetti. E poiché gli errori li abbiamo sempre commessi e continueremo a commetterli, la concentrazione non genera colossi Too Big To Fail ma la garanzia di una failure universale senza nicchie di scampo, senza reti di riserva a cui affidare la tenuta del sistema. 

Torneremo spesso a occuparcene.