"Philip
K. Dick’s Electric Dreams" è la nuova serie cult ispirata ai
racconti del maestro della sci-ficton e che ne rispetta la sua anima
più politica e visionaria. Si lascia affascinare da un piccolo e
prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma
continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione
di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere
è sinonimo di controllo occulto.
***
“Io sono Vivo, voi siete morti”
Philip K. Dick – Ubik
“Dio promette la vita eterna” disse Eldritch. “Io posso fare di meglio; posso metterla in commercio.”
Philip K. Dick – Le tre stimmate di Palmer Eldritch
Il
17 settembre 2017, su Channel 4, debutta una nuova serie TV prodotta
dall’omonimo canale inglese insieme ad Amazon Prime Video (che
ospiterà gli episodi per la distribuzione USA) e Sony Pictures
Television. Ispirata interamente alle opere di Philip K. Dick e
intitolata Philip K. Dick’s Electric Dreams, con evidente
riferimento al titolo originale del romanzo breve più famoso
dell’autore, Do Androids Dream of Electric Sheep?, che in italiano
suona più o meno Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, la
serie promette bene già dal trailer. È singolare che sia proprio
l’opera del ’68, tradotta in Italia col più sobrio nome Il
Cacciatore di Androidi, a ispirare il titolo di questa singolare
operazione Tv britannica.
In totale controtendenza con l’odierno protrarsi dello sviluppo seriale, che vede come scelta principale la moltiplicazione del tempo e lo sviluppo ossessivo dei personaggi, gli autori di Electric Dreams scelgono la propria dimensione nel racconto finito, presentando episodi slegati tra loro, strutturati in sé stessi e abilmente selezionati. Ne vengono fuori 10 “sogni elettrici”, sogni a occhi aperti in cui la narrazione stessa viene affidata a individualità distinte, cioè il meglio degli sceneggiatori americani attualmente su piazza.
Quasi
schierando una squadra di calcio fatta solo di eccellenze, ogni
capitolo si avvale di una firma di prestigio: Matthew Graham (Life
On Mars), David
Farr (The Night
Manager), Jack
Thorne (Harry
Potter e la maledizione dell’erede), Ronald
D. Moore (Outlander,
Battlestar Galactica), Tony
Grisoni (The Young
Pope), Jessica
Mecklenburg (Stranger
Things), Dee
Rees (Bessie),
Travis Beacham (Pacific
Rim, Scontro tra titani),
i veterani Kalen Egan e Travis Sentell (The
Man in the High Castle)
già sperimentatori di suggestioni dickiane e infine Michael Dinner
(Justified, Master
of sex, Sons of Anarchy).
Il
parterre di sceneggiatori si confronta a colpi di penna allo scopo di
restituire scenari e personaggi venuti fuori dalla prolifica mente di
Dick e, in particolare, delle sue short
story dei primi
anni ‘50. L’obiettivo è più che ambizioso, ma il merito sta già
nella scelta delle storie che vanno dal ‘53 al ‘55. Anni
fondativi per la fantascienza americana, in cui proliferavano
magazine straordinari, densi di spazi narrativi modernissimi e,
purtroppo, spesso dimenticati. I Racconti vengono pubblicati su
riviste utopiche: Imagination,
Amazing, IF,
Future Science
Fiction, Startling
Stories, Science Fiction Adventure e
Galaxy, veri e
propri contenitori di magie, di costruttori dall’inarrivabile
ingegno e di copertine fantasmagoriche che in Italia furono presto
ispirazione per la collana Urania,
e poi, negli ’80, riferimento per riviste illustrate come
l’Eternauta
e Frigidaire.
La scelta della serie è quindi affidarsi al Dick degli esordi – il suo primo racconto, “The Little Movement”, è infatti del 1952 – e di attingere a un corpus di racconti che presenta un immaginario meno noto e più visionario. Scelta singolare e politica, in totale controtendenza con il mercato. Rinunciando al già noto, Philip K. Dick’s Electric Dreams si lascia affascinare da un piccolo e prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere è sinonimo di controllo occulto.
Ma
facciamo un passo indietro.
Philip
K. Dick nasce nel 1928, la sua gemella muore dopo pochi giorni dal
parto. Cresce con la madre, una donna nevrotica e anaffettiva che lo
costringe a una perpetua infelicità. L’infanzia dolorosa lascia il
segno e consegna Philip a una precoce e tormentata esistenza da
tossicomane. Un giovane uomo dalle tendenze suicide, sbandato e
paranoico.
Dick è lo scrittore fallito per eccellenza, che sbarca il lunario scrivendo ossessivamente un racconto dopo l’altro, e intanto, all’insaputa del mainstream che lo respinge, ibrida la fantascienza con la satira e la parodia con la politica. In silenzio, come un artigiano del futuro, innesta il gusto per la detective story – ispirandosi a maestri del calibro di Wells e Van Vogt – nell’ erotismo velato delle sue protagoniste femminili. Dietro una porta chiusa, che cercherà disperatamente di aprire, diventa il sommo Cantore della science fiction, il precursore di quello che sarà poi definito Cyber-punk. Novello Van Gogh, è l’autore che sfonderà qualsiasi barriera di notorietà senza avere il piacere di saperlo e senza visualizzare quel flashforward che, di fatto, lui stesso ha inventato.
A sua insaputa Dick è uno degli autori dai quali Hollywood ha attinto a piene mani e spesso malamente, un saccheggio costante e certosino che ha portato il suo nome al successo e che, ironia della sorte, si vedrà pochi giorni dopo la sua morte (1982) con l’arrivo in sala del Blade Runner di Ridley Scott, tratto appunto da Do Androids Dream of Electric Sheep? E realizzando anche, con la sua dipartita, un ennesimo tragico racconto dei suoi.
Blade Runner, è utile
ribadirlo, diviene subito un successo planetario, e in seguito Il
Cult dei Cult per tutto il cinema che segue, tanto che ancora oggi,
dopo trentacinque anni dalla sua distribuzione, il pubblico
planetario ha vissuto in trepidante attesa l’arrivo in sala di
Blade Runner 2049, a firma di Villeneuve (uscito il 4 ottobre).
Insomma, grazie al Rick Deckard interpretato da Harrison Ford e allo
struggente replicante Roy interpretato da Rutger Hauer, il mondo di
Dick inizia a sfondare il muro del silenzio, utilizzando un impietoso
rewind e proiettando lo sconosciuto Philip nell’iperuranio dei più
grandi. Ma visto che Philip non è fortunato come Rachel (Sean Young
in Blade Runner) e non presenta alcun difetto di fabbricazione, molto
banalmente muore prima di vedere cose che noi umani…
Tuttavia fa in tempo a porre uno dei quesiti più affascinanti in seno alla letteratura fantascientifica, ovvero: fino a che punto l’uomo può dirsi Umano? Tema cardine della sua poetica, troppo spesso eluso dal cinema che seguirà.
Dopo l’epifania dell’82,
infatti, in un grottesco gioco rovesciato delle parti, è proprio il
mainstream hollywoodiano, quello puro e feroce, per intenderci:
quello da cassetta, a prendere spunto dal suo immaginario
normalizzandone gli affondi rivoluzionari e utilizzando quasi sempre
solo l’involucro delle sue profonde speculazioni. Così, come per
magia, i ‘90 si aprono con Atto di Forza (Total Recall), in cui il
massiccio Arnold Schwarzenegger banalizza a colpi di cazzotti uno dei
racconti più complessi dello scrittore (We Can Remember It For You
Wholesale), nel quale, totalmente inascoltati, emergono per la prima
volta due degli aspetti fondamentali dello stile dickiano: una
particolare affinità con il kitsch e la sensazione di costante
sbalordimento dei suoi personaggi.
Il nuovo millennio
cinematografico è integralmente suo, gli Usa sfornano in rapida
successione e senza soluzione di continuità Impostor (2001),
Minority Report (2002), Paycheck (2003), A Scanner Darkly (2006),
Next (2007), ma la carcassa è grande e gli anni Dieci si affidano
alla sua inventiva lasciando stare la poetica, regalando a un
pubblico di credenti gli scialbi adattamenti di Radio Free Albemuth
(2010) e I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, 2011), e
infine gli imbarazzanti remake Total Recall (2012) e Minority Report
(stavolta per il piccolo schermo, 2015).
Insomma Dick è tutto quello che serve per fare un buon film di successo, e inutile aggiungere l’importanza e l’influenza massiccia della sua filosofia e delle sue liricissime paranoie precognitive, che spuntano come semi sparsi in tutto l’impianto visivo e narrativo del cinema contemporaneo. Senza lo scrittore americano non sarebbero mai esistite saghe e film di culto come Terminator, The Truman Show, o The Matrix, né tantomeno le serie che hanno fatto la storia della televisione come Lost o quelle che si concentrano sulla contorsione distopica dello spazio-tempo partendo da Dottor Who passando per Fringe e fino ad arrivare a Black Mirror.
È per questo che oggi, quasi
come un dovuto tributo postumo, il mondo delle serie cerca di
riportare la riflessione contemporanea dell’immaginario dickiano
verso una sorta di redenzione, spingendosi oltre i confini del
mainstream, dell’incasso a ogni costo e cercando di risarcire
l’autore-culto con adattamenti che tendono alla sua dimensione più
vera, politica e undergound. In questa precisa ottica prende vita
l’adattamento di La svastica sul sole (The Man in the High Castle,
2015), giunto con successo al rinnovo per una terza stagione su
Amazon Video e, senza dubbio, verso questo nuovo territorio si
iscrive il progetto di Philip K. Dick’s Electric Dreams con i suoi
10 episodi (ognuno di circa 60 minuti) tutti indipendenti tra loro e
senza badare più di tanto al botteghino.
Come un regalo inaspettato in Philip K. Dick’s Electric Dreams la scelta dell’episodio singolo regala a questa coraggiosa serie anche un’altra sorprendente bizzarria, moltiplicando una quantità ragguardevole di ruoli attoriali: tutti solidi e distinti. Un boccone ghiotto cui interpreti illustri non riescono a rinunciare.
Così i dieci capitoli
prendono forma sperimentando scrittura, regie e ruoli di cui è
interessante seguirne sfaccettature e sorti. Nel primo episodio: “In
the Hood Maker”, basato sulla short story pubblicata nel ‘55 sul
magazine Imagination, è Richard Madden, il Robb Stark del Trono di
Spade, a confrontarsi con una perfetta Holliday Grainger, l’ultima
Cenerentola di Kenneth Branagh, in una storia d’amore tra telepati.
In “The Impossible Planet”, omonimo del racconto uscito nel ‘53 ancora su Imagination, è il talentuoso Jack Reynor, l’intellettuale del vinile di Sing Street, a confrontarsi con l’icona del cinema mondale Geraldine Chaplin, in un viaggio che trascende i limiti del possibile.
In “The Impossible Planet”, omonimo del racconto uscito nel ‘53 ancora su Imagination, è il talentuoso Jack Reynor, l’intellettuale del vinile di Sing Street, a confrontarsi con l’icona del cinema mondale Geraldine Chaplin, in un viaggio che trascende i limiti del possibile.
Il terzo episodio, “The Commuter”, dal racconto pubblicato sulla Fanzine Amazing del ’53, ha come protagonista il sommo Timothy Spall, il Turner di Mike Leigh, nonché il personaggio di coda liscia della saga di Harry Potter. Qui l’attore è messo a confronto con Hayley Squires, la coprotagonista di Io Daniel Blake, e scopre da impiegato di una stazione ferroviaria che i pendolari viaggiano verso una città che non dovrebbe esistere. Il quarto episodio, “Real Life”, tratto dal racconto “Exhibit piece” uscito nel ‘54 sulla rivista di science fiction IF, vede la simbiosi investigativa di due dei migliori attori “seriali” dei nostri tempi, ossia la Anna Paquin di True Blood e il Terrence Howard di Empire.
L’interpretazione dell’episodio “Crazy Diamont”, invece, tratto dal racconto “Sales Pitch” del ’54, uscito sul magazine Future Science Fiction, è affidata a un incredibile Steve Buscemi, coinvolto in un clamoroso furto del futuro. Mentre “Human Is”, tratto dall’omonimo racconto del ‘55 per la rivista Startling Stories, vede come protagonista Bryan Cranston (Breaking Bad), in cui l’attore culto, nonché produttore dell’intero progetto seriale, sperimenta una tormentata relazione coniugale. Per “Kill all others”, ispirato a “The Hanging Stranger” pubblicato in Science Fiction Adventure nel ’53, è la Norma Bates (Vera Farmiga) di Bates Motel a svolgere il ruolo della fredda donna politica che fomenta la violenza in uno paese ormai allo sbando.
In “Autofac”, dall’omonimo
racconto del ‘55 uscito su Galaxy, invece, è Juno Temple, geniale
scopritrice di talenti della serie Vinyl, a condurre la rivolta verso
chi ritiene il libero arbitrio solo un ritardo del consumo dei
prodotti. In “Safe and Sound”, ispirato a “Foster You’re
Dead!”, uscito su Star Science Fiction Stories nel ’55, sarà
Annalise Basso (Captain Fantastic), affiancata dalla star di E. R.
Maura Tierney, a dar forma alla paranoia esistenziale di una società
ossessionata dalla sicurezza. Infine, nell’ultimo episodio,
toccherà alla coppia Greg Kinnear (Little Miss Sunshine) e Jack Gore
(The Michael J. Fox Show) dover configgere nei meandri del rapporto
padre-figlio, durante un’invasione aliena.
L’operazione complessiva di Philip K. Dick’s Electric Dreams, tra sceneggiature e cast stellare, si discosta dal già visto proponendo una libera interpretazione di Dick che si concentra sui significanti più che sui semplici significati dei suoi racconti. Grazie a questa scelta di prolificazione dei punti di vista, la serie compone e destruttura generi differenti passando dal “drama” antirazzista di un poliziotto telepatico (chiaro omaggio al Rick di Blade Runner) al noir robotico.
Dalla crook story, ambientata
in un futuro post-apocalittico, alla paura del diverso che esplode in
una metropoli fagocitante. Dal padre alieno al marito violento, da
macchine più sagge degli umani a viaggi simulati. Il tutto tenuto
insieme attraverso una rappresentazione complessiva che produce una
singolarità impeccabile, quasi aspirando all’atmosfera
dell’indimenticabile serie tv degli anni ‘60 The Twilight Zone,
in cui per ogni episodio la stentorea voice off annuncia che:
“C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.”
E Philip K. Dick’s Electric Dreams prova a spingersi ai confini della realtà, la realtà di un mercato spesso ottuso e impietoso verso l’opera di un maestro come Dick. Quello che resta è senza dubbio un tentativo assolutamente politico e in controtendenza, che ha l’obbiettivo di investigare la poetica più che la retorica di Dick, attingendo alle maglie più nascoste del suo sterminato immaginario. Philip K. Dick’s Electric Dreams meriterebbe quindi il successo da riservare alle opere di puro coraggio e non resta che augurare alla serie buona fortuna in attesa della prossima opera ispirata al maestro della sci fiction, sicuri del fatto che sia dietro l’angolo, ma speranzosi che si orienti nella giusta “quinta” dimensione.
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