uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

domenica 31 dicembre 2017

Trentunodicembreancora







Tempo al tempo
il tempo si rinnova.
Non passa mai quest'ora
ed e già passata un'era.















venerdì 29 dicembre 2017

I sogni elettrici di Philip K. Dick






"Philip K. Dick’s Electric Dreams" è la nuova serie cult ispirata ai racconti del maestro della sci-ficton e che ne rispetta la sua anima più politica e visionaria. Si lascia affascinare da un piccolo e prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere è sinonimo di controllo occulto.


***

“Io sono Vivo, voi siete morti”

Philip K. Dick – Ubik



“Dio promette la vita eterna” disse Eldritch. “Io posso fare di meglio; posso metterla in commercio.”



Philip K. Dick – Le tre stimmate di Palmer Eldritch








Il 17 settembre 2017, su Channel 4, debutta una nuova serie TV prodotta dall’omonimo canale inglese insieme ad Amazon Prime Video (che ospiterà gli episodi per la distribuzione USA) e Sony Pictures Television. Ispirata interamente alle opere di Philip K. Dick e intitolata Philip K. Dick’s Electric Dreams, con evidente riferimento al titolo originale del romanzo breve più famoso dell’autore, Do Androids Dream of Electric Sheep?, che in italiano suona più o meno Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, la serie promette bene già dal trailer. È singolare che sia proprio l’opera del ’68, tradotta in Italia col più sobrio nome Il Cacciatore di Androidi, a ispirare il titolo di questa singolare operazione Tv britannica.



In totale controtendenza con l’odierno protrarsi dello sviluppo seriale, che vede come scelta principale la moltiplicazione del tempo e lo sviluppo ossessivo dei personaggi, gli autori di Electric Dreams scelgono la propria dimensione nel racconto finito, presentando episodi slegati tra loro, strutturati in sé stessi e abilmente selezionati. Ne vengono fuori 10 “sogni elettrici”, sogni a occhi aperti in cui la narrazione stessa viene affidata a individualità distinte, cioè il meglio degli sceneggiatori americani attualmente su piazza.





Quasi schierando una squadra di calcio fatta solo di eccellenze, ogni capitolo si avvale di una firma di prestigio: Matthew Graham (Life On Mars)David Farr (The Night Manager), Jack Thorne (Harry Potter e la maledizione dell’erede)Ronald D. Moore (Outlander, Battlestar Galactica), Tony Grisoni (The Young Pope), Jessica Mecklenburg (Stranger Things), Dee Rees (Bessie), Travis Beacham (Pacific Rim, Scontro tra titani), i veterani Kalen Egan e Travis Sentell (The Man in the High Castle) già sperimentatori di suggestioni dickiane e infine Michael Dinner (Justified, Master of sex, Sons of Anarchy).



Il parterre di sceneggiatori si confronta a colpi di penna allo scopo di restituire scenari e personaggi venuti fuori dalla prolifica mente di Dick e, in particolare, delle sue short story dei primi anni ‘50. L’obiettivo è più che ambizioso, ma il merito sta già nella scelta delle storie che vanno dal ‘53 al ‘55. Anni fondativi per la fantascienza americana, in cui proliferavano magazine straordinari, densi di spazi narrativi modernissimi e, purtroppo, spesso dimenticati. I Racconti vengono pubblicati su riviste utopiche: Imagination, Amazing, IF, Future Science Fiction, Startling Stories, Science Fiction Adventure e Galaxy, veri e propri contenitori di magie, di costruttori dall’inarrivabile ingegno e di copertine fantasmagoriche che in Italia furono presto ispirazione per la collana Urania, e poi, negli ’80, riferimento per riviste illustrate come l’Eternauta e Frigidaire.




La scelta della serie è quindi affidarsi al Dick degli esordi – il suo primo racconto, “The Little Movement”, è infatti del 1952 – e di attingere a un corpus di racconti che presenta un immaginario meno noto e più visionario. Scelta singolare e politica, in totale controtendenza con il mercato. Rinunciando al già noto, Philip K. Dick’s Electric Dreams si lascia affascinare da un piccolo e prezioso oggetto del desiderio, un mondo altro in cui l’Umano sfuma continuamente nei suoi simulacri artificiali e la feroce avversione di Dick verso il maccartismo produce infinite società in cui potere è sinonimo di controllo occulto.



Ma facciamo un passo indietro.



Philip K. Dick nasce nel 1928, la sua gemella muore dopo pochi giorni dal parto. Cresce con la madre, una donna nevrotica e anaffettiva che lo costringe a una perpetua infelicità. L’infanzia dolorosa lascia il segno e consegna Philip a una precoce e tormentata esistenza da tossicomane. Un giovane uomo dalle tendenze suicide, sbandato e paranoico.



Dick è lo scrittore fallito per eccellenza, che sbarca il lunario scrivendo ossessivamente un racconto dopo l’altro, e intanto, all’insaputa del mainstream che lo respinge, ibrida la fantascienza con la satira e la parodia con la politica. In silenzio, come un artigiano del futuro, innesta il gusto per la detective story – ispirandosi a maestri del calibro di Wells e Van Vogt – nell’ erotismo velato delle sue protagoniste femminili. Dietro una porta chiusa, che cercherà disperatamente di aprire, diventa il sommo Cantore della science fiction, il precursore di quello che sarà poi definito Cyber-punk. Novello Van Gogh, è l’autore che sfonderà qualsiasi barriera di notorietà senza avere il piacere di saperlo e senza visualizzare quel flashforward che, di fatto, lui stesso ha inventato.





A sua insaputa Dick è uno degli autori dai quali Hollywood ha attinto a piene mani e spesso malamente, un saccheggio costante e certosino che ha portato il suo nome al successo e che, ironia della sorte, si vedrà pochi giorni dopo la sua morte (1982) con l’arrivo in sala del Blade Runner di Ridley Scott, tratto appunto da Do Androids Dream of Electric Sheep? E realizzando anche, con la sua dipartita, un ennesimo tragico racconto dei suoi.



Blade Runner, è utile ribadirlo, diviene subito un successo planetario, e in seguito Il Cult dei Cult per tutto il cinema che segue, tanto che ancora oggi, dopo trentacinque anni dalla sua distribuzione, il pubblico planetario ha vissuto in trepidante attesa l’arrivo in sala di Blade Runner 2049, a firma di Villeneuve (uscito il 4 ottobre). Insomma, grazie al Rick Deckard interpretato da Harrison Ford e allo struggente replicante Roy interpretato da Rutger Hauer, il mondo di Dick inizia a sfondare il muro del silenzio, utilizzando un impietoso rewind e proiettando lo sconosciuto Philip nell’iperuranio dei più grandi. Ma visto che Philip non è fortunato come Rachel (Sean Young in Blade Runner) e non presenta alcun difetto di fabbricazione, molto banalmente muore prima di vedere cose che noi umani…

Tuttavia fa in tempo a porre uno dei quesiti più affascinanti in seno alla letteratura fantascientifica, ovvero: fino a che punto l’uomo può dirsi Umano? Tema cardine della sua poetica, troppo spesso eluso dal cinema che seguirà.





Dopo l’epifania dell’82, infatti, in un grottesco gioco rovesciato delle parti, è proprio il mainstream hollywoodiano, quello puro e feroce, per intenderci: quello da cassetta, a prendere spunto dal suo immaginario normalizzandone gli affondi rivoluzionari e utilizzando quasi sempre solo l’involucro delle sue profonde speculazioni. Così, come per magia, i ‘90 si aprono con Atto di Forza (Total Recall), in cui il massiccio Arnold Schwarzenegger banalizza a colpi di cazzotti uno dei racconti più complessi dello scrittore (We Can Remember It For You Wholesale), nel quale, totalmente inascoltati, emergono per la prima volta due degli aspetti fondamentali dello stile dickiano: una particolare affinità con il kitsch e la sensazione di costante sbalordimento dei suoi personaggi.



Il nuovo millennio cinematografico è integralmente suo, gli Usa sfornano in rapida successione e senza soluzione di continuità Impostor (2001), Minority Report (2002), Paycheck (2003), A Scanner Darkly (2006), Next (2007), ma la carcassa è grande e gli anni Dieci si affidano alla sua inventiva lasciando stare la poetica, regalando a un pubblico di credenti gli scialbi adattamenti di Radio Free Albemuth (2010) e I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, 2011), e infine gli imbarazzanti remake Total Recall (2012) e Minority Report (stavolta per il piccolo schermo, 2015).



Insomma Dick è tutto quello che serve per fare un buon film di successo, e inutile aggiungere l’importanza e l’influenza massiccia della sua filosofia e delle sue liricissime paranoie precognitive, che spuntano come semi sparsi in tutto l’impianto visivo e narrativo del cinema contemporaneo. Senza lo scrittore americano non sarebbero mai esistite saghe e film di culto come Terminator, The Truman Show, o The Matrix, né tantomeno le serie che hanno fatto la storia della televisione come Lost o quelle che si concentrano sulla contorsione distopica dello spazio-tempo partendo da Dottor Who passando per Fringe e fino ad arrivare a Black Mirror.






È per questo che oggi, quasi come un dovuto tributo postumo, il mondo delle serie cerca di riportare la riflessione contemporanea dell’immaginario dickiano verso una sorta di redenzione, spingendosi oltre i confini del mainstream, dell’incasso a ogni costo e cercando di risarcire l’autore-culto con adattamenti che tendono alla sua dimensione più vera, politica e undergound. In questa precisa ottica prende vita l’adattamento di La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 2015), giunto con successo al rinnovo per una terza stagione su Amazon Video e, senza dubbio, verso questo nuovo territorio si iscrive il progetto di Philip K. Dick’s Electric Dreams con i suoi 10 episodi (ognuno di circa 60 minuti) tutti indipendenti tra loro e senza badare più di tanto al botteghino.



Come un regalo inaspettato in Philip K. Dick’s Electric Dreams la scelta dell’episodio singolo regala a questa coraggiosa serie anche un’altra sorprendente bizzarria, moltiplicando una quantità ragguardevole di ruoli attoriali: tutti solidi e distinti. Un boccone ghiotto cui interpreti illustri non riescono a rinunciare.



Così i dieci capitoli prendono forma sperimentando scrittura, regie e ruoli di cui è interessante seguirne sfaccettature e sorti. Nel primo episodio: “In the Hood Maker”, basato sulla short story pubblicata nel ‘55 sul magazine Imagination, è Richard Madden, il Robb Stark del Trono di Spade, a confrontarsi con una perfetta Holliday Grainger, l’ultima Cenerentola di Kenneth Branagh, in una storia d’amore tra telepati. 

In “The Impossible Planet”, omonimo del racconto uscito nel ‘53 ancora su Imagination, è il talentuoso Jack Reynor, l’intellettuale del vinile di Sing Street, a confrontarsi con l’icona del cinema mondale Geraldine Chaplin, in un viaggio che trascende i limiti del possibile.



Il terzo episodio, “The Commuter”, dal racconto pubblicato sulla Fanzine Amazing del ’53, ha come protagonista il sommo Timothy Spall, il Turner di Mike Leigh, nonché il personaggio di coda liscia della saga di Harry Potter. Qui l’attore è messo a confronto con Hayley Squires, la coprotagonista di Io Daniel Blake, e scopre da impiegato di una stazione ferroviaria che i pendolari viaggiano verso una città che non dovrebbe esistere. Il quarto episodio, “Real Life”, tratto dal racconto “Exhibit piece” uscito nel ‘54 sulla rivista di science fiction IF, vede la simbiosi investigativa di due dei migliori attori “seriali” dei nostri tempi, ossia la Anna Paquin di True Blood e il Terrence Howard di Empire.


L’interpretazione dell’episodio “Crazy Diamont”, invece, tratto dal racconto “Sales Pitch” del ’54, uscito sul magazine Future Science Fiction, è affidata a un incredibile Steve Buscemi, coinvolto in un clamoroso furto del futuro. Mentre “Human Is”, tratto dall’omonimo racconto del ‘55 per la rivista Startling Stories, vede come protagonista Bryan Cranston (Breaking Bad), in cui l’attore culto, nonché produttore dell’intero progetto seriale, sperimenta una tormentata relazione coniugale. Per “Kill all others”, ispirato a “The Hanging Stranger” pubblicato in Science Fiction Adventure nel ’53, è la Norma Bates (Vera Farmiga) di Bates Motel a svolgere il ruolo della fredda donna politica che fomenta la violenza in uno paese ormai allo sbando.



In “Autofac”, dall’omonimo racconto del ‘55 uscito su Galaxy, invece, è Juno Temple, geniale scopritrice di talenti della serie Vinyl, a condurre la rivolta verso chi ritiene il libero arbitrio solo un ritardo del consumo dei prodotti. In “Safe and Sound”, ispirato a “Foster You’re Dead!”, uscito su Star Science Fiction Stories nel ’55, sarà Annalise Basso (Captain Fantastic), affiancata dalla star di E. R. Maura Tierney, a dar forma alla paranoia esistenziale di una società ossessionata dalla sicurezza. Infine, nell’ultimo episodio, toccherà alla coppia Greg Kinnear (Little Miss Sunshine) e Jack Gore (The Michael J. Fox Show) dover configgere nei meandri del rapporto padre-figlio, durante un’invasione aliena.



L’operazione complessiva di Philip K. Dick’s Electric Dreams, tra sceneggiature e cast stellare, si discosta dal già visto proponendo una libera interpretazione di Dick che si concentra sui significanti più che sui semplici significati dei suoi racconti. Grazie a questa scelta di prolificazione dei punti di vista, la serie compone e destruttura generi differenti passando dal “drama” antirazzista di un poliziotto telepatico (chiaro omaggio al Rick di Blade Runner) al noir robotico.



Dalla crook story, ambientata in un futuro post-apocalittico, alla paura del diverso che esplode in una metropoli fagocitante. Dal padre alieno al marito violento, da macchine più sagge degli umani a viaggi simulati. Il tutto tenuto insieme attraverso una rappresentazione complessiva che produce una singolarità impeccabile, quasi aspirando all’atmosfera dell’indimenticabile serie tv degli anni ‘60 The Twilight Zone, in cui per ogni episodio la stentorea voice off annuncia che:



C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.”





E Philip K. Dick’s Electric Dreams prova a spingersi ai confini della realtà, la realtà di un mercato spesso ottuso e impietoso verso l’opera di un maestro come Dick. Quello che resta è senza dubbio un tentativo assolutamente politico e in controtendenza, che ha l’obbiettivo di investigare la poetica più che la retorica di Dick, attingendo alle maglie più nascoste del suo sterminato immaginario. Philip K. Dick’s Electric Dreams meriterebbe quindi il successo da riservare alle opere di puro coraggio e non resta che augurare alla serie buona fortuna in attesa della prossima opera ispirata al maestro della sci fiction, sicuri del fatto che sia dietro l’angolo, ma speranzosi che si orienti nella giusta “quinta” dimensione.


lunedì 18 dicembre 2017

Il punto della concentrazione


 



In un precedente articolo si introduceva la pseudo-formula della concentrazione. L'idea tautologica di fondo è che all'accrescersi della concentrazione dei capitali e dei poteri di sorveglianza e di intervento decresca il grado di democrazia. Che cioè, in definizione, la democrazia ceda progressivamente terreno all'oligarchia e al totalitarismo:




Se la democrazia si realizza nella disseminazione non solo dei poteri decisionali ma anche del benessere, del risparmio e della proprietà (Cost. art. 47), non può stupire che il suo recente declino si sia accompagnato a innovazioni politiche, giuridiche ed economiche attivamente tese a promuovere un maggior grado di concentrazione. La tendenza riguarda tutti i settori, esprimendosi ad esempio in campo economico come concentrazione dei capitali, già caposaldo dell'analisi marxiana:
Gli esercizi commerciali diventano franchising di catene internazionali, i marchi storici finiscono in pancia alle corporation, le banche si aggregano, gli operatori di servizi e le aziende di Stato arricchiscono il portafoglio dei grandi investitori, le compagini azionarie e le sedi legali migrano da una giurisdizione all’altra – impercettibili al fisco, onnipresenti al consumatore e ai listini di borsa. Il tutto tra il plauso e l’incentivo del legislatore, che immemore del «Too Big to Fail» si vanta di promuovere l’«efficientamento» e le «economie di scala» (La crisi narrata, pag. 41).

Nell'articolo citato, dove si indagava la declinazione informatica del concetto e la collegata ossessione della «dematerializzazione», si ipotizzava che la concentrazione cresca al diminuire della «diffusione dei poteri» o lunghezza della catena decisionale (D) e del «loro costo» (C) e all'aumentare delle persone (Pa) che subiscono il potere p:





A corredo dell'ipotesi si osservava che nella retorica politica e giornalistica più vulgata la concentrazione non appaia come una piaga a cui metter freno per proteggere i diritti della democrazia, ma sia anzi programmatica e auspicata:
L'idea che la disseminazione delle responsabilità e degli ostacoli all'esercizio di un potere garantiscano la sicurezza e i diritti di tutti è... un principio fondante della democrazia, la quale allarga la base dei poteri intrecciando «pesi e contrappesi», organi di vigilanza, collegi giudicanti e legislativi, commissioni, articolate gerarchie di comando ecc. e coinvolgendo periodicamente l'intera cittadinanza nella nomina di chi la amministra. Non è assolutamente un caso che in anni recenti [le] garanzie [del]la diffusione dei poteri decisionali e [de]l loro costo... siano esplicitamente demonizzate dai teorici, commentatori e protagonisti più accreditati e vocali del «riformismo» politico. Né che seguano gli appelli a «tagliare i costi della politica», rimuovere «lacci e lacciuoli», diminuire i parlamentari, sopprimere organi politici come province e Senato, snellire ulteriormente i processi legislativi, «disintermediare» i rapporti di lavoro ecc. Tutto serve a... consegnare più poteri a un numero più ristretto di decisori.



Dopo avere pubblicato la formula, i più pensosi tra i miei lettori mi fecero notare un «baco», che cioè al diminuire del costo C (che io stesso avevo ipotizzato tendente a zero, in un caso teorico) il numero di decisori D sarebbe stato irrilevante persino nel caso in cui D ≥ Pa.

È però evidente che una pseudo-formula sociale ha un valore strettamente maieutico e non può soddisfare i requisiti di una legge fisica o matematica. Se non altro perché i valori di costo ipotizzati - che includono «costi economici diretti, numero di azioni richieste, difficoltà fisiche e logistiche, eventuali rischi legali ecc.» - sono qualitativi e non puntualmente quantificabili. Su quella linea di critica si sarebbero dovuti rilevare altri e più seri problemi nell'equazione, come ad esempio il fatto che le unità di misura non si elidono nella frazione.

Sebbene tutto ciò non ne infici la funzione esplicativa, mi sono riproposto di correggere la formula con l'aiuto di un consulente più qualificato di me, non tanto per pedanteria ma perché quella matematizzazione si era rivelata utile per indagare le dinamiche e i determinanti di un fenomeno altrimenti sottinteso e sfuggente. 

Tra le migliorie possibili: uno sviluppo dei costi C che includa la sommatoria della catena degli esecutori E con i relativi costi > 1 (gli esecutori sono anche decisori, possono decidere di non eseguire), o ancora l'inclusione di una variabile di partecipazione ai costi della decisione da parte della platea Pa che la subisce, diventandone così un esecutore indiretto.


L'ultimo aspetto appare urgente se si considera che, come è stato accennato, il trasferimento ai vertici di poteri e sostanze cerca il consenso della base che ne è deprivata, e quasi sempre lo trova. Il costo della concentrazione, specialmente nel suo costituirsi, finisce così per essere in massima parte sostenuto da chi è destinato a subirne gli effetti. Per cogliere i moventi di questa complicità degli spogliati ci soccorrono il titolo e la chiusa di un articolo di Alberto Bagnai pubblicato sul Fatto Quotidiano del 3 gennaio 2017, dove l'intento di istituire un controllo e un potere di censura centralizzati sulla pubblicazione delle «fake news» era giudicato tanto più pericoloso in quanto, tra l'altro, consegnerebbe in futuro uno strumento di oppressione a una destra autoritaria «che incombe minacciosa» nei sondaggi europei. Lo stesso concetto è stato più recentemente rilanciato dalla giornalista Stefania Maurizi su Twitter e, in termini più generali, anche dal sottoscritto.





Ora, un arbitrio non può essere più o meno accettabile a seconda di chi lo commette: se la destra, la sinistra o il centro. Sicché il monito di Bagnai coglie bene l'aporia fondamentale di chi accetta di concentrare sovranità, poteri, diritti e posizioni di vantaggio nelle mani di un soggetto forte di cui oggi si fida, omettendo di considerare la contingenza delle qualità - vere o presunte - che lo renderebbero degno di quella fiducia. Se è teoricamente possibile - ma empiricamente poco plausibile - che una forte concentrazione di poteri produca oggi il massimo beneficio per chi vi è soggetto, nulla garantisce che domani, o in circostanze diverse, il suo abuso non annulli quel beneficio introducendo problemi più seri e più difficili da revocare. 

La valutazione richiede però uno sguardo programmatico che manca a un pubblico accecato dall'orizzonte breve dell'emergenza, del «fate presto» e del pericolo politico, finanziario, terroristico, sanitario, mediatico, fascista eccetera che incombe, tanto incline a dare carta bianca ai forti e a proiettarvi il proprio bisogno di un «mondo giusto» (Lerner, 1980), quanto spaventato, se non incattivito, dalla presunta inadeguatezza dei deboli nel far fronte alle minacce del momento. Spaventato cioè da se stesso, dal popolo anonimo e diffuso e dalla libertà dei suoi membri. E, quindi, dalla democrazia.
 
E poiché nulla è nuovo sotto il sole, dall'illusione di un'emergenza perpetua scaturisce l'esigenza di un'altrettanto perpetua legge marziale, la smania di consegnarsi bendati a un Goffredo da Buglione:
Ove un sol non impera, onde i giudíci
pendano poi de' premi e de le pene,
onde sian compartite opre ed uffici,
ivi errante il governo esser conviene.
Deh! fate un corpo sol de' membri amici,
fate un capo che gli altri indrizzi e frene,
date ad un sol lo scettro e la possanza,
e sostenga di re vece e sembianza.





La questione è tutta di metodo, sicché le discussioni di merito servono solo ad annacquarla. Sarebbe profondamente sciocco dilungarsi - come purtroppo accade - sulla maggiore o minore propensione di agenzie nazionali e sovranazionali, banchieri, grandi investitori, multinazionali del farmaco e dell'industria, colossi del web e monopolisti ad abusare degli enormi poteri che stiamo accumulando nelle ristrette consorterie di chi li dirige, sulla loro buona o cattiva fede, su quanto siano galantuomini, sinceri o privi di scrupoli, su quali crimini possano commettere avvalendosi di quei poteri e fin dove siano disposti a spingersi per realizzare un vantaggio privato a scapito di quello generale.

Ciò non ha alcuna importanza, è anzi fuffa, dietrologia, gossip. L'unica posizione ragionevole è che quel potenziale non deve neanche esistere e che le libertà e i poteri diffusi, o quel che ne resta, devono essere difesi coi denti perché sia negata la possibilità dell'abuso. Gli eventuali «buoni» saranno i «cattivi» di domani, i decisori di cui ci fidiamo cederanno il posto ad altri decisori, gli azionisti ad altri azionisti, «le sinistre» a «le destre» e viceversa. Se non sappiamo chi e come adopererà le armi che stiamo conferendo in un solo arsenale, abbiamo però una certezza: che non le riavremo più indietro quando ne subiremo i colpi.





Quando mio figlio guarda il cartone animato di Robin Hood crede che i cittadini di Nottingham soffrano perché il perfido Giovanni Senzaterra si è insediato sul trono del fratello Riccardo. Ma una volta cresciuto gli racconterò un'altra storia, che il problema era invece il buon Riccardo, il cui regno illuminato aveva illuso i sudditi di potersi fidare del potere in carica. E che, al contrario, fu dalle tensioni insorte tra il dispotico Giovanni e i baroni ribelli che scaturì la Magna Charta con cui si tracciava un limite all'arbitrio assoluto del sovrano: di qualunque sovrano, amico o nemico secondo il metro di ciascuno. 

Correva l'anno 1215. Otto secoli dopo quegli aristocratici strabilierebbero sentendoci blaterare di «esecutivo forte», «Senato di rappresentanza», «misure drastiche», «governance internazionale», «mercati globali» e investitori che «ci chiedono», «dimensioni per competere», «ricatto delle minoranze», centrali di acquisto, economie di scala, «nanismo delle imprese», big data, digitalizzazione dei processi, armonizzazione delle norme. Riderebbero della nostra nostalgia di un totalitarismo de iure o de facto che ci dovrebbe costringere... al progresso.

Il discorso sulla concentrazione è un caso lampante di ripetizione dell'ovvio. Perché i suoi pericoli sono già tutti nella definizione di democrazia, nell'applicazione dell'aritmetica alle masse di uomini e capitali e nella serie ormai lunga dei suoi fallimenti storici e delle sue promesse mancate. Per quanto sintomo e non causa, la sua ricorrenza in fenomeni all'apparenza molto diversi ne fa uno strumento utile per registrare e comunicare i tanti volti del decadimento economico e sociale e della «rifeudalizzazione» in corso.


Perché in effetti non c'è quasi problema in cui non si affacci un aumento della concentrazione: dal trasferimento delle sovranità nazionali alla Commissione di un superstato continentale solo nominalmente democratico, all'umiliazione dei governi locali ridotti a funzionari, intermediari, esattori; dal trionfo dei gruppi industriali transnazionali che divorano le produzioni locali e dettano le regole del lavoro e del consumo, alle fusioni bancarie con l'abolizione del voto diffuso e cooperativo e la creazione di gruppi facili da vendere, impossibili da controllare; dal progressivo coagulo di monopoli privati nei servizi pubblici alla formazione di fondi finanziari in grado di comprare tutto, anche le politiche degli Stati . 






E ancora: l'affermazione di una «verità ufficiale» mediante commissioni e algoritmi, il transito di dati pubblici e privati sulle piattaforme digitali di pochi e onnipotenti operatori, la compulsione alla «smaterializzazione» e il conseguente trasferimento di tutte le informazioni, anche sensibili, anche strategiche, anche determinanti per il governo pubblico, nei canali telematici e sui sistemi di una manciata di imprenditori privati, la digitalizzazione coatta dei pagamenti, la sorveglianza telematica globale, il delirio distopico delle «città smart»

Fino all'ultima declinazione del concetto, quella con cui si mira a concentrare il potere anche sull'hardware dei nostri corpi: la somministrazione permanente, universale e obbligatoria di farmaci accidentalmente vaccinali e «salvavita» a intere popolazioni, nessuno escluso e per nessun motivo, direttamente nel sistema circolatorio, preparati da un oligopolio mondiale di industrie in miliardi di dosi e sotto gli auspici di un unico organismo sovranazionale.
 
Di questi, come degli altri suddetti, ci siamo fidati troppo ieri epperò dobbiamo fidarci oggi e anche domani consegnando loro poteri ancora più ampi. Cosa può andare storto?

La concentrazione è infine un fattore intrinseco di instabilità. Anche in regime di perfetta buona fede - qualsiasi cosa voglia dire, cioè nulla - basta un errore per produrre effetti abnormi che si riverberano e si alimentano nella sterminata platea dei soggetti. E poiché gli errori li abbiamo sempre commessi e continueremo a commetterli, la concentrazione non genera colossi Too Big To Fail ma la garanzia di una failure universale senza nicchie di scampo, senza reti di riserva a cui affidare la tenuta del sistema. 

Torneremo spesso a occuparcene.









martedì 21 novembre 2017

Neoliberismo, biopolitica e schiavitù.


Silvia Vida
cosmopolisonline






1. Lo ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora, chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La diagnosi del presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli oppongono una resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni, dal razzismo istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto che, per funzionare, il capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più possibili, soprattutto nelle aree del mondo più avanzate.

Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno. Ciò si deve al fatto che il capitale, che circola liberamente nello “spazio del flussi” globale (secondo l’efficace definizione di Manuel Castell), perché liberato dalla politica, è ansioso di cercare zone in cui gli standard di vita siano modesti e sia consentito sfruttare il differenziale tra regioni del pianeta dove le paghe sono basse e non esistono istituti di autotutela e tutela statale dei poveri, e altre regioni che mantengono queste tutele. 
Ma il libero fluttuare del capitale produce un effetto collaterale significativo, ossia la progressiva riduzione di quello stesso differenziale, con il concomitante livellamento degli standard di vita tra paesi diversi. Inoltre, i paesi che hanno immesso capitali nei flussi globali si trovano a loro volta a essere oggetto delle situazioni di incertezza della finanza globale (svincolata da regole).

Tutto ciò si ripercuote sulle condizioni della forza-lavoro urbana che l’autorizzata secessione del capitale dalla politica si è lasciata alle spalle. Quella forza-lavoro oggi non solo è minacciata dalla nuova incertezza globale, ma anche dai costi incredibilmente bassi del lavoro in quei paesi dove il capitale, libero di muoversi, decide di insediarsi temporaneamente. Di conseguenza, il differenziale tra paesi “sviluppati” e “poveri” tende a contrarsi, e nei paesi che non molto tempo fa sembravano aver superato le diseguaglianze sociali più stridenti torna a riemergere più forte che mai l’inarrestabile crescita della distanza tra chi ha e chi non ha.








2. Il contesto appena delineato (seppure in maniera parziale) è definibile come “neoliberismo”, comunemente associato alla promozione di un insieme di politiche economiche coerenti col principio fondamentale del libero mercato. Questo schema include la deregulation del sistema industriale e della circolazione dei capitali; la riduzione delle prestazioni del welfare state un tempo previste a tutela dei soggetti più vulnerabili; la privatizzazione ed esternalizzazione dei beni e dei servizi pubblici (siano essi scuole, servizi sanitari o postali, strade o parchi, ecc.); la sostituzione di sistemi di tassazione progressivi con schemi fiscali di segno opposto; la fine di politiche redistributive e la conversione di ogni necessità o desiderio dell’uomo in un’impresa redditizia – dalla preparazione agli esami per l’ammissione a un corso universitario, fino al trapianto d’organi o all’adozione di bambini, ecc. 
Più recentemente, si tende a identificare il neoliberismo col superamento del capitale produttivo ad opera di quello finanziario e più in generale con la finanziarizzazione dei processi economici. È quindi assai frequente che si producano e manifestino atteggiamenti critici nei confronti di queste pratiche e dei loro effetti deleteri: innanzitutto l’aumento e l’approfondirsi delle diseguaglianze, il divaricarsi della forbice della ricchezza, in mezzo ai quali ciò che resta della cosiddetta classe media è costretto a lavorare sempre di più per compensi sempre più irrisori, minore sicurezza, e un’aspettativa quasi nulla di mobilità sociale.

Potremmo dire, per sintetizzare, che gli esiti ultimi del neoliberismo sono incertezza e vulnerabilità.

Se tutto questo sembra assodato, c’è da dire che raramente si usa il termine “neoliberismo” per riferirsi a tali fenomeni: è il caso delle critiche mosse alle politiche degli stati occidentali da parte di economisti come Robert Reich, Paul Krugman, o Joseph Stiglitz, o delle critiche mosse alle politiche dello sviluppo da parte di Amartya Sen, James Ferguson, o Branko Milanovic, tra gli altri. 
Nemmeno l’aumento della diseguaglianza, uno dei fenomeni enfatizzati da Thomas Piketty nel suo studio sul capitalismo post-keynesiano, conduce a un uso sistematico di questo termine. Il senso di stranezza tende a dissiparsi se si pensa che il neoliberismo è da intendersi come qualcosa di più di un insieme di politiche economiche, di una particolare fase del capitalismo o di un ripensamento della relazione tra stato ed economia.

Per Wendy Brown (2015), ad esempio, esso è un ordine normativo vero e proprio, sviluppato nell’arco di tre decenni nell’ambito di un’ampia e profonda razionalità di governo, e inteso a plasmare tutti i settori della vita umana e ogni sforzo in essi compiuto secondo precise finalità economiche. Del resto, Brown aderisce all’interpretazione foucaultiana che definisce paradigmaticamente il neoliberismo non tanto (e non solo) come una teoria economica, quanto piuttosto come una forma di governo, una speciale “razionalità politica” strutturata non più intorno alla legge sovrana dello stato ma ai meccanismi del mercato, e il cui scopo essenziale è promuovere processi di individualizzazione. 



Il particolare “soggetto economico” che è plasmato da questi meccanismi è l’esito fondamentale del neoliberismo (Brown 1995). Secondo la lezione foucaultiana, di questa soggettivazione si incarica la “governamentalità”, concetto con cui Foucault indica la presa sulla vita dei soggetti che si realizza plasmandone i desideri e le aspettative conformemente al progetto di governo liberale.

“Governamentalità”, diceva Foucault già nel 1978, è quella forma di potere che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Non a caso, François Ewald parla dell’avvento del neoliberismo novecentesco come di ciò che trasforma i dispositivi biopolitici liberali classici di governo dei corpi e delle popolazioni affiancando loro il dispositivo bioeconomico e imprenditoriale del “capitale umano” (Ewald 1986; 1991). 
Si tratta di una vera e propria svolta epistemica della razionalità governamentale: nel secondo dopoguerra lo Stato cessa di essere gestore dell’economia e agente di redistribuzione sociale, mettendosi al servizio del mercato e della sua logica imprenditoriale. In Nascita della biopolitica, Foucault scrive che in questa fase il mercato è assunto a «nuova ragione di governo» e detta i criteri normativi per le politiche pubbliche producendo soggettivazioni ispirate al modello concorrenziale dell’impresa.

In sostanza, il neoliberismo è una razionalità produttiva di specifiche soggettività, una «condotta della condotta» e uno schema di valutazione delle esistenze e delle pratiche. Questo è tanto più vero nelle analisi foucaultiane della governamentalità: l’oggetto del suo potere, non sovrano ma disciplinare, sono, infatti, le forze e le capacità degli individui come membri di popolazioni, come risorse da promuovere, usare, ottimizzare. Il liberalismo, in quanto metodo di razionalizzazione dell’esercizio del governo, si colloca, in altre parole, sul terreno della biopolitica funzionale all’idea liberale del «governo frugale» o «a distanza», non autoritario. 

Tuttavia, secondo la sintesi di Pierre Dardot e Christian Laval (2013), la governamentalità neoliberale reca in sé una profonda ambivalenza: da un lato, lascia intendere al soggetto di avere diritto alla libertà in qualunque ambito – da quello economico a quello sessuale o culturale – con il solo limite della sua capacità di autovalorizzazione; dall’altro, compie continui sforzi di creazione identitaria e di direzione degli individui. È la svolta bioeconomica del capitalismo contemporaneo, che trasforma irrimediabilmente la natura della libertà politica. 



Infatti, come spiega Brown, in nome della potenzialità auto-incrementativa virtualmente conferita al soggetto in ogni campo dell’esistenza, la razionalità liberale sembra possedere un vero e proprio progetto culturale di inclusione che riproduce se stesso, depotenziando la progettualità politica e svuotando di senso i diritti. La governamentalità agisce come insieme di strategie e tattiche che operano a livello diffuso, provvedendo alla produzione e riproduzione dei soggetti, alla plasmazione delle loro abitudini e delle loro convinzioni, in funzione di particolari scopi politici; tutto questo implica la possibilità di parlare della politica neoliberale contemporanea come “post-politica”, poiché lascia dietro di sé le vecchie lotte ideologiche per concentrarsi su una gestione capillare e un’amministrazione competente, su attività depoliticizzate (biopolitiche) e oggettive di un’amministrazione minuziosa delle vite.

Per il neoliberismo, in sostanza, ogni condotta è una condotta economica; tutte le sfere dell’esistenza sono strutturate e misurate in termini economici, anche quando questi ambiti non sono direttamente “monetizzabili”; i soggetti che abitano questo ordine sono esemplari particolari della specie homo oeconomicus
L’homo oeconomicus di oggi, infatti, non è il soggetto kantiano, ma un soggetto che mantiene i caratteri di imprenditorialità inscritti nell’idea di capitale umano dell’epoca neoliberista, venendo riplasmato come capitale umano “finanziarizzato”: il suo progetto è auto-investirsi in modi che incrementino e migliorino il proprio valore, oppure attrarre investitori del capitale incarnato dalla sua stessa soggettività, mostrando in qualche modo il suo rating. Il suo valore deve essere competitivo in ogni ambito esistenziale: dalla scelta del corso di studi al network sociale, tutto contribuisce a trasformare un “essere umano” in “capitale umano”.

Nessuno, tuttavia, è un capitale solo per sé, o in sé; ognuno di noi lo è per l’azienda, lo stato o la costellazione postnazionale di cui è membro; e nella misura in cui siamo capitali valutabili in termini di competitività, non solo subiamo valutazioni differenziali, ma viviamo anche senza garanzie di sicurezza, protezione o tutela. Se, infatti, la dimensione sociale e politica dell’esistenza si disgrega per essere sostituita da quella imprenditoriale (come auto-investimento), la conseguenza è la rimozione dei dispositivi di protezione un tempo rappresentati dall’appartenenza, si tratti di tutela previdenziale o diritti di cittadinanza.

È bastato che il potere politico stabilizzasse le condizioni normative e politiche per la libertà del mercato perché si producesse l’incertezza e lo stato di insicurezza esistenziale che da questa deriva. Le bizzarrie del mercato, lasciate libere di riprodursi, bastano a erodere le fondamenta della sicurezza esistenziale e a far aleggiare sulla maggior parte dei membri della società lo spettro del degrado, dell’umiliazione, e dell’esclusione sociale. L’État providence, come forma di governance e come comunità che si fa carico degli obblighi e delle garanzie un tempo attribuiti alla divina provvidenza, ha progressivamente ridotto istituzioni e prestazioni, rimuovendo così anche i limiti alle attività di impresa, alla libera concorrenza di mercato e alle sue conseguenze.








3. Incertezza e vulnerabilità, come si è visto, sono gli effetti del neoliberismo; tuttavia, da un punto di vista storico, sono state le cause della nascita dello stato moderno, la sua raison d’être. Incertezza e vulnerabilità umana sono cioè alla base di ogni potere politico e dell’obbedienza (sostegno) al potere, fintanto che esso libera dalla paura e dall’ansia generate dall’insicurezza (Bauman 2011). 
L’uscita dallo stato di minorità kantiano passa innanzitutto attraverso tale forma di emancipazione. Ma è ovvio che, dal punto di vista morale o politico, nessun capitale, nemmeno quello umano, ha lo status di soggetto individuale kantiano. Lo status del capitale umano è destinato a formarsi in maniera incoerente nella misura in cui il soggetto è individualmente responsabile per se stesso e, al tempo stesso, elemento strumentale e superfluo (fungibile) dell’intero. 
La funesta fragilità dello status sociale è oggi ridefinita come questione privata, una faccenda da fronteggiare da soli, facendo leva sulle proprie risorse. Come afferma Ulrich Beck (2000), gli individui oggi devono trovare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche; dal successo di questi sforzi dipende la loro sopravvivenza (anche politica). Di conseguenza l’eguaglianza politica non è più l’a priori delle relazioni sociali (democraticamente intese) e la diseguaglianza diventa il medium della competizione tra capitali.

L’immaginario popolare si è sostanzialmente assuefatto all’idea della diseguaglianza come norma, forse anche come natura, oltre che all’immagine di una società composta di vincenti tutelati contrapposti a perdenti privi di tutela. In un mondo in cui la competizione porta a un abbassamento dei diritti sociali, chi ancora ne gode subisce il discredito sociale. Dove esiste solo l’homo oeconomicus, dove la libertà viene trasferita dal piano politico a quello economico, è la libertà politica a subire gli effetti dell’intrinseca diseguaglianza dei rapporti economici; e, per converso, è la libertà politica che, restringendosi, assicura l’espandersi della diseguaglianza. L’effetto che si produce non è paradossale, se pensiamo che deriva della sostituzione dello stato di diritto con la razionalità del mercato e del cittadino con il vincente/perdente: la libertà è solo la condotta tipica del mercato, non l’autogoverno come partecipazione collettiva entro un demos.

L’interazione tra biopolitica (post-politica) e neoliberismo produce una conseguenza ancora più terrificante: con la lusinga dell’auto-incremento, il capitalismo oggi ci fa affrontare le crisi – e quella scoppiata nel 2007 è solo l’ultima – facendocele subire. La crisi, infatti, è permanente perché è la modalità di governo del capitalismo contemporaneo
Come scrive Maurizio Lazzarato (2013), col variare della crisi varia il tipo di paura. Paura e crisi costituiscono l’orizzonte insuperabile della governamentalità del capitalismo neoliberista. La governamentalità neoliberale si esercita nel continuo passaggio dalla crisi economica a quella climatica, energetica, occupazionale, migratoria, e così via. Anche in questo senso, il neoliberismo non mostra un’attitudine libertaria, la tendenza a “produrre” libertà, bensì l’intenzione di operare per la sua continua limitazione. L’opposizione tra governamentalità autoritaria e liberale, così come concepita da Foucault, si rivela perciò altamente “instabile”, dato che nella crisi essa è diventata, in maniera irreversibile, autoritaria.





Si tratta in molti casi di una governamentalità “privatizzata” (Brown 2015), che costringe a prendere in considerazione dispositivi biopolitici non statuali, i quali sono al tempo stesso dispositivi di controllo, valorizzazione e produzione di soggettività. Essi si esercitano su individui che hanno subito una doppia metamorfosi: la sostituzione del lavoratore salariato del fordismo con l’imprenditore di sé e la trasformazione di questa soggettività in una individualità ultraconcorrenziale e massimamente precaria, che ripropone l’idea di un capitale umano che in molti casi è la condanna a un’esistenza sociale ed economica di assoluta marginalità politica: ad esempio, quella definita dalla molteplicità delle situazioni di impiego, di non impiego, o di impiego intermittente, e di povertà più o meno grave.

Ne scaturisce una forma di precarietà esistenziale e sociale che si accompagna a una nuova “costruzione sociale” del lavoro: quando tutto è capitale, il lavoro è liquidato come categoria, sparisce la forma collettiva di rivendicazione e l’idea stessa di classe lavorativa; si guarda addirittura con sospetto e persino disprezzo a quelle categorie di lavoratori che ancora contano su una prospettiva di contratto con tutele e garanzie di impiego a tempo indeterminato, diritti alle ferie o alla maternità. Se solo pochi conservano diritti, appare più equo che non li abbia nessuno, perché i diritti di pochi sono percepiti come privilegi.

Il lavoro temporaneo è attualmente uno degli indicatori più forti della precarietà. Essere (lavoratori) precari significa condurre un’esistenza incentrata sulla sola dimensione del presente, deprivata di una solida identità, o del senso di realizzazione che normalmente si ricaverebbero da un lavoro stabile e da uno stile di vita coerente (Standing 2012).




 Il precario vive nell’ansia in uno stato di insicurezza cronica, nella paura di perdere quel poco che possiede: è la paura il suo sentimento dominante, e la vera motivazione del suo comportamento. Gli si impone il “vangelo della flessibilità”, ossia il dovere morale di accogliere le forze del mercato come propria fede e guida, ed essere adattabile alle loro esigenze centrate su rapporti flessibili come “imperativo categorico” del processo della produzione globale (Boltanski e Chiapello 2014).
 Una persona che vive soltanto grazie a lavori temporanei conduce una vita il cui rischio è la regola. L’incertezza che ne deriva produce un “adeguamento verso il basso” dovuto al timore di perdere ciò che si ha. Man mano che il lavoro diventa precario, la perdita di reddito che ne deriva, insieme a quella dei connessi simboli di status, viene aggravata da una perdita di reputazione e dalla progressiva assimilazione alla non-cittadinanza.

Del tutto in linea con i processi di soggettivazione che la precarietà produce, emerge paradigmaticamente l’idea di un individuo “assoggettato” al debito. L’uomo indebitato rende evidente che le tecniche di governamentalità “della” crisi e “nella” crisi sono ordine e normalizzazione. La vastità del fenomeno, di portata globale, permette addirittura di vedere nel debito (degli individui e degli Stati, privato e pubblico) il progetto di un’economia basata sul paradigma neoliberista, a patto di considerare l’indebitamento come non circoscritto all’economia (Graeber 2012; Dardot e Laval 2016).
Ecco perché la posta in gioco negli attuali ordinamenti politici è ciò che Judith Butler chiama una “buona vita”; l’alternativa, sempre minacciata. è l’essere condannati a una forma di social death, a una vita vissuta in schiavitù. 

Certamente, le forme contemporanee di privazione e abbandono prodotte dalla razionalità neoliberista non sono paragonabili alla schiavitù in senso tradizionale; pertanto, le categorie della precarietà e dell’indebitamento diventano uno strumento interpretativo efficace dell’invivibilità solo se servono all’autocomprensione del valore che incarniamo. Occorre cioè riflettere sulla condizione di servitù (volontaria?) del soggetto indebitato e/o precario, cioè sul contrasto tra individuo come soggettività autonoma e individuo assoggettato alle pratiche governamentali.








4. Il carattere totalizzante dell’indebitamento e della precarietà assurge a paradigma di un quasi-totalitarismo del secolo attuale. Sullo sfondo delle esperienze esistenziali di precarietà, la (millenaria) questione della violenza politica emerge con prepotenza, e con essa anche lo spettro del totalitarismo, sebbene declinato in forma inedita. Il fatto è che l’analisi della governamentalità rivela l’esistenza di pratiche che sono espressione di una forma di potere che, lungi dall’essere frugale, si affida agli strumenti di cui non è richiesta alcuna forma di legittimazione. In questo consiste la sua dimensione violenta.

La violenza, scrive Arendt, si distingue dall’autorità per il suo carattere strumentale: non ha bisogno di legittimazione ma solo di giustificazione. È un mezzo di dominio e distruzione del potere, ed essendo strumentale per natura è razionale nella misura in cui è efficace per raggiungere il fine che la giustifica. La natura del sistema quasi-totalitario che è così realizzato, come si vedrà, è teleologica in maniera peculiare e determina la specifica forma di strategia della violenza dispotica neoliberale. Ma proprio per la sua essenza tattica e strategica, la governamentalità neoliberale rientra nella lettura arendtiana quando giustifica forme di potere sempre più diffuse e meno centralizzate.

La governamentalità che si intreccia col capitalismo neoliberista non plasma la soggettività dello schiavo, dell’individuo completamente assoggettato: è il capitalismo stesso, del resto, a impedire alle sue “vittime” di sentirsi tali quando offre lo spettacolo della distinzione tra dominanti (felici e vincenti) e dominati (precari e indebitati), che, in una forma di liberalismo avanzato, sembra conciliarsi sia con l’eguaglianza politica e democratica, che istituzionalmente e formalmente permane, sia con la paura terrificante di perdere la propria posizione sociale o lavorativa. È attraverso la paura che si ottiene dai dominati del sistema capitalistico un supplemento di soggezione (o di mobilitazione produttiva), quel che Thomas Coutrot (1998) chiama «cooperazione forzata». La vittima non può che dare il suo consenso a un sistema che lo lusinga e al tempo stesso lo minaccia.

L’allineamento tra il desiderio di dominio dei dominanti e il consenso dei dominati proviene direttamente da una «radicalizzazione del governo attraverso la paura» (Lordon 2015) della prossima crisi economica, della disoccupazione di massa, di una crescita del debito, e di molte altre cose. 

Bourdieu ha fatto proprio questo paradosso forgiando un concetto, quello di violenza simbolica, la cui vocazione è pensare gli incroci tra dominio e consenso. Tuttavia, se il consenso al sistema è per lo più segnato dalla violenza, e l’adesione è ottenuta attraverso la minaccia dell’incertezza e della precarietà, l’autonomia dei soggetti si tramuta di fatto in una maschera di inedita schiavitù. In questo quadro la schiavitù volontaria di La Boetie è impossibile. 






La paura, però, non è l’unica strategia della violenza. Come sostiene Frédéric Lordon (2015), rendere i dominati contenti resta una delle più vecchie corde dell’arte del regnare, perché è strumento sicuro per far loro scordare il loro stato di soggezione. Il capitalismo ci sta arrivando per effetto delle necessità delle sue nuove forme produttive, insieme a un processo di sofisticazione delle procedure di governamentalità. 
In pratica, il dominio ha smesso di offrire lo sguardo familiare del semplice bastone e la strategia del potere è assumere un aspetto sempre meno direttamente autoritario. È in quest’ottica che occorre leggere l’apprendimento individuale e collettivo di tecniche, abitudini e stili di vita della governamentalità capitalistica. Questo significa che il capitalismo neoliberista non si accontenta dell’asservimento esterno, ma cerca di incidere sull’intera sottomissione dell’interiorità, sulla condivisione dei fini collettivi ma perseguiti individualmente (che finiscono per coincidere), pretendendo l’identificazione totale degli arruolati e valutando il loro grado di allineamento: non sei “adeguato” se non accetti di essere precario (Standing 2012).

Attraverso la governamentalità, la forma canonica del rapporto che oppone un dominante, o un numero esiguo di dominanti, alla massa di dominati, emerge dallo sfondo in maniera piuttosto netta, per quanto inframmezzato di “mediazioni strategiche”. “Mediazione” significa che la strada del potere è meno diretta, perché passa per intermediari sempre più numerosi – che sono per lo più i dominati stessi; “strategia” perde quindi il suo senso apertamente riflessivo e calcolatore, che però non è escluso. Come sostiene Lordon, se strategico è l’insieme delle azioni concatenate per giungere a un fine desiderato, allora queste concatenazioni possono essere il risultato di modi di fare introiettati dai dominati, al punto da non essere altro che riflessi e modalità di azione pressoché automatiche (ciò che Bourdieu chiama habitus).

È qui che si affaccia lo spettro del totalitarismo, non certamente nel senso classico, nella misura in cui esso ha di mira una subordinazione totale, esterna e interna, dei soggetti del sistema, bensì nel senso che l’impresa neoliberista pretende di subordinare l’essere del lavoratore salariato, la sua anima, i sui fini, le sue disposizioni, i desideri e i modi di fare, rimodellando la sua singolarità affinché funzioni “spontaneamente”.

Per un obiettivo di controllo così profondo, “totalitarismo” è un termine possibile (Dardot e Laval 2013). È quindi l’intero “corpo” sociale a essere impegnato, per autoaffezione, a formare i desideri e le inclinazioni dei suoi membri. Questo significa che il processo di allineamento dei desideri non è assegnabile, se non nominalmente, alla massima istanza che è il corpo sociale stesso: esso non è portatore di alcuna intenzione, e, in questo senso, è perfettamente privo di telos.

Concludendo, la tecnica di potere del regime neoliberale assume una forma subdola, duttile, intelligente, e si sottrae a ogni visibilità.
 La crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con una tecnica di potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta. Poiché si basa su un’auto-organizzazione e un’auto-ottimizzazione volontarie non deve superare nessuna resistenza. Perciò è possibile affermare che le forze del mercato capitalistico esercitano una violenza che è un vero e proprio “effetto sistema” e, come tale, è privo di centro, privo di “ingegneria della volontà”, preda dell’anomia, dunque assimilabile a una necessità che si abbatte sui lavoratori salariati (sugli indebitati, sui precari) al colmo dell’eteronomia (Lordon 2015). 
Non c’è spazio per alcuna emancipazione, l’autonomia promessa dal neoliberismo apparendo piuttosto come la maschera di un’inedita schiavitù.









5. L’edificio del neoliberismo registra tuttavia i primi segni di cedimento: l’illusione che ognuno, in quanto progetto che delinea liberamente se stesso, sia capace di un’«autoproduzione illimitata» si va progressivamente dissolvendo (Han 2016). 
Inoltre, l’invito all’autonomia, ma nella direzione del mercato, e l’invito all’autorealizzazione, ma nella direzione del sistema, sono le ragioni per le quali le strategie di allineamento non hanno un successo garantito e possono sortire effetti profondamente contrastanti a seconda dei soggetti che essi catturano. Sono i punti in cui il sistema potenzialmente cade in contraddizione. 

Del resto, se con «spirito del capitalismo» si intende l’ideologia che giustifica l’impegno in esso, non possiamo non riconoscere che questo spirito vive oggi una crisi importante, testimoniata da un disorientamento e da uno scetticismo sociale crescenti. È in questo frangente che il soggetto neoliberale, oggetto delle pratiche e delle discipline governamentali, può riconoscere le forme di sottomissione neoliberali per ciò che sono: come surrettiziamente accompagnate dal sentimento della libertà, ma in grado di forzare alla prestazione e all’ottimizzazione, sempre sotto il segno della precarietà.

Tuttavia il cedimento è solo questo, e non è un cedimento strutturale. Il fatto della consapevolezza accresciuta da parte degli assoggettati non frena né modifica il sistema neoliberale, semmai lo induce a reagire. Ecco perché l’“ultraliberismo”, o il “totalitarismo neoliberista” e, quindi, il “capitalismo”, se ricondotti a un unico sistema, appaiono ormai, nelle analisi più avvertite, come concetti inadatti a dipanare una matassa di processi che esigono analisi nuove e più profonde (Dardot e Laval 2016; Brown 2015). 

Ma, occorre ribadirlo, non è il caso di nutrire speranze verso una qualche forma di emancipazione dalla schiavitù neoliberista. Si tratta invece di guardare in faccia alla realtà: il neoliberismo, attraverso gli effetti di insicurezza e distruzione che sta generando, non solo non si fa fermare dalla (dalle) crisi, ma continua a rafforzarsi e autoalimentarsi proprio attraverso la crisi. Poiché la capacità specifica del neoliberismo è riuscire a nutrirsi delle reazioni che esso stesso induce, il capitale umano che in esso variamente agisce ha un ruolo autonomizzante solo se è in grado di riappropriarsi della sua dimensione di demos. È questa dimensione la più colpita dalla crisi, ed è da questa sfida che occorre ripartire.










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