Stratega
I
libri di Debord costituiscono l’analisi più lucida e severa delle
miserie e della servitù di una società - quella dello spettacolo,
in cui noi viviamo - che ha esteso oggi il suo dominio su tutto il
pianeta. Come tali, questi libri non hanno bisogno né di chiarimenti
né di encomi, né tanto meno di prefazioni. Tutt’al più sarà
possibile rischiare qui qualche glossa su margine, simile a quei
segni che i copisti medievali tracciavano a fianco dei passi più
notevoli. Seguendo una rigorosa intenzione anacoretica, essi si sono,
infatti, separati, trovando il proprio luogo non in un improbabile
altrove, ma unicamente nella precisa delimitazione cartografica di
ciò che descrivono.
Vantarne
l’indipendenza di giudizio, la profetica chiaroveggenza, la
classica perspicuità dello stile non servirebbe a nulla. Nessun
autore potrebbe oggi consolarsi con la prospettiva che la sua opera
sarà letta fra un secolo (da quali uomini?) né alcun lettore
compiacersi (rispetto a che cosa?) di appartenere al piccolo numero
di coloro che l’hanno compresa prima degli altri. Essi vanno usati
piuttosto come manuali o strumenti per la resistenza o per l’esodo,
simili a quelle armi improprie che il fuggiasco (secondo una bella
immagine di Deleuze) raccoglie e infila frettolosamente nella
cintura. O, piuttosto, come l’opera di uno stratega singolare (il
titolo Commentari rimanda appunto a una tradizione di questo tipo),
il cui campo d’azione non è tanto una battaglia in atto in cui
schierare delle truppe, quanto la pura potenza dell’intelletto.
Una
frase di Clausewitz, citata nella prefazione alla quarta edizione
italiana della Società dello spettacolo, esprime perfettamente
questo carattere:
In questo senso, non solo Il Principe, ma anche l'Etica di Spinoza è un trattato di strategia: un’operazione de potentia intellectus, sive de libertate.
«In ogni critica strategica, l’essenziale è di mettersi esattamente dal punto di vista degli attori. E' vero che ciò è spesso difficile. La maggior parte delle critiche strategiche scomparirebbe integralmente, o si ridurrebbe a minime distinzioni di comprensione, se gli autori volessero o potessero situarsi in tutte le circostanze in cui si trovavano gli attori».
In questo senso, non solo Il Principe, ma anche l'Etica di Spinoza è un trattato di strategia: un’operazione de potentia intellectus, sive de libertate.
Fantasmagoria
Marx
si trovava a Londra quando, nel 1851, fu inaugurata, con enorme
clamore, la prima Esposizione Universale in Hyde Park. Fra i vari
progetti proposti, gli organizzatori avevano scelto quello di Paxton,
che prevedeva un immenso palazzo costruito interamente in cristallo.
Nel catalogo dell’Esposizione, Merrifield scriveva che il Palazzo
di Cristallo
Il primo grande trionfo della merce avviene, cioè, sotto il segno, insieme, della trasparenza e della fantasmagoria. Ancora la guida all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 ribadisce questo contraddittorio carattere spettacolare:
«è forse il solo edificio al mondo in cui l’atmosfera è percepibile ... a uno spettatore situato nella galleria all’estremità orientale o occidentale ... le parti più lontane dell’edificio appaiono avvolte in un alone azzurrino».
Il primo grande trionfo della merce avviene, cioè, sotto il segno, insieme, della trasparenza e della fantasmagoria. Ancora la guida all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 ribadisce questo contraddittorio carattere spettacolare:
« Il faut au publique une con-ception grandiose qui frappe son imagination... il veut contempler un coup d’œil féerique et non pas des produits similaires et uniformément groupés».
E'
probabile che Marx si sia ricordato dell'impressione provata nel
Palazzo di Cristallo quando scriveva la sezione del Capitale che
porta il titolo Il carattere di feticcio della merce e il suo
segreto. Che questa sezione occupi nell’opera una posizione
liminare non è certamente un caso. Lo svelamento del «segreto»
della merce è stato la chiave che ha aperto al pensiero il regno
incantato del capitale, che questo ha sempre cercato di occultare
esponendolo in piena vista.
Senza l’identificazione di questo centro immateriale, in cui il prodotto del lavoro, sdoppiatosi in un valore d’uso e in un valore di scambio, si trasforma in una «fantasmagoria ... che insieme cade e non cade sotto i sensi», tutte le successive indagini del Capitale non sarebbero probabilmente state possibili.
Eppure,
negli anni sessanta, l’analisi marxiana del carattere di feticcio
della merce era, in ambiente marxista, stoltamente disattesa. Ancora
nel 1969, nella prefazione a una popolare riedizione del Capitale,
Louis Althusser invitava i lettori a saltare la prima sezione, dal
momento che la teoria del feticismo era una traccia «flagrante» e
«estremamente dannosa» della filosofia hegeliana.
Tanto
più notevole è il gesto con cui Debord fonda proprio in quella
«traccia flagrante» la sua analisi della società dello spettacolo,
cioè del capitalismo giunto alla sua figura estrema. Il «diventar
immagine» del capitale non è che l’ultima metamorfosi della
merce, in cui il valore di scambio ha ormai completamente eclissato
il valore d’uso e, dopo aver falsificato l’intera produzione
sociale, può ormai accedere a uno statuto di sovranità assoluta e
irresponsabile sull’intera vita.
Il
Palazzo di Cristallo in Hyde Park, dove la merce esibisce per la
prima volta senza veli il suo mistero, è, in questo senso, una
profezia dello spettacolo, o, piuttosto, l’incubo in cui il XIX
secolo ha sognato il XX. Svegliarsi da quest’incubo è il primo
compito che si assegnano i situazionisti.
Situazione
Che cos’è una situazione costruita? «Un momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito attraverso l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi», recita una definizione nel primo numero dell’«Internationale situationniste». Nulla sarebbe, però, più fuorviarne che pensare la situazione come un momento privilegiato o eccezionale nel senso dell’estetismo. Essa non è né il divenir arte della vita né il divenir vita dell’arte. Si comprende la natura reale della situazione, solo se la si colloca storicamente nel luogo che le compete, e, cioè, dopo la fine e l’autodistruzione dell’arte e dopo il transito della vita attraverso la prova del nichilismo. Il «passaggio a nord-ovest nella geografia della vera vita» è un punto di indifferenza fra la vita e l’arte, in cui entrambe subiscono contemporaneamente una metamorfosi decisiva. Questo punto di indifferenza è una politica finalmente all’altezza dei suoi compiti.
Al
capitalismo, che organizza «concretamente e deliberata-mente»
ambienti ed eventi per depotenziare la vita, i situazionisti
rispondono con un progetto altrettanto concreto, ma di segno opposto.
La loro utopia è, ancora una volta, perfettamente topica, poiché si
situa nell’aver luogo di ciò che vuole rovesciare.
Nulla
può, forse, dare l’idea di una situazione costruita, meglio della
misera scenografia in cui Nietzsche, nella Gaia Scienza, colloca
l'experimentum crucis del suo pensiero. Una situazione costruita è
la stanza con il ragno e il lume di luna, tra i rami, nel momento in
cui alla domanda del demone: «Vuoi tu che questo istante torni
infinite volte?», viene pronunciata la risposta: «Si, lo voglio».
Decisivo è qui lo spostamento messianico che cambia integralmente il
mondo, lasciandolo,quasi intatto. Poiché tutto qui è rimasto
uguale, ma ha perduto la sua identità.
La Commedia dell’Arte conosceva dei canovacci, istruzioni destinate agli attori, perché ponessero in essere delle situazioni in cui un gesto umano sottratto alle potenze del mito e del destino poteva finalmente avvenire. Non si comprende nulla della maschera comica se la si intende semplicemente come un personaggio depotenziato e indeterminato. Arlecchino o il Dottore non sono personaggi, nel senso in cui lo sono Amleto o Edipo: le maschere sono non personaggi, ma gesti figurati in un tipo, costellazioni di gesti.
Nella situazione in atto, la
distruzione dell’identità della parte va di pari passo con la
distruzione dell'identità dell’attore. E' tutto il rapporto fra
testo ed esecuzione, fra potenza e atto che è rimesso qui in
questione. Poiché fra il testo e l’esecuzione si insinua la
maschera, come misto indistinguibile di potenza e atto. E ciò che
avviene - sulla scena, come nella situazione costruita - non è
l’attuazione di una potenza, ma la liberazione di una potenza
ulteriore.
Gesto
è il nome di questo punto d’incrocio della vita e dell’arte,
dell’atto e della potenza, del generale e del particolare, del
testo e dell’esecuzione. Esso è un pezzo di vita sottratto al
contesto della biografia individuale e un pezzo di arte sottratta
alla neutralità dell’estetica: prassi pura. Né valore d’uso né
valore di scambio, né esperienza biografica, né evento impersonale,
il gesto è il rovescio della merce, che lascia precipitare nella
situazione i «cristalli di questa comune sostanza sociale».
Auschwztz/Timisoara
L’aspetto forse più inquietante dei libri di Debord è la puntigliosità con cui la storia sembra essersi impegnata a verificarne le analisi. Non soltanto, venti anni dopo La società dello spettacolo, i Commentari (1988) hanno potuto registrare in ogni ambito l’esattezza delle diagnosi e delle previsioni; ma, nel frattempo, il corso degli eventi si è ovunque così uniformemente accelerato nella stessa direzione che, a due soli anni dall’uscita del libro, si direbbe che la politica mondiale non sia oggi altro che una frettolosa, parodica messa in scena del copione che esso conteneva. La sostanziale unificazione di spettacolo concentrato (le democrazie popolari dell’Est) e spettacolo diffuso (le democrazie occidentali) nello spettacolo integrato, che costituisce una delle tesi centrali dei Commentari, sul momento apparsa a molti paradossale, è ora un’evidenza triviale.
...
Schechina
In
che modo oggi, nell’epoca del compiuto trionfo dello spettacolo, il
pensiero può raccogliere l’eredità di Debord? Poiché è chiaro
che lo spettacolo è il linguaggio, la stessa comunicatività e
l'essere linguistico dell’uomo. Ciò significa che l’analisi
marxiana va integrata nel senso che il capitalismo (o qualunque altro
nome si voglia dare al processo che domina oggi la storia mondiale)
non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività
produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio
stesso, della stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo,
di quel logos in cui un frammento di Eraclito identifica il Comune.
La
forma estrema di questa espropriazione del Comune è lo spettacolo,
cioè la politica in cui viviamo. Ma ciò vuol dire, anche, che,
nello spettacolo, è la nostra stessa natura linguistica che ci viene
incontro rovesciata. Per questo (proprio perché ad essere
espropriata è la possibilità stessa di un bene comune) la violenza
dello spettacolo è così distruttrice; ma, per la stessa ragione, lo
spettacolo contiene ancora qualcosa come una possibilità positiva,
che si tratta di usare contro di esso.
Nulla
assomiglia di più a questa condizione, di quella colpa che i
cabalisti chiamano «isolamento della Schechina» e che attribuiscono
a Aher, uno dei quattro rabbi che, secondo una celebre aggada del
Talmud, entrarono nel Pardes (cioè nella conoscenza suprema).
«Quattro rabbi», dice la storia,
«entrarono nel Paradiso, e cioè: Ben Azzai, Ben Zoma, Aher e rabbi Akiba ... Ben Azzai gettò uno sguardo e morì... Ben Zoma guardò e impazzì... Aher tagliò i ramoscelli. Rabbi Akiba uscì illeso».
La
Schechina è l’ultima delle dieci Sephiroth o attributi della
divinità, quella che esprime, anzi, la stessa presenza divina, la
sua manifestazione o abitazione sulla terra: la sua «parola».
L’essere
rivelato e manifesto - e, quindi, comune e partecipabile - si separa
dalla cosa rivelata e si frappone tra essa e gli uomini. In questa
condizione di esilio, la Schechina perde la sua potenza positiva e
diventa malefica (i cabalisti dicono che essa «succhia il latte del
male»).
E'
in questo senso che l’isolamento della Schechina esprime la nostra
condizione epocale. Mentre, infatti, nel vecchio regime,
l’estraniazione dell’essenza comunicativa dell’uomo si
sostanziava in un presupposto che fungeva da fondamento comune, nella
società spettacolare è questa stessa comunicatività, questa stessa
essenza generica (cioè il linguaggio come Gattungswesen) che viene
separata in una sfera autonoma. Ciò che impedisce la comunicazione è
la comunicabilità stessa, gli uomini sono separati da ciò che li
unisce. I giornalisti e i mediocrati (come gli psicanalisti nella
sfera privata) sono il nuovo clero di questa alienazione della natura
linguistica dell’uomo.
Nella
società spettacolare, infatti, l’isolamento della Schechina raggiunge la sua fase estrema, in cui il linguaggio non soltanto si
costituisce in una sfera autonoma, ma nemmeno rivela più nulla –
o, meglio, rivela il nulla di tutte le cose. Di Dio, del mondo, del
rivelato, non ne è nulla nel linguaggio: ma, in questo estremo
svelamento nullificante, il linguaggio (la natura linguistica
dell’uomo) resta ancora una volta nascosto e separato e attinge
così per l’ultima volta il potere di destinarsi, non detto, in
un’epoca storica e in uno Stato: l’età dello spettacolo, o lo
Stato del nichilismo compiuto.
Per questo, il potere fondato sulla supposizione di un fondamento vacilla oggi su tutto il pianeta e i regni della terra si avviano uno dopo l’altro verso il regime democratico-spettacolare che costituisce il compimento della forma-Stato.
Per questo, il potere fondato sulla supposizione di un fondamento vacilla oggi su tutto il pianeta e i regni della terra si avviano uno dopo l’altro verso il regime democratico-spettacolare che costituisce il compimento della forma-Stato.
Ancor
prima delle necessità economiche e dello sviluppo tecnologico, ciò
che sospinge le nazioni della terra verso un unico destino comune è
l’alienazione dell’essere linguistico, lo sradicamento di ogni
popolo dalla sua dimora vitale nella lingua. Ma, per ciò stesso,
l’età che stiamo vivendo è anche quella in cui diventa per la
prima volta possibile per gli uomini far esperienza della loro stessa
essenza linguistica - non di questo o quel contenuto di linguaggio,
ma del linguaggio stesso, non di questa o quella proposizione vera,
ma del fatto stesso che si parli. La politica contemporanea è questo
devastante experimentum linguae, che disarticola e svuota su tutto il
pianeta tradizioni e credenze, ideologie e religioni, identità e
comunità.
Solo
coloro che riusciranno a compierlo fino in fondo, senza lasciare che,
nello spettacolo, il rivelante resti velato nel nulla che rivela, ma
portando al linguaggio il linguaggio stesso, saranno i primi
cittadini di una comunità senza presupposti né Stato...
da Mezzi senza fine. Note sulla politica di Giorgio Agamben
© 1996 Bollati Boringhieri editore srl., Torino, corso Vittorio Emanuele 86
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