uno dei due è l'altro

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martedì 23 febbraio 2016

Rivoluzione industriale 4.0 e Medioevo insorgente

Riccardo Achilli 



Henri Cartier-Bresson*

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Il dibattito sull’automazione ed i suoi effetti lavoristici e sociali sta avendo una rinascita, in corrispondenza con quella che sembra prospettarsi come una nuova rivoluzione tecnologica pervasiva, fatta essenzialmente di sviluppi nei settori della intelligenza artificiale, della produzione, uso e distribuzione sostenibile dell’energia, delle biotecnologie e della progettazione digitalizzata in 3D. Qualcuno chiama “Rivoluzione Industriale 4.0” questa ondata tecnologica imminente, che riconfigurerà completamente gli assetti produttivi, occupazionali, sociali e politici del mondo.

Naturalmente non mancano i cantori dell’ottimismo, appositamente convocati per preparare il campo a questi sconvolgimenti che saranno, per chi dovrà viverne la fase di transizione (cioè noi) devastanti non meno di quelli che hanno accompagnato la prima Rivoluzione industriale. Nel campo della green economy, si va da chi, come Jeremy Rifkin, immagina un futuro di “produzione democratica” di energia da parte di autoproduttori individuali proudhoniani, che si scambiano energia fra loro in una rete in cui nessuno può assumere una posizione oligopolistica, all’idea che l’innovazione tecnologica in materia energetica possa risolvere il riscaldamento globale (quando probabilmente il problema è quello, da un lato, di preparare le contromisure nei confronti di un fenomeno già in atto e non reversibile, e dall’altro di preoccuparsi di problemi ambientali altrettanto se non più gravi, come l’eccessiva impronta idrica ed alimentare).




La progettazione in 3D vede altrettanti cultori dell’idea neo-proudhoniana della “democrazia progettuale”, in cui gruppi di giovani in blue jeans e senza capitali produce innovazioni tecnologiche nel garage di casa. Le biotecnologie navigano su un’onda che è preoccupante sotto il profilo filosofico, prima che tecnologico, ovvero sull’idea della “costruibilità” e della producibilità e modificabilità manifatturiera della vita stessa, sull’onda dei microrganismi ibridi di Craig Venter, oppure degli Ogm. Idea che a mio parere si rivelerà fallimentare, perché la vita, il cui concetto stesso sfugge ad una definizione specificamente scientifica (la stessa definizione più avanzata della vita, quella di Schroedinger, basata sul disequilibrio energetico stazionario e la capacità di sintesi dall’ambiente esterno, è più che altro una osservazione delle proprietà termodinamiche e chimiche della vita, non una sua spiegazione) è qualcosa che va al di là del volgare bric-à-brac del DNA cui pensano i genetisti. Però questa idea, per quanto fallimentare, modifica profondamente il concetto di vita, riducendolo ad un processo manifatturiero. La vita, spogliata della sua aura di sacralità e mistero, diverrà un prodotto da supermercato disponibile “on-the shelf”, e gli effetti sulle relazioni sociali ed umane saranno devastanti, improntati a cinismo e crudeltà.

Ovviamente sfugge a tutte queste visioni ottimistiche un semplice concetto: dentro una società, l’innovazione tecnologica non è neutra. La direzione che essa imprime dipende dalle relazioni sociali e dai modi di produzione che la generano e la assimilano. Per fare un semplice esempio, la tendenza spontanea dell’accumulazione capitalistica verso forme di oligopolio smentirà, con ogni probabilità, le fanfalucche della “democrazia energetica” o “dell’autoprogettazione partecipata”, forme che probabilmente si esauriranno nelle prime fasi di varo delle innovazioni in materia energetica o di progettazione in 3D.

Focalizziamoci sul dibattito relativo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Dove perlomeno i termini del dibattito si pongono in misura più chiara e cruda. Da un lato, si riconosce che la robotica, al culmine del suo sviluppo, non sostituirà le professioni basate sulla creatività e, più in generale, sulla necessità di fare scelte di fronte ad eventi imprevedibili ex ante, o di assumere decisioni etiche sulla base di un sistema di principi personale. Questo perché l’intelligenza artificiale, anche la più avanzata, si basa su un modello matematico, e come tutti i modelli matematici sottostà al teorema di Goedel, per il quale un sistema matematico non può essere al contempo completo e coerente. Se si vuole coerenza, occorre sacrificare la completezza, cioè la capacità di reagire a eventi non modellizzabili ex ante nel sistema di algoritmi della cyber-intelligenza. E ciò impedisce che le macchine acquisiscano la coscienza di sé e quindi il libero arbitrio, poiché esso implica la libertà di lavorare per il completamento di un sistema matematicamente coerente.




Come afferma Kant, se si vuole costruire un sistema di pensiero che includa anche le idee trascendentali, ovvero quelle che fuoriescono dall’utilizzo empirico della ragione, si finisce per cadere nell’indeterminatezza. Ed un sistema matematico non può cadere nell’indeterminatezza senza cessare di funzionare. Già questo dovrebbe servire per riaffermare l’unicità del mistero della vita, e in specie di quella umana, in grado di funzionare in forma non-algoritmica, e quindi di incorporare l’incoerenza nel suo sistema di pensiero senza cadere nella paralisi delle funzioni intellettive.

D’altro lato, però, si riconosce che l’intelligenza artificiale applicata alle macchine comporterà un processo gigantesco di soppressione di lavoro, eliminando tutti quei mestieri ripetitivi, routinari, completamente controllabili da un soggetto terzo, o dove la possibilità di scelta è limitata entro un campo di opzioni controllabili e replicabili: dall’operaio in catena di montaggio al soldato di truppa, passando per l’addetto al telemarketing, o l’impiegato dell’ufficio anagrafico del Comune, fino al tassista o al camionista. E qui naturalmente si apre la questione, storicamente dibattuta da tutte le grandi menti da almeno due secoli: la soppressione del lavoro necessario aprirà una nuova alba per l’umanità, in cui diverremo tutti dei cultori dell’arte e della letteratura nel nostro tempo libero, oppure un incubo simile a quello di Huxley, dove una élite tecnocratica (magari geneticamente controllata) dominerà su un mondo di macchine e di reietti?

Ci sono tante angolature per rispondere a tale domanda, ad esempio chiedersi, sotto un profilo filosofico ed antropologico, se l’uomo possa esistere senza applicare la sua energia ad un lavoro, non meramente intellettuale, ma di trasformazione del suo ambiente. Il lavoro nell’ambiente esterno corrisponde ad una istanza psicologica fondamentale dell’uomo, senza la quale l’umanità potrebbe degradare verso psicosi di massa difficilmente immaginabili? C’è poi l’angolatura sociologica. E su questa occorrerebbe partire dal presupposto che le evoluzioni del mercato del lavoro indotte dall’intelligenza artificiale avvengono all’interno di un modo di produzione capitalistico. Sarà anche capitalismo 4.0, ma le regole dell’accumulazione capitalistica continuano a valere, al fondo. Perché il lavoro è sempre lavoro “sociale”, determinato cioè da un modo di produzione collettivo, non mero lavoro “necessario” alla mera riproduzione fisica del produttore. E allora facciamo riferimento a chi il capitalismo lo ha analizzato a fondo, ovvero a Marx. Nello specifico, al “Frammento sulle macchine”, dei Grundrisse.





In questo capitolo di poche pagine, estremamente condensato e di difficile lettura, che Marx stesso aveva scritto come bozza preliminare in vista di uno sviluppo più organico della riflessione nel rapporto fra capitalismo ed automazione, si trovano profezie straordinariamente azzeccate. L’automazione supera di gran lunga il restrittivo concetto di “strumento di lavoro”, poiché mentre quest’ultimo è controllato dalla volontà e dalla perizia del lavoratore, la macchina media direttamente il rapporto fra la perizia professionale ed il lavoro, riducendo il lavoratore ad un organo della stessa, sicché si ha la massima sussunzione possibile del lavoro vivo nel lavoro oggettivato nelle merci che produce: non soltanto la classica alienazione da plusvalore che si realizza nel momento in cui l’oggetto del lavoro è stato prodotto e prelevato dal capitalista, ma addirittura a monte, nello stesso processo produttivo, dove il valore oggettivato della macchina supera di gran lunga il valore che può essere apportato dalla forza-lavoro vivente, grazie allo straordinario aumento di produttività che la macchina consente di ottenere.

Di conseguenza, l’incentivo dato dall’enorme sviluppo della produttività genera un riassorbimento del progresso scientifico e tecnico dentro l’alveo del capitale e dei suoi meccanismi di riproduzione: “l’accumulazione della scienza e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e si presenta perciò come proprietà del capitale”. E quindi “non è più nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il lavoro generalmente sociale”.

Queste previsioni hanno un riflesso enorme nella realtà sociale attuale: il riassorbimento della coscienza di classe dentro i paradigmi del capitalismo ne è la conseguenza, poiché il lavoro vivo del proletario diviene sempre più strumentale a quello della macchina, anche quando si tratta di un tecnico che controlla il funzionamento della macchina stessa. Il lavoro sociale si trasforma sempre più in un proletariato del general intellect, che non vende più la sua forza-lavoro fisica, come l’operaio tradizionale, ma la sua energia intellettuale arricchita dalle competenze acquisite nel percorso di formazione.





Dovendo lavorare dentro contesti produttivi di rete, di tipo orizzontale e non verticale, essendo sottoposto al precariato come forma di disciplina del lavoro che non può più essere garantita dai contesti disciplinari tipici del fordismo, oggettivando il proprio lavoro in un prodotto intellettuale o creativo, il proletario del general intellect tende a cadere in un processo di “astrazione del lavoro”, perché il tempo di lavoro direttamente impiegato tende ad essere un sottomultiplo del valore oggettivato dal prodotto, grazie all’incremento di produttività.

La differenza risiede nel valore di lavoro “astratto”, intellettuale, necessario per ricondurre le forze della scienza verso l’aumento della produttività. In questo modo, detto proletario cognitivo tende a perdere la percezione del rapporto fra il suo valore-lavoro e il valore del prodotto , e quindi si allenta la percezione del suo ruolo subordinato “collettivo” dentro il processo produttivo, acquisendo schemi meritocratici, intimamente individualistici, che ne distruggono la percezione di classe. “In questa trasformazione, non è né il lavoro immediato, eseguito dall’individuo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”.


Perciò, avverte Marx, i cultori dell’ottimismo sociale legato all’automazione produttiva sbagliano profondamente. “E’ quindi una frase borghese assolutamente assurda – scrive – quella che l’operaio ha interessi comuni con il capitalista perché questi, con il capitale fisso (…) gli agevola il lavoro o gli abbrevia il lavoro (…) le macchine non intervengono a sostituire forza-lavoro mancante, ma per ridurre la forza-lavoro presente in massa alla misura necessaria. Solo dove la forza-lavoro è presente in massa intervengono le macchine”. Ed eccoci al cuore della disoccupazione generata dall’automazione industriale e, più di recente, dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

La disoccupazione tecnologica, nella logica marxiana, è però un passaggio, seppur doloroso, verso una società superiore. Naturalmente, Marx vede in tale processo la base per il superamento, a lungo periodo, del capitalismo. Per diverse contraddizioni dialettiche insorgenti:


  • Il capitale fisso, con l’incremento di produttività che genera, riduce il lavoro umano diretto ad un minimo. Ciò rappresenta la “condizione dell’emancipazione del lavoro”, per Marx: di fatto,, il capitale, essendo valorizzato sotto forma di tempo di lavoro (vivo e morto) riducendo al minimo il tempo di lavoro necessario, produce una auto-svalorizzazione;

  • Cambiano le condizioni stesse per l’accumulazione di capitale: “non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la più grande fonte di ricchezza (perché soppiantato dal lavoro “intellettuale”, nda) … il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo”, perché “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è creata nel frattempo”.





Da queste contraddizioni, si genera il crollo della produzione generata dal valore di scambio, mentre si amplia lo spazio temporale dedicabile allo sviluppo intellettuale, artistico e culturale del singolo individuo, generando quindi una fuoriuscita dallo sfruttamento, dall’alienazione e dalla miseria, materiale e spirituale, del capitalismo.

Evidentemente, poiché il lavoro in Marx non è meramente “necessario”, ma “sociale”, occorre che tali contraddizioni generino la forza sociale in grado di imprimere una svolta positiva alla fase di “automazione” del capitalismo. Perché se la fase “cibernetica” del capitalismo produce contraddizioni potenzialmente esiziali, occorre sempre, nel processo dialettico, una forza che diriga tali contraddizioni verso una sintesi superiore di tipo socialista. Occorre cioè che le forze del general intellect producano un nuovo lavoratore sociale, il “lavoratore collettivo cooperativo associato”, “alleato delle potenze mentali, tecniche e scientifiche del capitale”.

Non più la classe centrale del proletariato operaio fordista, ma, per dirla con Costanzo Preve, “il soggetto intermodale di cui parlava Karl Marx non era la semplice classe operaia e proletaria (tesi paradossalmente ‘estremistica’ del moderato Kautsky), quanto il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale”.

In questa interpretazione di Marx, si coglie una grande verità, purtroppo però rovesciata. Lo sviluppo del capitalismo ha, in effetti, prodotto un “soggetto intermodale”, ma lo ha prodotto dal versante dei valori del capitalismo, non da quello dei valori socialisti, sicché “dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale” il riferimento valoriale prevalente è quello dell’uomo unidimensionale di Marcuse. La fine dell’antagonismo sociale profetizzata da Marx nei Grundrisse e sopra citata avviene dal lato della resa ai valori dominanti, non della resa del capitale. Se la riduzione del lavoro necessario, grazie all’automazione, svalorizza il capitale fisso, l’attività lavorativa del general intellect lo rivalorizza su livelli enormemente superiori rispetto al capitalismo delle ferriere, proprio perché, come Marx riconosce, il general intellect entra dentro il capitale fisso, come sua componente integrante.






Lungi da uno scenario di liberazione individuale e di socialismo, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ci porterà ad uno scenario cupo, un nuovo Medio Evo, dentro il quale le contraddizioni generate dall’introduzione delle macchine si risolvono in una nuova stratificazione sociale irrigidita, che abbandonerà anche il mito liberista del “self made man”, che raggiunge il vertice grazie alle sue abilità lavorative e il suo coraggio. Avremo piuttosto una società divisa in caste impenetrabili, al cui vertice si collocherà una élite tecnocratica e dotata dei capitali per sviluppare l’innovazione, “blindata” da saperi scientifici esclusivi e dotazione di risorse finanziarie. In mezzo, una casta di tecnici addetti al controllo, alla supervisione ed alla manutenzione dei macchinari, insieme ad un proletariato cognitivo che lavorerà per lo sviluppo e l’applicazione di innovazione tecnologica sotto le direttive generali dell’élite. Ed alla basa, una grande massa di diseredati, privati degli strumenti cognitivi per ascendere, oramai inutili perché soppiantati dalle macchine nei lavori manuali o ripetitivi. Destinati ad essere eliminati da miseria e deprivazione, nel deserto fuori dalle mura delle cittadelle, vittime della carenza di risorse alimentari ed idriche verso il quale sembra andare il pianeta, saranno oggetto di un neo malthusianesimo.




* magnumphotos

mercoledì 17 febbraio 2016

Suoni volanti e dischi terrestri (2005)

 Gennaro Fucile



La musica sembra essere una qualità specifica degli umani. Raramente si è trovata, nelle saghe spaziali, nelle esplorazioni immaginarie del cosmo, una cultura musicale aliena; anzi, uno dei tentativi più seri di esportare la musica terrestre nello spazio si è tradotto in un divertente quanto clamoroso fiasco, come racconta Jack Vance in L'opera dello spazio 

Sul pianeta Terra, invece, negli anni Cinquanta, il sodalizio tra popular music e science fiction fiorisce negli Usa sotto il segno dei sogni e dei timori procurati dal benessere e dalla guerra fredda. Tempi in bilico tra comfort e paranoia e di evoluzione della letteratura sf, ora meno entusiasta del progresso; anni di progresso della musica popolare, che genera il rock’n’roll e il genere a posteriori battezzato space-age pop. Anni in cui gli strumenti musicali elettronici, allora hi-tech, acquisiscono il timbro del futuro.


I suoni del domani, però, si captano per la prima volta in Italia, dove l’elogio della macchina investe anche la musica. Naturalmente occorre che la sf sia formalizzata per poter parlare di musica fantascientifica e il futurista Luigi Russolo arriva troppo presto quando, nel 1913, diffonde il profetico manifesto L’Arte dei Rumori e presenta il suo ingegnoso quanto poco pratico Intonarumori. 
Due anni prima, Hugo Gernsback, un ingegnere lussemburghese fan di Verne, trasferitosi negli Usa, aveva pubblicato su Modern Electrics (la sua rivista all’epoca) quello che i più indicano come il primo romanzo di sf: Ralph 124C41+. Un padre fondatore e un pessimo scrittore cui si rende eterno tributo con il Nobel della fantascienza battezzato Premio Hugo. Nel 1926, Gernsback lanciò sul mercato la prima rivista specializzata in fantascienza, Amazing Stories – The magazine of Scientifiction. Appena due anni prima, nel 1924, lo scienziato russo Lev Sergejevich Termen (in seguito divenuto Leon Theremin) brevetta il termenvox, poi conosciuto come theremin, uno strumento elettronico che viene suonato allontanando e avvicinando le mani a due antenne, manipolando così il campo elettrostatico e producendo un suono etereo e modulato. Pur riscuotendo interesse e un discreto successo in ambito accademico, il theremin divenne una piccola star solo sul finire della guerra.


La piazza è quella di Hollywood, l’anno il 1945. Suoni angoscianti, terrorizzanti commentano I giorni perduti di Billy Wilder e Io ti salverò di Alfred Hitchcock. Suoni generati dal theremin. Alla fine degli anni Quaranta la Capitol pubblica il 78 giri Music Out of the Moon con composizioni originali di Harry Revel, arrangiati e diretti da Les Baxter con Samuel Hoffmann al theremin.



Nel 1951 cinema di fantascienza e theremin (ovvero elettronica) si connotano a vicenda in Ultimatum alla Terra e La cosa da un altro mondo. Nel 1954 nasce il rock’n’roll e nel 1956 la prima colonna sonora interamente elettronica firmata da Louis e Bebe Barron.
Il film è Il pianeta proibito. A farla da padrone le alterazioni di velocità del nastro
e la manipolazione di circuiti elettronici.
L’immaginario fantascientifico riversato in musica
 ne riceve un imprinting indelebile e il segno è tuttora imperante.








Colonne sonore e sigle televisive, da questo punto in avanti, invece, escono da questa storia, non risultando più determinanti nella costruzione dell’immaginario in cui albergano musica e fantascienza. Nel frattempo, la narrativa di sf non sta a guardare. Tra il 1950 e il 1957 vengono anche pubblicati testi poi divenuti dei classici nella storia del genere, come I mercanti dello spazio di Fred Pohl e Cyril Kornbluth, Nascita del superuomo di Theodore Sturgeon 
e Un amore a Siddo di Philip José Farmer


Sono gli anni dei primi racconti di Robert Sheckley, tra cui la Settima vittima (da cui il film La decima vittima con Mastroianni), delle storie sui robot di Isaac Asimov e di un racconto, Sentinel di Arthur C. Clarke, che diverrà, in seguito, 2001 Odissea nello spazio. Proliferano le riviste, nasce il filone “sociologico”, Philip K. Dick inizia a pubblicare i suoi incubi vestiti da storie e Ron Hubbard scrive Dianetics: The Modern Science of Mental Health, pubblicato sulla più autorevole rivista del settore, Astounding Science Fiction.




Intanto l’immaginario esotico esplora altri mondi a bordo degli strumenti elettronici, compresi i trucchi da sala di registrazione. Nel 1953 la Brunswick pubblica Impressions of Outer Space, un dieci pollici di Larry Elgart. La copertina è esplicita: un astronauta fluttuante, in assenza di gravità, intorno al cratere di un asteroide. Otto brani con titoli espliciti come Space Intoxication






Nel 1955 atterra poi uno strepitoso Exploring the Unknown di Walter Schumann e il suo coro di voci spaziali. Il disco si apre con un countdown. L’anno successivo plana From Another World di Sid Bass e Music From Another World della Jay Gordon Concert Orchestra. Quest’ultimo è un tripudio di riverberi sonori, specie in apertura e chiusura dei brani, scelti dagli standard dell’epoca. Esagerato poi il duo Arturo Ferrante and Louis Teicher che scodella Soundproof con copertina degna del Forbidden Planet e Blast Off con i due bei tomi in tuta da astronauta e pianoforti Steinway preparati alla Cage, ma con l’intento (riuscito) di evocare suoni spaziali.






Nel 1957 Les Baxter su Capitol registra Space Escapade, storie di viaggi nel cosmo alla scoperta di luoghi strani ma invitanti. L’ottimismo dell’epoca. Nel 1958, tocca a Russ Garcia che pubblica (su Liberty) Fantastica, album sottotitolato Music from Outer Space. In scaletta titoli come Nova (Exploding Star), Lost Souls of Saturn e Monster of Jupiter. Effetti elettronici e flauti inquietanti si occupano di creare l’atmosfera. Stranezze anche in The Twilight Zone, album di Marty Manning che della serie televisiva propone il tema. Non è la colonna sonora ma abbonda in tutti i brani di strumenti elettronici, dall’ondioline alle onde martenot. Effetti sonori vari prodotti da una versione aggiornata del theremin e un violino elettrico. In scaletta brani come Galaxy, Journey to Infinity e (senti, senti) The Dark Side of the Moon.







 Da Attilio Mineo arriva Man in Space with Sounds che schiera una grande orchestra e spettacolari suoni elettronici. Anello tra sound space e psichedelia a venire sarà poi Lucia Pamela con Into Outer Space,
 musica veramente dell’altro mondo.



Parallelamente, le tecnologie si fanno largo in cielo e in terra. Nel 1957 parte il primo Sputnik, la RCA commercializza la televisione a colori e pochi anni dopo, nel 1961, lancia una serie di LP incisi e mixati in Stereo Action, la vera stereofonia. Ad avvalersene in modo magistrale sarà soprattutto il pianista e direttore d’orchestra Juan Garcia Esquivel nell’esemplare Latin-Esque del 1962. Tutto queste attività spaziali non poteva lasciare insensibili gli extraterresti e così, un bel giorno,
cadde sulla Terra il primo alieno: Sun Ra.




Posto che si sia davvero chiamato Herman Poole “Sonny” Blount e nato sul serio in Alabama nel 1914 (o 1915? il dubbio rimane), Sun Ra è l’Hugo Gernsback della fantascienza musicale. Se il primo fonda il genere letterario moderno, il secondo scrive lo spartito di base da cui nessuno potrà più prescindere. Sun Ra adopera titoli schiettamente sci-fi, impiega suoni elettronici (già nei primi anni 50 mise a punto una tastiera elettrica dai suoni un po’ theremin, un po’ Onde Martenot), miscela jazz e popular music, swing e free, configura la sua orchestra come una setta, la rimodella a suo piacimento a iniziare dal nome (Myth ScienceArkestra, Astro Infinity Arkestra, Solar Arkestra, ecc.), mentre i suoi componenti si legano al band leader come fan in un circolo, sedotti da un personaggio favoloso (se stesso, ma non importa). Afrodianetica di un freak non così out da non sapere che negli anni 50 tecnologie sofisticate stanno irrompendo sulla scena in compagnia di nuovi suoni, tecnologie di uso quotidiano che offrono benessere, tempo libero, redditi maggiori e dando luogo a non poche metamorfosi, quella possibile in tempo di guerra per effetto delle radiazioni nucleari e quella effettuata nella pace parallela con la generazione dei non adulti, ad esempio, trasformata in giovani.


Muta anche la fantascienza, da adolescenziale diventa adulta, mentre la sua dimensione più meravigliosa inizia lentamente a trasmigrare in nuove dimensioni, musicali non letterarie. Sun Ra miscela exotica, jazz e science fiction, tre prodotti culturali tipici del made in Usa. Quello che fa di questa operazione un caso irripetibile è la mancanza del target di riferimento. Sun Ra arriva prima che quei minorenni appassionati di fantascienza, quelle minoranze che apprezzano il jazz, quegli adolescenti ribelli pazzi per il rock and roll e tutti coloro che usufruiscono del nuovo benessere del dopoguerra, sognando vacanze ed avventure in luoghi esotici, diventino un solo soggetto.
Il passaggio intermedio è nel segno di Bond, dei Beatles e del moog.




Il primo si fa carico di aggiornare il cocktail con una dose di spettacolarità che Sun Ra non poteva certo permettersi. I Fab Four fanno emergere il target e fondano il genere musicale più idoneo alla fantascienza: il pop. Il terzo segna lo stadio più alto dell’elettronica analogica. Strumento elettronico inventato dall’ingegnere Robert Moog (scomparso di recente) nel 1964, coetaneo di un'altra meraviglia della tecnica, il mellotron, un antenato del campionatore, il moog, - sintetizzatore di suoni per antonomasia - esplode nel 1968 quando Walter Carlos decide di utilizzarlo per eseguire i Concerti Brandeburghesi di Bach. L’album Switched on Bach ottiene un successo enorme e il moog si trasforma nell’oggetto del desiderio di quanti cercano il colore del futuro nella loro musica. L’anno prima non aveva funzionato sul piano commerciale un altro album per solo moog, In Sound From Way Out di Jean-Jacques Perrey e Gershon Kingsley. Le note di copertina dichiaravano: “Ecco la musica elettronica di facile consumo che presto verrà ascoltata dai juke-box delle stazioni spaziali interplanetarie, dove faranno sosta le navicelle spaziali durante i loro lunghi viaggi”. Insomma, i tempi stavano cambiando.




Cinque anni ora separano Love Me Do dal Sergent Pepper, altrettanti circa intercorrono tra 007 Licenza di uccidere e 2001 Odissea nello spazio. Il tempo di incubazione dell’alieno, poi l’invasione with a little help di un po’ di chimica siglata LSD.

I viaggi mentali della space-age e la trance del corpo indotta dal ritmo del rock and roll trovano sintesi grazie a un prodotto sintetico. Le buone vibrazioni dell’epoca si inaugurano proprio con il brano Good Vibrations dei Beach Boys che rimette in gioco il theremin, poi i Pink Floyd partono con brani intitolati Astronomy Domine, Interstellar Overdrive, Set the Controls for the Heart of the Sun, Jimi Hendrix dialoga con gli alieni in Third Stone from the Sun, attende l’arrivo di gigantesche astronavi in House Burning Down e, soprattutto, dichiara di provenire
 dagli anelli di Saturno.



I Rolling Stones rotolano a 2000 Light Years from Home, i Jefferson Airplane provano il viaggio spaziale in Wooden Ships, poi il leader Paul Kantner racconta l’esodo dalla Terra di 7.000 freaks in Blow Against the Empire, infine il ritorno come Jefferson Starship. L’album di Kantner venne segnalato al premio Hugo. Ancora prima a volare alto sono i Byrds in Mr. Spaceman e
Five Miles High.



David Bowie si impone con Space Oddity e prosegue con la saga di Ziggy Stardust, gli Hawkwind, che avranno in formazione anche Michael Moorcock (scrittore di sf e direttore della rivista New Worlds) danno il via ad una saga infinita, proposta in pubblico con qualcosa che può definirsi come il seme dei futuri rave party. La piattaforma di lancio è l’album del 1971
In Search of Space (con l’inno Master of the Universe).




Ai Van Der Graaf Generator la terra non basta per contenere le pene esistenziali del leader Peter Hammill e il passaggio nello spazio di Pioneer Over C è d’obbligo. I Gong fanno atterrare sul nostro pianeta teiere volanti, raccontando le avventure di Zero the Hero
in una fiabesca trilogia di sballi spaziali.


 In Germania salpano i Kosmiche Couriere (invenzione del giornalista e poi discografico Rolf Ulrich Kaiser ): Tangerine Dream e Klaus Schulze, che da questi proviene. Due titoli eloquenti, Phaedra
e Cyborg tracciano la rotta principale della space music.



Su un altro versante, i Kraftwerk esplorano il ritmo delle macchine. The Man Machine del 1978 è il capitolo consigliato in tal senso. I tuttora misteriosi Residents, a loro volta, inventano il genere fantaetnologico con Eskimo, mentre i Chrome scrivono colonne sonore per film immaginari come Alien Soundtracks.

Non tutte le esperienze musicali citate, però, vedono la sf come organica al progetto musicale; spesso sono i suoni, gli strumenti e la cornice a marcare in tal senso la proposta musicale e a volte solo per uno o piu brani o per una fase della carriera artistica, con due notevoli eccezioni, Hawkind, di cui si è detto e Magma, i veri eredi di Sun Ra.







Magma nasce dall’immaginazione di Christian Vander, batterista nato e cresciuto nel mito di John Coltrane. Magma è un romanzo di fantascienza e un’invenzione musicale irripetibile. Per renderla tale Vander inventò una lingua extraterrestre: il kobaiano. Magma è un azzardo musicale che punta a fondere rock, Coltrane e i Carmina Burana di Carl Orff. I pezzi della storia, poiché la saga distribuita in vari capitoli è tuttora un’opera non finita, si distribuiscono dall’album omonimo d’esordio nel 1970 a Attakh pubblicato nel 1978. In mezzo capolavori come Mekanik Dekstruktiv Kommandoh e Kohntarkosz. In seguito, Vander tramite la Seventh ha iniziato a pubblicare nastri inediti che in parte integrano il racconto. La storia è quella del pianeta Kobaia abitato da un popolo di civiltà evoluta che si confronta con quella terrestre sempre più votata all’autodistruzione. La musica di Magma è per adepti, come quella di Sun Ra: dentro o fuori, puro fandom. Fine dei Settanta, il futuro è già in affanno, è il tempo che inizia a curvarsi e la musica va in loop.



***

1980, Douglas Adams pubblica Ristorante al termine dell’universo [1], secondo capitolo della saga costruita intorno alla guida intergalattica. Tra le esilaranti avventure dei protagonisti principali, Adams dedica un po’ di spazio alla prima rockstar del futuro, Hotblack Desiato, leader dei Zona del disastro, il gruppo rock più assordante della galassia, al punto che “per avere il sound migliore, bisogna stare dentro grandi bunker di cemento situati a circa sessanta chilometri dal palcoscenico”. Adams esagera, ma non troppo. Forse aveva in mente quel terrorismo sonoro praticato a partire ufficialmente dal 3 settembre 1975, data di nascita dei Throbbing Gristle, lo stesso anno in cui una rockstar come Lou Reed pubblica il doppio album Music Metal Machine, rumore allo stato puro. In parallelo a quanto avviene nel pop, anche la musica elettronica vive la stagione del punk, non solo con gruppi come Cabaret Voltaire e Einsturzende Neubauten, ancora vagamente annoverabili all’universo pop (molto, molto ai confini).

Adams esagera, ma non troppo nelle previsioni, poiché saranno in molti a far urlare le macchine, scatenando tempeste soniche, a base di frequenze distorte, suoni lancinanti e terrificanti. Un paio di eroi del genere sono Maurizio Bianchi, noto come M.B. e Masami Akita, noto come Merzbw, un italiano e un giapponese, poiché il fenomeno non è solo anglosassone. La mutazione della musica in rumore puro richiede anche nuovi riferimenti letterari e, in generale, culturali. Ora i testi sacri sono quelli di William Burroughs e di James Ballard, citati e imitati, dalle tecniche di cut-up  su nastri e testi praticate già dai Throbbing Gristle ai rimandi ballardiani di Koiltlaransk, album d’esordio dei Cranioclast, duo tedesco formato dai sedicenti Soltan Karik e Sankt Klario che propongono un’autentica musica da zona del disastro. Per inciso, la storia musicale del gruppo è tutta un anagramma, gli album successivi si intitolano Kolik San Art, Lost in Karak, eccetera, un gioco a fare i misteriosi alla Residents. Altro polo culturale che si afferma è quello esoterico che muove sulle suggestioni dei testi di AleisterCrowley. Denominatore comune: l’apocalisse,
ma questa quando è iniziata nella realtà?








Sul finire degli anni Settanta qualcosa effettivamente cambia, cambia nella sf e nella grana della musica fantascientifica. In realtà, si altera la realtà stessa, che da moderna si modifica in postmodernità, diventa liquida o si polverizza, entra nell’età dei simulacri del terzo tipo, si avvia verso il nothing o comunque si voglia chiamare e spiegare l’epoca che per comodità cronologica si data con il libro La condizione postmoderna [2] scritto da Jean-François Lyotard nel 1979. La new wave fantascientifica prelude all’era del cyberpunk, una progressione di trame in storie alterate dall’invasione degli ultra oggetti di uso quotidiano in grado di ospitare un tasso elevatissimo di hi-tech, in storie contaminate da overdose di racconti televisivi e in storie folgorate da eventi fantascientifici come il crollo del Muro e l’avvento della Rete. Il testimone della narrazione principale passa in altre mani o meglio si distribuisce equamente tra diverse mani, fino a trovarsi ovunque tranne che nella fantascienza. Qualche esempio? Video game, connessioni wireless,  video installazioni, reality, spot in 3D, hacker, telereportage di bombardamenti intelligenti, supermercati elettronici, blog, iPod e videoclip per tornare alla musica. Infatti, a partire dagli anni Ottanta, il sodalizio formale sf & musica abbandona la sede classica del long playing e si insedia in tv (esemplari i video Slave to the Rhythm di Grace Jones e Wild Boys dei Duran Duran).

La componente elettronica ne resta esclusa e, quasi per reazione, si radicalizza prima nel rumorismo e poi nel silenzio e nella desolazione. Il primo e più consistente blocco, storicamente indicato come industrial, esordisce, come si è detto, con i Throbbing Gristle; il secondo, ribattezzato a posteriori isolazionismo, ha il suo faro in Thomas Koner. Il termine proposto da Kevin Martin sul numero 115 di The Wire, fu utilizzato dalla Virgin per intitolare il quarto volume di una serie dedicata alla musica ambient. Nelle note di copertina si chiariva il concetto con le parole stesse di Martin: “La musica asociale degli isolazionisti fornisce un contesto ambientale confortevole a tutte le persone che nel solipsismo ripongono la loro fede”. Lasciando perdere quanto fosse bene o male congegnata la raccolta Virgin, il concetto tradotto in musica significa basse frequenze, drones elettronici cupi, rimbombi, con un effetto di desolazione e solitudine che solo queste sonorità possono agitare nella mente.







In casi estremi la relazione musica e sf si concettualizza nei suoni estratti dal proprio corpo (Stelarc), o tratti dal DNA (Susan Alejander). Altri ancora virano verso atmosfere e iconografie degne di H. P. Lovecraft, ma spesso di cattivo gusto, in particolare il giro di musicisti legati all’etichetta svedese Cold Meat Industry. Espressionismo sonoro che congiunge definitivamente elettronica
 ed esoterismo.
All’appello non manca certo il citazionismo. Il trio Radio Massacre International, ad esempio, ripercorre le rotte dei Tangerine Dream, strumentazione analogica, titoli di corpi celesti lontani, spazi siderali. Prima di loro, i Nightcrawlers producono una valanga di cassette di pura space music. L’esordio datato 1980 si intitola Planetary. Constance Demby propone Novus Magnificat, sottotitolato Throught the Stargate, un trip cosmico a base di synth 
degno di Klaus Schulze.

A metà anni 90, la space age viene riscoperta insieme alla generale sbornia di neo lounge serializzata nei cocktail del Buddha Bar. Gli Stereolab ritornano al pianeta Esquivel, un tripudio di coretti ed elettronica analogica. Gli Air rispolverano il moog e si affermano con Safari Moon, un frullato di easy listening, suoni elettronici targati Settanta, house, techno, hip hop e ambient jungle.





Poi ci sono i viaggi nel tempo non dichiarati. In molti estendono il concetto di etno ambient, fondato da Brian Eno e John Hassel con la Fourth World Music, volando indietro, esplorando tempi mitici, dal dream time degli aborigeni australiani ai suoni delle praterie dei nativi americani. Due nomi per chiarire: Steve Roach e Coyote Oldman. Ancestralità di ritorno, con didgeridoo o flauti navajo, il suono delle pietre e delle conchiglie che duettano
 anacronisticamente con drones elettronici.

La fanta-archeologia di Peter Kolosimo trova qui un commento sonoro perfetto. Denominatore comune a tutte e queste correnti è l’ennesimo salto in avanti permesso dalla tecnologia, da quella a basso costo, come il dub partorito in Giamaica (il replicante in musica) e i campionamenti di tutti i suoni possibili, dalle conversazioni telefoniche a tracce prelevate da vinili vintage (il cut-up di Burroughs elevato al cubo), fino a operazioni di raffinato restauro ai confini della “necrofonia”, come quella del 1994 che fece risuonare insieme i Beatles per completare le ultime canzoni incompiute di John Lennon o, precedentemente, il duetto di Natalie Cole con suo padre,
Nat “King”.


Incontri impossibili, altro che fantascienza. In questa area si colloca in posizione alternativa un fronte eterogeneo definibile come hackerismo musicale, ovvero tutte quelle pratiche musicali che assumono il campionamento - di singoli suoni o di porzioni di brani - a fondamento della composizione. Questo modo di produrre musica è possibile solo in presenza di tecnologie capaci di trattare i suoni come una banca dati. Le origini di questa pratica sono extra musicali. I primi cut-up sono opera delle avanguardie storiche, pionieri nel gioco taglia e cuci di testi e oggetti. In letteratura è l'opera di William Burroughs a farne uno strumento compositivo maturo.

In musica tutto questo è possibile solo a partire dalla disponibilità dei primi registratori analogici ed in ambito colto. Esemplare "Hymnen" di Karl Heinz Stockhausen che ricicla inni nazionali
e musiche popolari di diversi paesi.
La musica extra colta, o genericamente il pop, fonda il genere a modo suo nel 1981 con "My Life inthe Bush of Ghosts" di Brian Eno e David Byrne. Cantanti arabi, dibattiti politici, un esorcismo, campionati da chissà quali trasmissioni radiofoniche, vengono frullati su ritmi funky 
e musica tradizionale, quella che oggi si chiama world music.
Questa specie di blob music, può essere riassunta in quattro casi, in un certo senso, cardinali, poiché segnano delle direzioni di massima, con tutte le varianti operabili nei possibili incroci,
facili da intuire.



Il primo documento è opera del canadese John Oswald, teorizzatore di un metodo compositivo denominato plunderphonics, qualcosa come saccheggiofonia, che gli ha procurato anche guai legali. In seguito ha prodotto un lavoro-omaggio allo scomparso Jerry Garcia, leader carismatico dei Grateful Dead: Grayfolded. Un taglio e cucito di Dark Star, l’indiscusso cavallo di battaglia della band, anche adoperato da Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point. Oswald ha recuperato tutte (?) le versioni esistenti del brano. Un frammento dietro l'altro ne è scaturito un brano Frankenstein, un ciclopico solo di chitarra della durata di due ore. Una dialettica tutta interna ad una medesima opera. Per la cronaca, il leader dei Dead è stato immortalato nel cosmo grazie a una stella battezzata Jerry Garcia per la gioia di tutti i tecnognostici.



Diverso il caso dell'inglese John Wall, che ispirandosi ai collages di Magritte ha proprio incollato insieme un cast eccezionale in Construction I-IV: Ry Cooder, John Zorn, Anthony Braxton, John Cage,Thelonious Monk, Miles Davis, John Dowland (XVI secolo), anonimi medioevali, ecc. L'operazione diverge da quella di Oswald, dal momento che le fonti sono tutte diverse oltre che, anche in questo caso, tutte preregistrate.

Terzo caso. New York, un assiduo collaboratore di John Zorn, David Shea ha utilizzato in The Tower of Mirror un centinaio di sampler, ottenuti facendo suonare insieme musicisti e frammenti campionati di brani "recuperati" da originali eterogenei, da Ennio Morricone come da cori di strada, ripartendo da questi per un ulteriore trattamento in studio. Quindi fonti diverse 
ma interazione tra nastri e musicisti.




Infine Bill Laswell, altro compagno di strada di Zorn, ha creato un singolare catalogo dimostrativo della propria etichetta, la Axiom. Ha recuperato un solo di sax da un disco, violini da un altro e via di seguito, cucinando il tutto in versione ambient, ottenendo come dichiara egli stesso, delle sculture sonore. Si tenga presente che Laswell stesso suona in parte di questi dischi,
per cui qui siamo in presenza di un autocampionamento.
 Titolo: Axiom Ambient - Lost in the Translation.


Altro capitolo, quello del citazionismo in forma d’omaggio: u.B.I.Q.U.e degli Art Zoyd. Dietro u.B.I.Q.U.e ci sono quattro anni di lavoro e il fascino emanato da Ubik il romanzo più enigmatico e visionario di Philip K. Dick. Testo oscuro, in armonica corrispondenza con la musica di Art Zoyd, gruppo di musicisti francesi da sempre dark in opposition, con oltre un quarto di secolo dedicato alla difficile sintesi di esperienze quali Magma ed Henry Cow. Diviso in due parti, Glissements progressifs du plaisir (citazione esplicita del film di AlainRobbe-Grillet) e Métempsycose, il lavoro è eseguito da un organico maestoso: 17 chitarre, 6 bassi, 5 sax, 5 trombe, 3 tromboni, 1 tuba, 12 batterie, percussioni e samples. La musica è stata composta da Gérard Hourbette, in servizio da trent’anni nel gruppo, impiegando un metodo di composizione relativamente semplice, che intreccia soluzioni ritmiche ricorrenti con un sistematico processo di sfaldamento e ricomposizione della materia sonora, secondo il farsi e disfarsi del reale, ben noto ai lettori di Dick. Leggiadro incubo.






Autocitazionismo poi in K.A, il ritorno dei Magma. Dopo un quarto di secolo, Christian Vander riporta in scena la band nel 2005 con una serie di concerti e stampa un nuovo disco, recuperando una composizione del 1974, in pratica il capitolo della saga Kobaia
posto tra Mekanik Destruktiw Kommandoh e Kohntarkosz.




A chiudere la storia l’operazione Brain in the Box, cofanetto pubblicato tre anni fa dall’ etichetta californiana Rhino. Splendida confezione: un cervello messo a nudo contenente cinque cd, che ripercorre, a modo suo queste cronache terrestri del XX secolo. Estratti dalle colonne sonore di film come Il pianeta proibito, 2001, Odissea nello spazio, ET, Alien, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Predator,  Robocop, Matrix, Alien, ma anche classici della space age come Russ Garcia, Les Baxter, Attilio Mineo, Ferrante & Teicher in compagnia dei Jefferson Airplane, Sun Ra e sigle di telefilm di culto, da Ai confini della realtà a X-Files. Tutto è consegnato alla memoria, inscatolato, esteticamente impeccabile. Documento emblematico di una condizione mussale e, in fondo, è proprio così che… suona… il presente.






note
1] Douglas Noel Adams, Ristorante al termine dell’universo (The restaurant at the End of the Universe), Classici Urania n. 200, Mondadori, Milano 1993

2] Lyotard Jean-François, La condizione postmoderna (La condition postmodern), Feltrinelli, Milano 2005