uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

martedì 2 febbraio 2016

Luciano Gallino - Rigettare le teorie economiche neoliberali

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Dopo il precedente post del 18 gennaio, proseguo nella presentazione di alcuni capitoli del libro "Il Colpo di Stato di Banche e Governi" (2013) di Luciano Gallino.

Da istituto de Gasperi Bologna




Dal Capitolo decimo 
Rigettare le teorie economiche neoliberali


Il neoliberalismo come stadio supremo dell'egemonia delle classi dominanti.
  
Il largo e perdurante successo della dottrina neoliberale, di cui le teorie economiche e politiche sono la chiave di volta, mostra che siamo dinanzi a un'egemonia politico-culturale, nel senso gramsciano del termine, di un'ampiezza e una presa senza precedenti. E’ una dottrina costruita scientificamente allo scopo di conquistare un’egemonia che non ammette discussione in ogni settore della società, espellendone ogni altra dottrina o visione del mondo. I critici del neoliberalismo, avverte uno studioso austriaco, «dovrebbero imparare dal grande successo che gli intellettuali neoliberali hanno avuto applicando nell'interesse del capitale il concetto di un marxista, ossia quello di “egemonia culturale” di Gramsci” (1).

Nessuna forma di autentico superamento della crisi sarà mai possibile, nessuna inversione del movimento regressivo che attanaglia l'Europa sarà sperabile, fino a quando una simile egemonia non verrà abbattuta. Bisognerebbe quindi svolgere due compiti: anzitutto spiegare come la dottrina neoliberale abbia conquistato un’egemonia culturale di tal genere, quindi provare a individuare dei modi in cui si potrebbe abbatterla. Con le sue tante svolte e incroci, la strada che il neoliberalismo ha percorso nella sua ascesa si è snodata soprattutto a livello sovrastrutturale, ossia ideologico. Dunque non come mero riflesso delle strutture economiche e politiche soggiacenti, bensì denotando un grado rilevante di autonomia. 

Su dette strutture è tuttavia indispensabile soffermarsi. Ciò perché sebbene sia vero che il neoliberalismo ha svolto un ruolo incisivo (o meglio, performativo) nei mutamenti che esse hanno conosciuto negli ultimi decenni, non è meno vero che al loro livello il neoliberalismo è stato lo strumento utilizzato con estrema determinazione dalle classi dominanti al fine di recuperare i poteri sulle classi dominate che queste erano riuscite a intaccare, seppur in limitata misura, negli Usa durante il New Deal e in Europa nel trentennio post-1945.



Quali precisamente fossero i nemici da abbattere, i gruppi appartenenti al vertice della piramide sociale li avevano individuati da tempo: lo Stato e la pubblica amministrazione in genere; le imposte progressive sui redditi e sui patrimoni; lo stato sociale; gli alti salari; i sindacati; i diritti del lavoro; i servizi pubblici di ogni genere; l'istruzione pubblica gratuita; gli ostacoli al libero commercio di beni e servizi. Nondimeno limitarsi ad affermare a gran voce che il privato è in ogni caso più efficiente del pubblico; che gli alti salari sono fonte di disoccupazione; che le imposte elevate sugli alti redditi frenano gli investimenti e simili, non bastava per sedurre durevolmente la maggioranza degli elettori e dei politici. Occorrevano dimostrazioni logicomatematiche folte di fatti e cifre, argomenti e modelli rigorosi, dati all'apparenza inoppugnabili.

La dottrina neoliberale, in questo caso nel ruolo di economia neoclassica, provvide a fornirli. Più precisamente ha offerto i mezzi tecnici e il personale meglio atti a giustificare sul piano economico, e legittimare sul piano morale, la demolizione di tali nemici. I presupposti e assiomi su cui dette dimostrazioni poggiavano, erano inconsistenti, ma l'apparenza di scientificità che l'apparato logico-matematico conferiva loro le poneva al di sopra di ogni critica e assicurava l'assenso tacito di chiunque ne fosse anche solo sfiorato. 





Fu un'ascesa politica alla quale contribuì un'innovazione di fondamentale importanza: un progetto di finanziarizzazione globale del mondo. Gli economisti e gli operatori finanziari avevano scoperto una forma di trasmutazione del piombo in oro che diversamente dalle alchimie del passato funzionava magnificamente: la creazione di denaro dal nulla o per mezzo di altro denaro a opera delle banche. A partire dal 1980, i funzionari del capitale, fossero manager o politici, economisti neoliberali o banchieri, poterono così cominciare a credere di avere trovato il mezzo per creare un nuovo ordine mondiale che non solo li poneva al sicuro dai malumori delle masse, ma riusciva pure a far credere alle masse che qualsiasi altro tipo di ordine sarebbe stato peggiore (2).

Gli eventi dell'ultimo decennio hanno scosso di poco tale credenza. E’ evidente che per scuoterla a fondo bisognerebbe scardinare le basi strutturali del dominio del capitalismo finanziario. In altre parole, ci vorrebbe una rivoluzione. Ancora una volta dobbiamo chiederci da cosa cominciare. Sono le domande che David Harvey ha riproposto con chiarezza a crisi inoltrata: «Dalle concezioni mentali? Dal rapporto con la natura? Dalla vita quotidiana e dai comportamenti riproduttivi? Dai rapporti sociali? Dalle tecnologie e dalle forme organizzative? Dai processi lavorativi? Dalla conquista delle istituzioni e dalla loro trasformazione radicale?“ (3).

La risposta che l'autore avanza è spiccia. «Possiamo cominciare dovunque ci pare, purché non restiamo al punto di partenza». Chi scrive preferirebbe scegliere un elemento circoscritto su cui concentrare l'attacco. Questo elemento non può essere che il neoliberalismo. L'egemonia che questa ideologia ha conquistato sulle coscienze, sulla politica, sulla scuola, sull'università, sull’amministrazione pubblica - dai ministeri alle Regioni ai Comuni di cento abitanti e viceversa – arriva talmente in profondità da sfidare ogni intervento men che radicale. E’ la più grande forma di pandemia del XXI secolo. E’ anche un grande pericolo per la democrazia (4). Per cui sarebbe necessario combatterla ogni giorno mediante rinnovate dosi di pensiero critico in ogni singolo luogo in cui si riproduce: nella scuola, negli atenei, nei manuali, nei quotidiani, in Tv, Allo sguardo del pensiero critico, il neoliberalismo è nudo. L'ermellino che vanta è in realtà un panno di poco prezzo.

Bisogna puntare a moltiplicare il numero di persone che così lo vedono (5). E perché no, dare retta a Keynes, là dove dice (alla fine della Teoria generale) che prima o poi sono le idee, più ancora che gli interessi costituiti, a essere davvero pericolose per il meglio o per il peggio. Che è uno dei principi utilizzati con maggior destrezza dal neoliberalismo, insieme con il concetto di egemonia, al fine di costruire un mondo dove il peggio tocca solo ai deboli e il meglio ai più forti. Bisognerebbe tentare di rovesciare tale principio, allo scopo di costruire qualcosa di meglio a favore dei più deboli.

  


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Dal Capitolo undicesimo
Creare occupazione mentre il lavoro scompare



E’ l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario.

Crescita, croissance, crescimiento, growth, Wachstum. Mediante le politiche di austerità i governi Ue hanno strangolato la domanda, gli investimenti, la produzione, i posti di lavoro, la protezione sociale; dopodiché, davanti al disastro, si sono messi a invocare la crescita come il rimedio universale di simili mali, a cominciare dalla disoccupazione. Commettendo in tal modo due errori. In primo luogo dando a vedere (o fingendo) di ignorare che detti mali li hanno causati loro, innanzitutto per la loro acquiescenza, se non complicità, nei confronti del sistema finanziario, i cui interessi sono stati anteposti a quelli del 90 per cento dei loro cittadini. 

In secondo luogo mostrando di credere che la massima priorità negli interventi vada assegnata alla crescita, perché da questa deriverebbe senza fallo l’occupazione. Il che equivale a credere che un’impresa prima aumenti la produzione, in tal modo contribuendo a innalzare il tasso di crescita del Pil, e dopo apra le assunzioni.

In realtà, quando un'impresa decide di aumentare la produzione lo fa sulla base delle informazioni di cui dispone circa la probabilità di un aumento della domanda. Soltanto in base a tali informazioni sul futuro decide di effettuare al presente nuovi investimenti in mezzi di produzione (o aumentare lo sfruttamento di quelli esistenti) e al caso di aumentare il numero degli occupati (o ridurre il numero di ore di cassa integrazione) qualora quei nuovi mezzi non bastino a soddisfare la domanda. 

Il problema è da dove proviene l’informazione che induce un'impresa ad aumentare gli investimenti ed effettuare nuove assunzioni nette nel caso che la domanda superi l'aumento di produttività.

     Posto tale quadro, le strade per creare occupazione si riducono a quattro:




1. Nuove grandi invenzioni che promettono alle imprese buoni ricavi per lunghi periodi. Lo furono le ferrovie nell'Ottocento, l’automobile e gli elettrodomestici nella parte centrale del Novecento, le Ict verso la fine del secolo e il primo decennio del Duemila. Siamo qui nel campo delle sferzate esogene di cui il capitalismo ha bisogno per uscire dai periodi di stagnazione endogena verso i quali tende per sua natura.

2. Una seconda strada, che storicamente si è sovente combinata con la prima, è un forte aumento della spesa pubblica sotto forma, ad esempio, di un gran numero di opere infrastrutturali commissionate anche a imprese private o spese in armamenti.

3. Una terza strada vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro, tramite una o più agenzie centrali che stabiliscono le regole e un forte decentramento territoriale delle assunzioni e delle attività, con la partecipazione di enti pubblici e privati: Pmi, aziende comunali, servizi per l'impiego, imprenditoria sociale, cooperative.

4. La quarta strada è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le imposte alle imprese per incentivarle ad assumere, e/o alle persone per sollecitarle a consumare di più. La riduzione del cuneo fiscale di cui si parla in Italia, che è dato presumere comporterebbe pure il taglio d'una quota di imposte e contributi sociali che imprese e lavoratori pagano insieme, vorrebbe cogliere ambedue gli obiettivi. Lo scopo ultimo delle politiche fiscali è quello di lasciare una maggior disponibilità denaro a imprese e contribuenti, sperando che essa faccia aumentare la domanda aggregata. I governi Ue, in presenza della crisi e dei bilanci gravati dai salvataggi degli enti finanziari, tendono a seguire – nei casi poco frequenti in cui rivolgono l'attenzione al dramma della disoccupazione piuttosto che ai deficit di bilancio - soprattutto la strada delle politiche fiscali.

Essendo la più seguita, esaminiamo quindi anzitutto quest'ultima. Le misure consistenti in politiche fiscali rivolte alle imprese presentano una serie di inconvenienti che ne limitano di molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare più o meno utile creare occupazione. In astratto, è vero che un nuovo assunto è pur sempre un disoccupato in meno. Però sarebbe meglio per l'economia e la società se quell'assunzione riguardasse, per dire, una scuola o un centro di ricerca invece che un fast food, una scelta che non si può fare con incentivi del genere. 




Inoltre bisogna vedere se le imprese aumentano realmente il personale in misura netta grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, o piuttosto se non ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni, oppure sostituendo quote crescenti di personale con qualche forma di automazione. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto nel tempo.

Un'impresa che sa di fruire entro un dato anno fiscale di uno sgravio d'imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 di gennaio. E’ possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno e quelli della pubblica amministrazione in ritardo di due o tre; con il risultato che, nel caso decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte, in Italia, di nove milioni di disoccupati e male occupati in attesa (nell'autunno 2013).

Quanto alle riduzioni d'imposta sulle persone, occorre innanzitutto stabilire a quali strati sociali si rivolgono. Affermando che intendevano con tali misure stimolare i consumi e gli investimenti, i governi di Usa, Francia, Germania, Regno Unito negli anni Novanta e primi anni Duemila hanno ridotto di preferenza le imposte ai ricchi e super-ricchi, per un totale che, su base decennale, ammonta a trilioni di dollari e di euro. 

Il problema è, come s'è detto nei capitoli precedenti, che i ricchi non possono consumare più di tanto, mentre i loro investimenti sono diretti in prevalenza al sistema finanziario, giacché questo promette di assicurare rendimenti assai superiori a confronto di quelli effettuati in attività produttive. Quanto alla riduzione di imposte per il resto della popolazione - diciamo il 90 per cento o poco meno – presenta due inconvenienti, se lo scopo è quello di creare occupazione in una situazione di crisi. 

In primo luogo, dato che si tratta della larghissima maggioranza dei contribuenti, la riduzione non può essere che di entità minima per ciascun contribuente; per cui minimo sarà lo stimolo a consumare di più. In secondo luogo, non è affatto certo che, nel corso di un lungo periodo di recessione, le riduzioni di imposta si trasformino quasi subito, o per intero o almeno in gran parte, in un aumento della domanda aggregata (6).




E’ possibile, ad esempio, che servano a ricostituire i risparmi intaccati dalla crisi. Infine, posto che le imprese credano che i consumi saliranno stabilmente, e non è scontato, dovranno fare degli investimenti, che si tradurranno semmai in maggiore occupazione soltanto dopo un periodo inevitabilmente lungo. Dagli Usa proviene un caso recente ed esemplare per attestare la scarsa efficacia delle politiche fiscali onde creare occupazione. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere. 

Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni, mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la disoccupazione avrebbe toccato al massimo l'8 per cento a metà 2009, per scendere presto al 7 (7). In realtà i posti di lavoro persi nonostante l'entrata in vigore della legge hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato per molti trimestri il 10 per cento (8).

La strada numero 1 per creare occupazione non si inventa: sono le invenzioni che la creano. Occorre constatare al riguardo che il secolo delle grandi invenzioni che creano immensi nuovi mercati, e con essi posti di lavoro a milioni, è stato l'Ottocento. A parte l'aereo che decolla nei primissimi anni del Novecento, ma sulla base di studi ed esperimenti precedenti, le ferrovie, il telegrafo - efficientissimo precursore dell'e-mail, che già verso il 1870 collegava in tempo reale le maggiori Borse europee e americane - il telefono, l'auto, la radio sono tutte invenzioni originali di quel secolo, a confronto delle quali il contributo del Novecento appare circoscritto all'ambito dei perfezionamenti.

La strada numero 2 consiste in una forma di keynesianesimo emergenziale: l'alto tasso di disoccupazione spinge lo Stato ad accrescere fortemente la domanda di beni e servizi, sia in campo civile sia in campo militare, confidando che tali spese si trasformino rapidamente in posti di lavoro. E’ una ricetta di indubbia efficacia, come attestano due casi storici. Infatti, con una politica economica rivolta alla costruzione di grandi infrastrutture (autostrade, porti, ferrovie), ma soprattutto a realizzare un massiccio riarmo, Hitler ridusse in pochi anni la disoccupazione in Germania, che nel 1932 aveva raggiunto il 30 per cento, a meno del 6 per cento nel 1937.

Negli Usa, dove nel 1940 il tasso di disoccupazione toccava ancora il 15 per cento - dopo che nel 1932 aveva superato il 24 - la spesa bellica lo fece scendere per tutta la durata del conflitto a meno del 2. Pare tuttavia dubbio che ai giorni nostri Usa e Ue possano imboccare tale strada per contrastare le ricadute occupazionali della presente crisi economica, sebbene non si possa ignorare che l'industria bellica occupa in totale nei due agglomerati centinaia di migliaia di persone.



Veniamo quindi alla terza strada, la creazione diretta di occupazione da parte dello Stato.

L'idea ha una lunga storia, ma è soprattutto con gli anni Novanta che ha assunto basi teoriche approfondite. Si collega palesemente alla vecchia (e ambigua) idea di pieno impiego o piena occupazione (9), ma diversamente da quasi tutte le versioni di questa, pone in primo piano l'intervento diretto dello Stato. Viene discussa sotto diversi nomi: «datore di lavoro di ultima istanza» (employer of last resort, Elr), “lavoro (o impiego) garantito” (job guarantee, Ig), «occupazione piena zeppa›› (full stock employment).

Gli autori sono quasi tutti americani, anche se il loro padre intellettuale resta l'inglese Keynes. I tratti più significativi di un programma di piena occupazione basato sul concetto di Elr - ma oggi si preferisce parlare di Jg - sono stati indicati da uno dei suoi maggiori proponenti, Randall Wray, almeno tre lustri fa:

La prima componente della proposta è relativamente semplice: il governo [s'intende qui lo Stato] agisce come il datore di lavoro di ultima istanza, assumendo tutte le forze di lavoro che non riescono a trovare occupazione nel settore privato [. . .] Il programma è elaborato per offrire un posto a chiunque sia disponibile a lavorare, lo desideri e ne sia capace […] I lavoratori Elr possono venire licenziati, con restrizioni poste sulla riassunzione. Quindi il programma fornisce una opportunità garantita di lavorare, però a fronte di standard di prestazione (10).




Il maggior vantaggio dell'approccio Elr o Jg a paragone degli stimoli fiscali va visto nella rapidità con cui si può creare in breve tempo gran numero di posti di lavoro (del come finanziarli tratta una successiva sezione). Ne esistono però altri. Va detto anzitutto che non è una politica concepita esclusivamente per i periodi di recessione. Può contribuire a tenere più alto il tasso di occupazione
quali che siano le condizioni in essere dell'economia. E’ una politica che non dipende dalla domanda aggregata per produrre una piena occupazione. Inoltre può e deve essere disegnata in modo mirato al fine di occupare per primi gli appartenenti a determinati gruppi sociali (tipo, ad esempio, i giovani delle grandi città aventi istruzione scarsa, come avvenne nel New Deal), quali fasce d’età, zone del Paese, lunghezza del periodo di disoccupazione o di precariato. 

Inoltre non fa affidamento a un unico settore, pubblico o privato. Con le parole di un'esperta di questi' studi: «Un programma Elr potrebbe essere attuato tramite enti del settore pubblico come di quello privato […] operanti in partenariato›› (11). Ma di rilevanza ancora maggiore è la possibilità di indirizzare l'occupazione a interventi in specifici settori di pubblica utilità che il settore privato non ha interesse ad affrontare da solo.



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Ostacoli ideologici alla piena occupazione attuata con mezzi diretti.


Al fondo dei progetti di Elr o Jg risiede l'idea che chiunque desideri lavorare e sia in condizione di farlo dovrebbe avere un lavoro. Simili progetti rimandano quindi al concetto di piena occupazione. Avviene però che quest'ultimo sia tutt'altro che univoco: sono le teorie economiche e sociali che di volta in volta lo sottendono a conferirgli significati differenti. Occorre notare anzitutto che in nessun caso «piena occupazione» equivale a «disoccupazione zero», nel senso che a un dato momento tutti coloro che in un dato Paese vogliono e possono lavorare, nessuno escluso, risultano avere un posto di lavoro. Pur nei periodi di massima espansione produttiva, accade sempre che un certo numero di lavoratori abbia lasciato il posto che aveva e non ne abbia ancora trovato un altro.



Le ragioni possono essere le più varie: hanno dato le dimissioni per cercare un posto migliore; sono stati licenziati; l'azienda in cui lavoravano è fallita; il loro lavoro è tipicamente stagionale; hanno dovuto lasciare il lavoro per motivi personali o familiari, e superati questi hanno appena cominciato a cercarne un altro. La disoccupazione temporanea di coloro che stanno transitando da un posto all’altro è detta «frizionale» e le serie storiche attestano che in rarissimi casi essa è scesa - persino in tempi di riarmo o di guerra, quando la produzione è al massimo - sotto l'1-2 per cento.

Dedotta la disoccupazione frizionale, si avrebbe dunque piena occupazione nel caso in cui nemmeno un aumento della domanda aggregata di lavoro, o del salario offerto, produrrebbero un aumento dell'occupazione. Questa, almeno, è la definizione di Keynes nella Teoria generale del 1936 (12). Essa presenta qualche difficoltà, ove si voglia adottarla al presente, insita nella correlata definizione di disoccupazione volontaria. I disoccupati volontari sono coloro, per Keynes, che non accettano il lavoro offerto perché la sua disutilità (ossia la fatica che comporta, l’orario scomodo, la distanza da casa ecc.) non appare compensata dal salario reale; se questo aumentasse, il loro numero potrebbe diminuire (13).

Ora l'elevato tasso di disoccupazione effettiva indotto dalla lunga recessione post-2007 in Paesi diversi come gli Stati Uniti e l'Italia, di molto superiore alle rilevazioni ordinarie fondate sulla ricerca attiva di lavoro, è sicuramente alimentato pure da una quota di “volontari”, che ritengono il salario connesso non compensativo della disutilità del lavoro offerto. Ma esso è spinto all'insù in special modo da un'elevata quota di “scoraggiati”: coloro che dopo infinite visite e comunicazioni scambiate con aziende e centri per l'impiego, seguite da rifiuti o non risposte, smettono di compiere qualsiasi azione per cercare lavoro.



Nemmeno un decennio dopo la Teoria generale, William Beveridge, l'inventore dello stato sociale britannico, proponeva una definizione di piena occupazione meno tecnica di quella di Keynes ma più comprensibile per i laici, e soprattutto, per quanto qui ci concerne, più aderente alla situazione attuale:


Piena occupazione [...] significa che ci sono sempre più posti di lavoro vacanti che individui disoccupati [. . .] Significa che i posti di lavoro offrono salari decenti, sono di un genere tale e situati in luoghi tali per cui ci si può ragionevolmente attendere che gli individui disoccupati li accettino; significa, di conseguenza, che lo scarto di tempo normale tra perdere un posto e trovarne un altro sarà molto breve (14).

Beveridge stabiliva quindi una relazione stretta fra piena occupazione e “lavoro decente”, una relazione che qualsiasi piano di Elr o Jg dovrebbe rispettare.

Per le dottrine dell'economia neoclassica o neoliberale il concetto di piena occupazione ha un significato molto più restrittivo. Per decenni esse hanno sostenuto che esiste un tasso naturale di disoccupazione, tale da non accelerare l'inflazione, da cui l’acronimo Nairu (Non accelerating inflation rate of unemployment). Il Nairu varia di qualche punto da un periodo all'altro, a causa di diversi fattori; nel corso degli anni Novanta è stato stimato in circa il 6 per cento nei Paesi avanzati. Per la Ue esso equivarrebbe oggi a 15 milioni di disoccupati in luogo dei 25 effettivamente registrati. In altre parole, se la Ue puntasse a conseguire il Nairu, seguirebbe paradossalmente una politica progressista. In realtà «l’ipotesi del tasso naturale di disoccupazione è sempre servita a sostenere la causa dei conservatori››: cosí si esprimeva James K. Galbraith, in un saggio del 1997 in cui già proponeva di «buttare il Nairu nel fosso›› (15).


 La stagnazione dei salari negli Usa, palese fin dalla metà degli anni Settanta, è stata politicamente sostenuta da tale ipotesi. L'ironia della storia delle dottrine economiche vuole che essa sembri concepita da un marxista il quale non vuol dare a vedere di esserlo. L'idea che esista un tasso di disoccupazione piuttosto elevato, sotto il quale non si deve scendere perché ciò danneggerebbe gravemente l'economia, pare infatti avere più di un tratto in comune - in una prospettiva rovesciata - con l'idea marxiana secondo cui il modo di produzione capitalistico produce anche, incessantemente, un esercito industriale di riserva, la cui funzione principale consiste nel tenere bassi i salari degli occupati.

Sebbene oggi sia di rado richiamato in modo esplicito, il dominio delle teorie economiche neoliberali, in ambito politico non meno che accademico, fa sì che un progetto di tipo Elr /Jg non possa da esse nemmeno venire accolto come tema da discutere per porre rimedio al dramma della disoccupazione. Peraltro i progetti del genere su indicato hanno ricevuto critiche severe anche dall’estremo opposto dello spettro ideologico, ancora con richiamo implicito all'esistenza di un esercito industriale di riserva, ma con l'accento posto sull'impossibilità di sopprimerlo nel modo di produzione capitalistico, a onta di qualsiasi piano. Eccone una, firmata da noti economisti:

Sebbene il raggiungimento della piena occupazione sia essenzialmente una questione economica, il suo mantenimento diventa una questione politica. La piena occupazione è in conflitto con gli interessi dei capitalisti come classe. Ne risulta che essi eserciteranno una forte pressione sui governi, in modo da rendere il mantenimento della piena occupazione estremamente problematico. La preoccupazione principale dei capitalisti è che la piena occupazione diminuisca il loro potere, nella lotta di classe con i lavoratori, di imporre condizioni e salari a loro favorevoli. Senza mutamenti nelle istituzioni fondamentali del capitalismo, il mantenimento della piena occupazione rimane uno scopo irraggiungibile nelle società capitalistiche (16).


L’opposizione ideologica non è l'ultima ragione per cui i progetti in questione hanno trovato applicazione reale, oltre che parziale, in pochi Paesi (tra i maggiori, Argentina e India), a onta della massa di studi a essi dedicata.


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L’occupazione creata in modo diretto dovrebbe essere finalizzata a cambiare il modello produttivo.


Qualsiasi tentativo di progettare oggi una politica di pieno impiego dovrebbe muovere dal riconoscimento che la grave crisi globale che stiamo attraversando è al tempo stesso una crisi finanziaria, produttiva, politico-sociale ed ecologica.

Queste componenti della quadruplice crisi sono strettamente interconnesse, per cui ogni intervento mirato a una di esse ricade in diversi modi sulle altre (17). La molteplice natura della crisi, e gli interventi regressivi con cui i governi l'hanno finora affrontata, hanno tra le loro peggiori conseguenze una disoccupazione di massa di lunga durata; una stagnazione prolungata dell'economia, accompagnata dal rischio di interventi volti tenacemente a riprodurre il medesimo modello produttivo che l'ha provocata; infine un'ulteriore crescita delle disuguaglianze, sebbene la dismisura di queste sia stata una delle cause della crisi. Un programma da «datore di lavoro di ultima istanza» dovrebbe venire orientato non solo a combattere la disoccupazione, ma anche a trasformare il modello produttivo (18)Un suo effetto positivo risiederebbe nel ridurre le disuguaglianze (19).

In tema di modello produttivo dobbiamo oramai dare per certo il fatto che, salvo straordinarie innovazioni al momento inimmaginabili, i posti di lavoro che si sono persi dal 2007 in poi nei Paesi europei non saranno recuperati prima del 2018-2020, e per assai probabile il fatto che essi non torneranno mai più al livello del 2007, e meno che mai a quello del 2005, l'anno migliore del nuovo secolo per l'occupazione nei Paesi Ue (che non erano ancora 27).

Giustificano questa preoccupante ipotesi due ordini di dati e considerazioni. Come si è ricordato nell'Introduzione, Eurostar stimava che a giugno 2013 nella Ue i disoccupati fossero 26,5 milioni, ossia il 10,9 per cento delle forze di lavoro. Alla stessa data, in Italia e Portogallo la disoccupazione dei giovani (15-24 anni) sfiorava il 40 per cento, e in Spagna e Grecia superava il 55. Nel 2005 i disoccupati erano 16 milioni, pari al 6,8 per cento delle forze di lavoro. L'anno dopo la crisi cominciava a mordere e il tasso di disoccupazione prendeva ad aumentare.



Supponendo di voler riportare l'occupazione a tale anno – premesso che il relativo tasso era da ritenere in ogni caso assai elevato - bisognerebbe dunque creare intorno a 10-11 milioni di posti di lavoro, tenendo conto che la popolazione Ue, seppur di poco (1,3 milioni Fanno su 503 al 2013) continua a crescere.

Un simile aumento dell'occupazione appare irrealizzabile non foss'altro perché quasi tutte le grandi imprese, ma pure buon numero di medie dimensioni, stanno provvedendo a sostituire in misura e con rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione. In una prima fase, iniziata verso il 1980, le corporations europee al pari di quelle americane hanno utilizzato, allo scopo di comprimere il monte salari, soprattutto la delocalizzazione di interi settori produttivi nei Paesi emergenti (ovvero la minaccia di farlo) e lo sviluppo a dismisura del lavoro precario. Allorché il processo si è ritorto contro di loro in forma di stagnazione o riduzione della domanda aggregata, le corporations, piuttosto che insistere nella compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, hanno preferito intensificare l’eliminazione del lavoro umano da ogni sorta di processo produttivo. L'hanno resa possibile gli straordinari progressi della microelettronica avvenuti negli ultimi anni.



Posto che l'affermazione “la tecnologia crea più posti di lavoro di quanti ne distrugge» sia mai stata fondata, occorre ormai far fronte all'ipotesi che le nuove forme di automatizzazione, robotizzazione, intelligenza artificiale l'abbiano definitivamente invalidata (20).

Le sole professioni risparmiate, al momento, da quella che si può chiamare «automatizzazione universale» sono quelle che si collocano al vertice e alla base della piramide professionale. Al vertice resistono le professioni che hanno a che fare di continuo con situazioni che non soltanto sono altamente complesse - per l'odierna microelettronica sostituire in ciò l'essere umano non è più un problema - ma sono altresì notevolmente variabili e imprevedibili, quali, per dire, il neurochirurgo, l'insegnante di scuola materna o l'avvocato dibattimentale. Alla base vi sono i mestieri che sono pagati talmente poco, e sono offerti da una massa tale di individui, da non valere nemmeno la pena di provare ad automatizzarli. Si va qui dai servizi di pulizia a quelli di sorveglianza, dal barista alla badante, dalla ristorazione rapida alla raccolta degli ortaggi.

Ne segue che una politica economica la quale vedesse il rimedio alla disoccupazione in un ritorno, nel nostro Paese come nel resto della Ue, delle produzioni in massa di auto ed elettrodomestici, telefoni cellulari e gadget elettronici vari ai livelli del 2007, magari con l'aggiunta di un tot di impianti eolici e fotovoltaici destinati a generare la maggior energia necessaria per aumentare da capo la produzione di auto ecc., perseguirebbe una strada radicalmente sbagliata.

Da un lato perché gli aumenti di produttività realizzati in questi anni con le cennate forme di automazione, che hanno condotto a una forte riduzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, insieme con l'accresciuto sfruttamento della forza lavoro nelle ore lavorate, richiederebbero un'espansione impossibile dei rispettivi mercati nella Ue per poter nuovamente accrescere l'occupazione. Da un altro lato, una rinnovata espansione delle produzioni tradizionali, oppure innovative come l'eolico ma destinate a produzioni energivore, sarebbero insufficienti per occupare le forze di lavoro trasformate in esuberi.

La creazione di occupazione dovrebbe quindi perseguire primariamente l'obiettivo di contribuire a trasformare il modello produttivo ancor oggi dominante, orientando i flussi di manodopera sia verso settori ad alta intensità di lavoro e di immediata utilità sociale, sia verso professioni che le macchine, per motivi tecnici o per ragioni di costo, difficilmente potranno sostituire.

  


NOTE
1) S. Schulmeister, Das neo-liberale Weltbild. Wissenschaftliche Konstruktion von “Sachswangen” zur Forderung und Legitimation sozialer Ungleichheit, in F. Klug e I. Fellmann (a cura di), Schwarzbuch and Globalisierung, in «Kommunale Forschung in Osterreich», Ikw-Schriftenreihe, n. 1 15, 2006, p. 154, n. 1.
2) L’intimo collegamento che esiste fra neoliberalismo e finanziarizzazione è stato sottolineato da molti autori. Cfr. fra gli altri G. Duménil e D. Lévy, Capitale risorgente. Alle origini della rivoluzione neoliberista [2001], Abiblio, Trieste 2010; S. Halimi, Le grand bond en arriêre, Fayard, Paris 2004; D. Harvey, A Brief History of Neo-liberalism, University Press, Oxford 2005; A. Saad-Filho e D. Johnston (a cura di), Neo-liberalism cit.
3) D. Harvey, L'enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza [2010], Feltrinelli, Milano 2011, p. 145.
4) Sulla miseria politica del neoliberalismo, insita nella sua riduzione della democrazia a funzione del mercato, vedi B. Lösch, Die neoliberale Hegemoníe als Gefahr für Demokratie, in C. Butterwegge, B. Lösch e R. Ptak, Kritik de: Neoliberalísmus cit., pp. 221-84.
5) Per un severo giudizio rivolto sia al neoliberalismo per i guasti che ha provocato nel mondo, sia alle sinistre per la totale incapacità di contrapporvi un pensiero alternatívo, alla quale si deve se, a onta della crisi, il primo appare essere piú che mai il pensiero egemone in economia come in politica, si veda P. Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to Waste. How Neoliberalism Survived
the Financial Meltdown, Verso, London 2013.
6) P. R. Tcherneva, Fiscal Policy: Why Aggregate Demand Management Fails and What to Do about It, Wp n. 650, Levy Economics Institute, Annandale-on-Hudson 2011.
7) C. Romer e J. Bernstein, The ]oh Impact of the American Recovery and Reinvestrnent Plan, Council of Economic Advisers, Executive Office of the President, Washington, 9 gennaio 2009.
8) P. R. Tcherneva, Fiscal Policy Effectiveness. Lessons from the Great Recession, Wp n. 649, Levy Economics Institute, Annandale-on-Hudson 2011.
9) M. Etxezarreta, About the Concept of Full Employment: a limited «Survey››, Department d'Economia Aplicada, Barcelona, Universitat Autònoma, 1999.
10) L. R. Wray, Understanding Modern Money. The Key to Full Employment and Price Stability, Elgas, Northampton (Ma) 1998, pp. 124-25. Per chiarezza ho cambiato l'ordine dei passi citati [N.d.A.].
11) Per un lungo elenco di caratteristiche positive dell'approccio volto a creare direttamente occupazione, da cui ho ripreso solo alcuni spunti, vedi ancora P. R. Tcherneva, Fiscal Policy cit., pp. 18 sgg. Il passo citato è a p. 19.
12) J. M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money [1936], MacMillan, London 1973, pp. 15 e 26.
13) Ibid., p. 7.
14) W. Beveridge, Full Employment in a Free Society, Allen & Unwin, London 1944, p. 18. Enfasi
mia.
15) J. K. Galbraith, Time to Ditch the Nairu, in «Journal of Economic Perspectives», XI (1997), n. 1, p. 102.
16) P. Kriesler e J. Halevi, Political Aspects of Buffer Stock Employment, Wp n. 2, Centre for Applied Economic Research, University of New South Wales, 2001, p. 12.
17) U. Brand, Die multiple Krise. Dynamik und Zusammenhang der Krisendimensionen, Anfarderungen an politische Institutionen and Chancen pragressiver Politik, Heinrich-Böll- Stiftung, Berlin 2009.
18) Cfr. P. R. Tcherneva, Beyond Full Employment. The Employer of Last Resort as an Institution
for Change, Wp n. 7 32, Levy Economics Institute, Annandale-on-Hudson, 2012.
19) D. B. Papadimitriou, Promoting Equality Through an Employment of Last Resort Policy, Wp n.
545, Levy Economics Institute, Annandale-on-Hudson 2008.
20) Tale ipotesi è seriamente considerata da esperti che le tecnologie sostitutive del lavoro umano le stanno costruendo. Cfr. M. Ford, The Lights in the Tunnel. Automation, Accelerating Technology and the Economy of the Future, Acculant (s.l.) 2009; E. Brynjolfsson e A. McAfee, Race Against The Machine, Digital Frontier, Lexington 2011; J. Lanier, Who Owns the Future? Simon & Schuster, New York 2013.


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