uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

mercoledì 6 maggio 2020

Virus vaccini e sistemi operativi - Bill Gates alla conquista del mondo?




 
Ho passato vari anni a cercare di liberarmi di Windows: è stata una vera ossessione. Ci sono riuscito quasi completamente grazie a Gnu/linux.
Tanto che addirittura avevo in pratica dimenticato il suo creatore (e fondatore di Microsoft) Bill Gates!  Ma quest'uomo naturalmente ha molte più risorse di quanto possiamo umanamente immaginare. Ed eccolo (mai uscito dalla porta) tornare alla ribalta, grazie ad un non imprevisto virus, con progetti planetari sui vaccini che temo possano oscurare, per  dimensioni e conseguenze, anche gli effetti del monopolio quasi assoluto che il suo sistema operativo ha esercitato nel campo informatico. Sarà un caso che l' onnipresente sistema sia famoso anche per essere stato così benevolo coi virus e quindi con gli antivirus? In epoca Sars-CoV-2 la domanda si fa sinistra.

Qui di seguito una gustosa ricostruzione dei favolosi inizi.


Foto di Don McCullin

...Un destino decisamente diverso ha trasformato William Henry Gates III, più noto come Bill Gates, nell’uomo più ricco del mondo, grazie ad una serie di mosse astute con cui nel corso degli anni è riuscito a costruire un’immagine vincente di sé, accreditandosi come pioniere dell’informatica e come padre di numerose invenzioni diventate indispensabili per lo sviluppo dei moderni calcolatori.

Quella stessa deformazione della storia che ha trasformato i fratelli Lumière negli “inventori del cinema”, nonostante fossero il punto di arrivo e non di partenza nello sviluppo del cinematografo, ha permesso a Bill Gates di scrivere la “sua” storia dell’informatica. In questo “universo parallelo” creato su misura, Gates diventa un uomo che si è fatto da sé, un genio che ha raggiunto meritatamente il successo in quanto inventore del Personal Computer, del linguaggio di programmazione “Basic”, del sistema operativo DOS e dell’“interfaccia utente” a finestre, basata sull’utilizzo del mouse. 
Nel mondo della realtà storica non c’è niente di più falso.
Nell’immaginario collettivo è Bill Gates ad aver inventato il personal computer assieme all’Ibm, mentre in realtà il primo pc nasce in Francia nel 1973. Il nome dell’antenato dei moderni pc è Micral e il suo progettista è André Thi Truong, un francese con radici vietnamite che lavora per la Realisations Etudes Electroniques
Micral è basato sul processore 8088, costa 1.750 dollari e il software necessario al suo funzionamento è realizzato da Philippe Kahn. Purtroppo Micral cade presto nel dimenticatoio a causa dello scarso successo di mercato. 


 

Per la diffusione di massa dei calcolatori bisogna attendere il 1975, quando negli Stati Uniti una nuova “rivoluzione informatica” si scatena con la nascita del personal computer Altair.
Il personal computer americano nasce nel 1975, quando sul numero di gennaio della rivista “Popular Electronics”, spedito a mezzo milione di hobbisti-abbonati, viene presentato l’Altair 8800, una macchina ormai entrata di diritto a far parte della storia dell’informatica, un computer che raccoglie intorno a sé la seconda generazione degli hacker: gli “hacker dell’hardware”, che penetrano all’interno dei segreti di Altair per carpire il funzionamento di ogni singolo circuito. Gli hobbisti fanno propria l’eredità lasciata dagli studenti del Mit, la prima generazione di “hacker dei mainframes”, che negli anni ’60 avevano domato a colpi di saldatore e tastiera i primi calcolatori universitari, i grandi “bestioni” a valvole monopolizzati da “sacerdoti” in camice bianco, tecnici investiti di un’autorità puntualmente messa in discussione dalla prima generazione di hacker.

A tutt’oggi non è raro incontrare dei prodotti informatici pubblicizzati ancora prima che ne sia ultimata la realizzazione, e il primo di questi prodotti, definiti in gergo “vaporware”, è stato proprio Altair 8800. La fotografia riprodotta su “Popular Electronics”, infatti, è quella di un apparecchio realizzato ad hoc per la presentazione del prodotto e assolutamente non funzionante.
Passa molto tempo prima che le migliaia di pezzi ordinati vengano consegnati, e alcuni hacker tra i più tenaci, per venire in possesso del loro Altair, si accampano davanti alla sede della Model Instrumentation Telemetry Systems (MITS), la società produttrice di Altair guidata da Edward Roberts. Il computer è venduto in kit di montaggio, il cui risultato finale è una scatola metallica con pannello frontale composto da una fila di interruttori che costituiscono l’unico dispositivo di input, e da due file di piccole lucine rosse come dispositivo di output. È basato sul processore Intel 8080, costa 397 dollari e ha 256 bytes di memoria. Le istruzioni non possono essere memorizzate all’interno del computer, ma devono essere inserite a mano attraverso gli interruttori del pannello frontale ogni volta che il calcolatore viene acceso. Da qui le tipiche piaghe e vesciche sulle dita che caratterizzano gli appassionati di informatica del l’epoca. 


 

Il primo personal computer americano è battezzato da Lauren Solomon, la figlia dodicenne di Leslie Solomon, direttore di “Popular Electronics” e amico di Ed Roberts. La bimba indica il nome “Altair” ispirandosi alla stella su cui era diretta l’“Enterprise” (l’astronave della serie televisiva Star Trek) nella puntata trasmessa il giorno del battesimo dell’8800.
Prima ancora dell’apparizione di Micral e Altair, nel 1964 John Kemeny e Thomas Kurtz, presso il Dartmouth College (New Hampshire, Usa), sviluppano il Basic (Beginners’ All-purpose Symbolic Instruction Code), il più famoso linguaggio di programmazione della storia. 
Attraverso questo “Codice Simbolico Multifunzione di Istruzioni per Principianti”, le istruzioni vengono impartite al calcolatore usando delle parole in inglese corrente, come Print (stampa) oppure Input (immetti), al posto della lingua misteriosa composta da sequenze interminabili di “1” e di “0” con cui i primi programmatori sono costretti a “parlare” con i loro computer. Con l’avvento del Basic la programmazione dei calcolatori esce dal mondo degli addetti ai lavori e diventa accessibile a tutti. Kemeny, immigrato nel 1940 a New York assieme alla sua famiglia proveniente da Budapest, prima di dedicarsi all’informatica trascorre parecchi anni accanto ad Albert Einstein, in qualità di matematico. Il primo programma scritto in Basic viene eseguito a Dartmouth da Kemeny e Kurtz alle due del mattino del 4 maggio 1964.




Il 5 marzo 1975 a Menlo Park, nella Silicon Valley californiana, nel garage di Gordon French si svolge il primo incontro dell’Homebrew Computer Club, il club degli hacker dell’hardware, di cui fanno parte, tra gli altri, Bill Gates, Steve Wozniak, Gary Kildall e molti altri pionieri dei personal computer. Quelle riunioni divengono un appuntamento fisso per scambiare pezzi di hardware, idee, programmi, informazioni e progetti. L’Altair 8800 è ovviamente al centro dell’attenzione. Dopo aver letto l’annuncio su “Popular Electronics”, Bill Gates e Paul Allen, che avevano studiato insieme ad Harvard, telefonano immediatamente a Ed Roberts per proporgli di acquistare il loro interprete Basic per l’Altair, scritto assieme a Marty Davidoff. È la prima vendita di software della Micro-Soft. A quei tempi l’azienda aveva ancora il trattino nel nome, che sarebbe caduto nel 1976. L’accordo per la vendita del Basic viene concluso con successo il 2 gennaio 1975. L’affare si rivela davvero fortunato, e apre le porte del successo a quella che sarebbe diventata la maggiore azienda informatica del mondo. Il grande pubblico dimentica ben presto i nomi di Kemeny e Kurtz, e negli anni a venire quello di Bill Gates verrà associato sempre più frequentemente alla creazione del Basic.
In seguito all’accordo con Ed Roberts, Gates e Allen si trasferiscono ad Albuquerque, New Mexico, sede della Mits, per scrivere un programma in grado di connettere l’Altair con una unità a disco. Una sera del giugno 1975 gli hobbisti dell’Homebrew Computer Club riescono a impossessarsi di una cartuccia contenente il codice completo del Basic, lasciata incustodita durante una delle numerose dimostrazioni intineranti organizzate da Ed Roberts per pubblicizzare il suo prodotto. A causa del prezzo ritenuto eccessivo, gli “homebrewers” iniziano a fare delle copie su nastro del Basic per l’Altair da distribuire gratuitamente.
In seguito al dilagare di queste copie “pirata”, il 3 febbraio 1976 Bill Gates scrive una lettera aperta agli hobbisti, pubblicata sulla newsletter Computer Notes, un documento in cui attacca apertamente la copia non autorizzata. La lettera viene riportata anche sul bollettino di febbraio dell’Homebrew Computer Club. L’argomentazione principale di Gates contro la diffusione incontrollata dei programmi è che questa pratica scoraggia i programmatori, rendendo meno remunerativa la realizzazione dei loro prodotti.



Le teorie di Gates verranno smentite nel 1991, quando la distribuzione libera e gratuita del sistema operativo GNU/Linux diventa l’elemento decisivo che incoraggia e stimola il lavoro di migliaia di programmatori sparsi in tutto il mondo.
Il 22 maggio 1977 Ed Roberts decide di abbandonare il mercato dell’informatica, anche in virtù delle crescenti pretese da parte dell’azienda di Gates. A trentacinque anni compiuti, dopo aver venduto la sua azienda alla Pertec, Roberts si trasferisce in Georgia con un assegno di alcuni milioni di dollari in tasca, e inizia una nuova vita come studente di medicina alla Mercer University, per finire la sua carriera a Cochran, una cittadina a sud di Atlanta dove si stabilisce per esercitare la professione di pediatra.
Dopo l’acquisizione della Pertec, si scatena una battaglia giudiziaria sul copyright del Basic per l’Altair: la Pertec ne rivendica i diritti, mentre Gates ed Allen sostengono che il Basic era stato dato all’azienda solamente in concessione. La questione arriva in tribunale, dove i giudici danno ragione a Microsoft.

Nel 1980 l’inglese Sir Clive Sinclair progetta e commercializza lo ZX80, un calcolatore che segna il passaggio dall’era dei “personal” a quella degli “home computer”. Centinaia di copie dello ZX80 iniziano ad invadere l’Europa. L’era degli “home” continua nel 1982 con la Commodore Computers, che produce due esemplari destinati a passare alla storia: VIC 20 e Commodore 64. Nel giro di pochi mesi il VIC 20 raggiunge il milione di copie vendute. Nel frattempo Sinclair si affretta ad affiancare al modello ZX81, nato nel marzo ’81, lo ZX Spectrum.




 
Nello stesso anno il “Time Magazine” assegna al computer il titolo di “uomo” dell’anno, a testimonianza del fatto che l’informatica è ormai diventata parte della vita quotidiana del mondo, rompendo le barriere che la tenevano rinchiusa all’interno degli ambienti accademici e industriali.
Per Microsoft la grande occasione arriva nel luglio del 1980, quando Bill Gates viene contattato da Ibm (International Business Machines), nota anche come “Big Blue”, l’azienda che in quegli anni esercitava un dominio incontrastato nel settore del l’informatica aziendale. In un secondo incontro, un mese più tardi, Gates firma un contratto di consulenza per la realizzazione di un sistema operativo da utilizzare per i futuri pc di Ibm, una “missione” segretissima battezzata con il nome in codice “Project Chess”.
Le motivazioni che spingono “Big Blue” a legare la nascita dei nuovi “personal computer” ad un’azienda relativamente giovane, e guidata da un ragazzino appena venticinquenne, sono tuttora avvolte da un fitto mistero.
L’unico dato di fatto riguarda le attività della madre di Bill Gates, Mary, personaggio di spicco degli ambienti di Seattle. Proprio nei giorni antecedenti all’accordo che avrebbe reso miliardario il suo figliolo, Mary Gates curava gli affari di famiglia in qualità di membro del consiglio di amministrazione di un’impresa della United Way, nota catena di enti di beneficienza sparsa sull’intero territorio statunitense. Un altro dei membri illustri di quel consiglio di amministrazione era il signor John Opel, un uomo d’affari che contemporanrmente rivestiva il ruolo di Ceo (Chief Executive Officer) all’interno di Ibm, praticamente la più alta carica direttiva dell’azienda. 
Secondo alcuni, l’ossessione di Opel per la realizzazione di un nuovo prodotto Ibm con cui raggiungere e sorpassare la Apple potrebbe aver trovato uno sbocco naturale nelle prospettive di successo che Mary Gates era disposta a garantire a nome del suo geniale pargolo.
È possibile che una buona parola da parte di mamma Gates sia stata l’elemento decisivo che ha determinato le decisioni di Ibm, un gigante dell’informatica che all’epoca era troppo impacciato per muoversi nel settore dei personal computer con l’agilità necessaria per sostenere il ritmo frenetico dell’innovazione tecnologica di quegli anni.
 


 
Un’altra azienda candidata alla realizzazione del “Project Chess” è la Digital Research di Gary Kildall, che già da tempo aveva sviluppato CP/M, “Control Pogram for Microcomputers”, un sistema operativo perfettamente in grado di funzionare anche sui nuovi personal computer Ibm. Il mancato accordo tra Ibm e Gary Kildall, spesso definito come la più grande occasione persa nella storia dei pc, è descritto in maniera diversa a seconda di chi lo racconta. In base alla versione dei fatti fornita da Ibm, che è anche la più diffusa e conosciuta, Kildall si stava dilettando con il suo bimotore mentre la moglie riceveva la visita dei dirigenti Ibm incaricati di proporre lo stesso accordo che avrebbe fatto la fortuna di Bill Gates e Microsoft.
Dopo una lunga attesa, costoro si sarebbero seccati di aspettare, tornando a casa e mandando a monte l’affare. Secondo la ricostruzione dell’episodio fatta dallo stesso Kildall, invece, il suo non era un volo di piacere, ma di affari, e nei successivi contatti con Ibm le condizioni proposte sarebbero state talmente restrittive da impedirgli di accettare l’offerta, dal momento che Ibm voleva cavarsela con un semplice pagamento forfettario per l’acquisto del sistema operativo, rifiutandosi di concedere a Kildall una percentuale per ogni copia venduta del suo CP/M.
Questo stallo nella trattativa avrebbe lasciato via libera a Microsoft.
Una volta concluso l’accordo, il grosso problema di Microsoft è la realizzazione del sistema operativo promesso a “Big Blue”, un incarico che Gates e soci non sarebbero mai stati in grado di portare a termine da soli, rispettando le scadenze strettissime e i vincoli sulla qualità del prodotto.
Nel settembre del 1980, di fronte alla prospettiva di un fallimento dell’accordo, Gates decide di giocare d’astuzia, acquistando dalla Seattle Computer Products, per la modica somma di 50.000 dollari, un sistema operativo “veloce e sporco”, Q-Dos, “Quick and Dirt Operating System”. Il quale, opportunamente modificato, si trasforma d’incanto nel più famoso Microsoft Dos (Ms-Dos), destinato a diventare uno standard nell’ambito dei personal computer grazie alla potenza economica di Ibm e al senso degli affari di Bill Gates, che negli anni seguenti avrebbe costruito la sua fama di programmatore geniale e la sua fortuna economica a partire dalla rivendita di un prodotto realizzato da altri.




Gates ottiene da Tim Paterson, il programmatore che aveva realizzato il Q-Dos, un accordo di licenza non esclusivo, che prevedeva la possibilità di rivendere il prodotto, senza lasciarsi sfuggire che tra i clienti intenzionati alla rivendita del Q-Dos c’era nientemeno che Ibm. La segretezza era ulteriormente garantita da una clausola del contratto in base a cui “nulla obbliga Microsoft a identificare il cliente”. In seguito questa chiuderà il cerchio acquisendo la Seattle Computer Products e assumendo lo stesso Paterson.
Ricostruendo con attenzione l’albero genealogico dell’Ms-Dos, inoltre, è possibile che il primo “capostipite” della famiglia non sia il Q-Dos di Tim Paterson, ma addirittura lo stesso CP/M di Gary Kildall, che potrebbe essere il “vero” sistema operativo a partire dal quale, attraverso modifiche successive, è stato realizzato il prodotto definitivo consegnato a Ibm. Una versione molto dettagliata del rapporto tra il CP/M e il Q-Dos è contenuta all’interno del libro Bill Gates, una biografia non autorizzata, scritto da Riccardo Staglianò per le edizioni Feltrinelli. Secondo il suo resoconto:

Quando fu chiaro che Microsoft avrebbe fornito a Ibm il sistema operativo sviluppato da Tim Paterson, Gary Kildall, l’uomo che arrivò in ritardo all’appuntamento con la sua fortuna, telefonò imbestialito al programmatore, anticipando querele: “Hai copiato il mio CP/M: ti denuncerò! ”. “Non ho mai guardato il codice di Kildall”, si è sempre difeso Paterson, “solo il suo manuale”.

Gli indizi a favore di Kildall sono davvero numerosi, e in più di un’occasione alcuni esperti di informatica si sono divertiti a “smontare” il Dos di Microsoft, riscontrando molte somiglianze con il codice scritto da Kildall. La stessa Ibm, secondo la ricostruzione di Staglianò, avrebbe cercato di mettere a tacere la vicenda offrendo a Kildall ottocentomila dollari per rinunciare ad ogni rivendicazione sulla paternità di Ms-Dos.
Gary Kildall muore il 6 luglio del 1994, all’età di cinquantadue anni, dopo aver lottato fino alla fine contro lo strapotere commerciale di Microsoft e Ibm, usando come armi la qualità e la robustezza del suo Dr-Dos, il sistema operativo nato dall’evoluzione dello sfortunato CP/M.

La vita di Kildall si spegne a causa di una banale rissa scoppiata in un bar di Monterey, la città californiana dove viveva, perché alcuni avventori del locale, più rispettosi delle loro motociclette che della vita altrui, non gradiscono le toppe del giubbotto di pelle di Kildall, che rappresentavano delle moto Harley Davidson. Una tragica fine per un uomo geniale, che con un pizzico di fortuna in più avrebbe potuto sedersi al posto di Bill Gates sulla poltrona di uomo più ricco del mondo, un pioniere dell’informatica che con tutta probabilità è l’unico vero autore di un sistema operativo che ci ha permesso per anni di lavorare, scrivere e comunicare attraverso il computer.




Il 12 agosto 1981 il primo personal computer di Ibm, basato sul microprocessore 8086, fa il suo ingresso trionfale sul mercato, con una presentazione in grande stile al salone delle feste del Waldorf Astoria di New York. Il modello base ha una Ram di 16Kbyte (l’equivalente informativo di una decina di cartelle di testo) e un lettore per dischetti da 5” e 1/4, il tutto per la modica cifra di 1.565 dollari. Il sistema operativo utilizzato è, ovviamente, il Microsoft Dos.

Il 20 novembre 1985 Microsoft mette in commercio Windows 1.0, esattamente due anni e dieci giorni dopo la presentazione del prodotto, avvenuta in grande stile e con tutta l’enfasi che contraddistingue le campagne pubblicitarie dell’azienda di Redmond. È l’inizio della “scalata al potere” del sistema operativo più famoso del mondo.
Nel 1989, in occasione del Comdex di Las Vegas, il salone annuale dell’informatica statunitense, gli operatori del settore attendono un annuncio strategico di Bill Gates e James Cannavino, responsabile del settore personal computer di Ibm. Tutto risale al 2 aprile 1987, quando “Big Blue” lancia la nuova linea di personal, i PS/2, dotati di un nuovo sistema operativo, OS/2, frutto del lavoro congiunto dei tecnici Ibm e Microsoft. Da questa alleanza avrebbe dovuto nascere il nuovo standard dei sistemi operativi, e per lo sviluppo di OS/2 gli accordi prevedevano che Microsoft avrebbe messo da parte Windows. Tuttavia Gates mantiene aperte entrambe le strade, riservandosi di decidere all’ultimo momento se appoggiare OS/2 o Windows. Lo sgambetto a Ibm arriva proprio in occasione del Comdex, con un discorso di Gates che smentisce tra le righe Jim Cannavino dopo che aveva ingenuamente confermato l’appoggio di Microsoft nell’alleanza per OS/2. Il 22 maggio del 1990 viene presentatala versione 3 di Windows, con una teleconferenza mondiale da tre milioni di dollari, che mobilita seimila giornalisti con grandi schermi installati a Città del Messico, Londra, Madrid, Milano, Parigi, Singapore e Stoccolma. 





Il “matrimonio d’interesse” tra il colosso dei mainframe e il nuovo gigante del software giunge al capolinea nel marzo 1992, quando il mondo dell’informatica è scosso dall’annuncio della rottura dei rapporti commerciali tra Ibm e Microsoft. È la fine di un lungo decennio durante il quale Microsoft riesce a imporre i propri pacchetti software come standard “de facto” e “Big Blue” afferma la propria potenza economica nel mondo dei personal computer, schiacciando Apple e tutte le piccole impresecome Atari, Commodore, Sinclair e Texas Instruments. Aziende fiorite grazie al lavoro appassionato dei primi “hacker dell’hardware” ed entrate molti anni prima di Ibm nel settore dei personal e home computer, ma senza i mezzi finanziari e la spregiudicatezza che hanno caratterizzato la lotta spietata dei due colossi informatici contro ogni forma di concorrenza. Le strade delle due aziende si separano, e il 24 agosto 1995, con due anni di ritardo sulle scadenze di consegna, il nuovo sistema operativo Windows 95 viene lanciato sul mercato con un investimento pubblicitario di 250 milioni di dollari, più di 400 miliardi di lire. Due anni più tardi, l’11 aprile 1997, 14 milioni di computer sparsi in tutto il mondo vengono lasciati “orfani” da Ibm, che in un comunicato annuncia la fine dei progetti di sviluppo del sistema operativo OS/2, che oggi sopravvive solamente nelle biglietterie automatiche di Trenitalia e in altre applicazioni aziendali. 











venerdì 1 maggio 2020

COMPLOTTISMI, SPILLOVER E “NUOVO PENSIERO COMUNISTA” (SIC!)


Sebastiano Isaia


foto di Francesca Woodman


Chi c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo (non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce controllo sociale a mezzo di panico e paura. 

Anche chi scrive, nel suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli stupidi».

Scrivevo su un post del 10 marzo: 
 «No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro». 

Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche che essa sta producendo nella società. 

Certo non è imputabile al virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei costi di produzione comparati. 




In base a questa teoria, confermata sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita? Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell. E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato sotto forma di libera e democratica scelta.

In un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero” della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo “globalizzato” del XXI secolo. 

«L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso». 

Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.

La relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più umanamente sensibili, furono i primi a morire»

«Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia). 




Perché ciò che minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e “animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita e incapaci di provare dolore. 

Ma qui per fortuna – faccio dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare con una temibilissima concorrenza.

Scrive Paolo Mieli
 «David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi». 

E Agamben (ma anche Diego Fusaro, che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati Uniti») è sistemato!

«Dimentica le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano
«Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»: 
è il contributo che, sempre nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada: l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo, bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di azzeccare quello giusto.

«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ). 



 Non c’è dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di «uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi distrugge «gli ecosistemi»?

Ancora l’autore di Spillover, la Bibbia del momento: 
 «Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti»

Si può essere degli eccellenti scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura classista di questa società, con tutto quello che questa disumana realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è il pensiero della classe dominante.




Al contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!): 
 «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni» (La Repubblica). 

Per capire il tipo di «nuovo pensiero comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è sufficiente leggere quanto segue: 

«La realtà è già cambiata. Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per ricostruire la fiducia». 

Appena lo statalista (altro che “nuovo pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia? Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]: 

«Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva». 

Invece definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un «nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che inarrivabili capacità dialettiche!

È davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia; sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere, di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di miglior causa.