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foto di Francesca Woodman |
Chi
c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa
pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo
(non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste
in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili
contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce
controllo sociale a mezzo di panico e paura.
Anche chi scrive, nel
suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria
ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non
è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con
la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli
stupidi».
Scrivevo
su un post del 10 marzo:
«No, nessun complotto, nessun progetto
malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto,
nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo
così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola
coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il
complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per
capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in
questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui
evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui
conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi
protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai
loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e
quant’altro».
Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per
pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non
sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui
parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché
anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori
dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura
capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma
sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione
della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche
che essa sta producendo nella società.
Certo non è imputabile al
virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario
italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi
che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo
attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più
elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori
totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith
parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei
costi di produzione comparati.
In base a questa teoria, confermata
sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono
riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a
trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma
cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita?
Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un
relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell.
E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente
proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e
tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato
sotto forma di libera e democratica scelta.
In
un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha
alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero”
della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto
velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero
pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo
“globalizzato” del XXI secolo.
«L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso».
Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso
parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica
sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla
scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi
sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di
chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa
condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa
nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e
respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di
scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a
vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi
lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non
spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un
modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.
La
relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha
sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status
quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo
racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei
campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più
umanamente sensibili, furono i primi a morire».
«Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia).
Perché ciò che
minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile
serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente
vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto
negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e
“animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti
culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci
tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci
sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita
e incapaci di provare dolore.
Ma qui per fortuna – faccio
dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi
meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime
offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare
con una temibilissima concorrenza.
Scrive
Paolo Mieli:
«David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi».
E Agamben (ma anche Diego Fusaro,
che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati
Uniti») è sistemato!
«Dimentica
le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in
un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano:
«Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»:
è il contributo che, sempre
nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di
dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di
essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il
complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita
Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada:
l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né
i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali
ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo,
bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di
dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il
complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di
azzeccare quello giusto.
«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ).
Non c’è
dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di
«uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta
dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi
distrugge «gli ecosistemi»?
Ancora
l’autore di Spillover, la Bibbia del momento:
«Non abbiamo
investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più
terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale.
Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco
informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono
cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è
il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne
siamo responsabili tutti».
Si può essere degli eccellenti
scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a
spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la
reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la
dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura
classista di questa società, con tutto quello che questa disumana
realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in
ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero
intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e
dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose
naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero
dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è
il pensiero della classe dominante.
Al
contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!):
«Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa
crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal
comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono
coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno
gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e
nazioni» (La Repubblica).
Per capire il tipo di «nuovo pensiero
comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è
sufficiente leggere quanto segue:
«La realtà è già cambiata.
Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri
tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie
private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le
ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato
impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus
per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho
paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino
in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per
ricostruire la fiducia».
Appena lo statalista (altro che “nuovo
pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita
come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino
in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi
cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia?
Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]:
«Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva».
Invece
definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un
«nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In
ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del
Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e
rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e
compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il
sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che
inarrivabili capacità dialettiche!
È
davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti
di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia;
sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo
gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere,
di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di
miglior causa.
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