uno dei due è l'altro

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venerdì 1 maggio 2020

COMPLOTTISMI, SPILLOVER E “NUOVO PENSIERO COMUNISTA” (SIC!)


Sebastiano Isaia


foto di Francesca Woodman


Chi c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo (non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce controllo sociale a mezzo di panico e paura. 

Anche chi scrive, nel suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli stupidi».

Scrivevo su un post del 10 marzo: 
 «No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro». 

Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche che essa sta producendo nella società. 

Certo non è imputabile al virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei costi di produzione comparati. 




In base a questa teoria, confermata sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita? Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell. E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato sotto forma di libera e democratica scelta.

In un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero” della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo “globalizzato” del XXI secolo. 

«L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso». 

Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.

La relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più umanamente sensibili, furono i primi a morire»

«Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia). 




Perché ciò che minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e “animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita e incapaci di provare dolore. 

Ma qui per fortuna – faccio dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare con una temibilissima concorrenza.

Scrive Paolo Mieli
 «David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi». 

E Agamben (ma anche Diego Fusaro, che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati Uniti») è sistemato!

«Dimentica le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano
«Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»: 
è il contributo che, sempre nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada: l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo, bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di azzeccare quello giusto.

«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ). 



 Non c’è dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di «uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi distrugge «gli ecosistemi»?

Ancora l’autore di Spillover, la Bibbia del momento: 
 «Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti»

Si può essere degli eccellenti scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura classista di questa società, con tutto quello che questa disumana realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è il pensiero della classe dominante.




Al contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!): 
 «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni» (La Repubblica). 

Per capire il tipo di «nuovo pensiero comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è sufficiente leggere quanto segue: 

«La realtà è già cambiata. Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per ricostruire la fiducia». 

Appena lo statalista (altro che “nuovo pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia? Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]: 

«Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva». 

Invece definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un «nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che inarrivabili capacità dialettiche!

È davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia; sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere, di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di miglior causa.











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