uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

giovedì 10 gennaio 2019

Il Mephisto di Klaus Mann*





Il contraente umano di accordi diabolici ha un’identità in genere fissa (quella di Faust) e un ruolo chiaro nei confronti della divinità (disubbidire, ribellarsi all’ordine dato e non accettare il limite impostogli dall’essere un uomo), il diavolo può invece avere nomi e fisionomie diverse, così come una pluralità di funzioni rispetto al Signore che lo rendono una figura più articolata: egli è l’antagonista, l’accusatore, il mentitore, il seduttore, il tentatore, la rappresentazione sensibile del lato oscuro degli esseri umani e del mondo. E’ allora, quella del diavolo, la «maschera» che il Male indossa per essere meglio compreso e raffigurato dall’uomo, diventando col tempo tanto concreto e tangibile da potere assumere anche il ruolo di contraente di un vero e proprio patto.**




 
La scena più terribile - descritta con una acribia letteraria capace di fissarla per sempre nella mente del lettore - di Mephisto , il mirabile romanzo che Klaus Mann ha dedicato ai passaggi segreti che sovente collegano l’arte alle cloache , è quella in cui l’attore Hendrik Höfgen, il protagonista, stringe la mano a Goering durante l’intervallo del Faust in cui recita nella parte di Mefistofele

Con un occhio rivolto alla tecnica cinematografica, Mann dapprima descrive la scena collocandosi tra gli spettatori che affollano la platea. Da questo punto di osservazione, il colloquio sul palco presidenziale tra Höfgen e l’onnipotente gerarca nazista assume contorni affatto inquietanti. Nessuno, data la distanza, coglie quello che i due personaggi si stanno dicendo: si vedono solo le labbra color rosso sangue dell’attore contratte dall’emozione e la sugnosa mano di Goering stringere quella del commediante. 

Per un istante, che solo la chiaroveggenza del grande artista riesce a catturare, più che congratularsi con Höfgen per la sua riuscita interpretazione, sembra quasi che il semidio del Reich millenario stia stringendo un patto con Mefistofele in persona. A questo punto, con uno spiazzante cambio di inquadratura ripresa in soggettiva, Mann entra nella mente di Mephisto e ne svela gli inconfessabili pensieri: 
«Ora sono infangato, questo sentiva Hendrik, sconcertato. Ora ho una macchia sulla mia mano, non riuscirò mai più a farla scomparire… ora sono venduto… adesso sono segnato!»



Il tremendum e il fascinosum di questa scena deriva proprio dalla duplice “ripresa” fatta da Mann: non è solo Höfgen - paradigma dell’intellettuale che in ogni tempo e in ogni luogo si fa cane da guardia del Potere - a stringere un patto con il Leviatano; è la Germania stessa che, dopo aver rinnegato ciò che di grande ha regalato al mondo, sta dissigillando le porte degli inferi.

A differenza di Marlowe, di Goethe e di Mann padre, Klaus scrosta il patto col diavolo dei suoi aspetti grandiosi, lo digrossa della sua parte monumentale, lo raffina della sua componente tragica e ne mostra, invece, il lato comune. Non occorre essere uomini dottissimi e dominati da una incoercibile tensione alla conoscenza per ricevere la visita di Mefistofele: è sufficiente essere un discreto attore in un teatro di provincia, proprio come Hendrik Höfgen, di origini modeste ma consumato dall’ambizione.

E’ l’ambizione, infatti, il vero tema di Mephisto. In questo senso, poche opere come il romanzo di Mann sono riuscite a cogliere l’aspetto demoniaco che si nasconde dietro a ogni brama di carriera, per la quale si accetta di venire a compromessi con il male nella convinzione che il singolo cedimento possa restare isolato, salvo poi rendersi conto, quando è ormai troppo tardi, che i secondi fini con cui accogliamo in noi il male non sono mai i nostri, ma quelli del male, come scrive Kafka in un fulminante aforisma di Zürau

La storia narrata da Mann è quanto di più banale (e prevedibile) vi sia e proprio per questo è massimamente angosciante, perché parla dell’uomo comune, che non è certo crudele, ma suscettibile di cadere da un momento all’altro in mali senza fine. 
 



Ciò che stupisce nelle pagine del romanzo è la mediocrità del mondo che circonda Höfgen, che Mann fissa in eterno già nel folgorante Prologo. La storia, infatti, si apre quando la stella di Hendrik è al suo massimo splendore. È il compleanno di Goering e per l’occasione l’intero Stato Maggiore del Reich si è raccolto al Teatro dell’Opera, sontuosamente addobbato. Il luogo è magnifico: l’aria è satura di profumi, lo scintillio dei lampadari è di una intensità che abbaglia, gli arredi sono fastosi e le toilettes delle dame di un lusso sfrenato. 

Eppure su tanta opulenza incombe qualcosa di orribile. A un esame più attento, si può avvertire, nascosto sotto gli effluvi artificiali, il lezzo del sangue che ormai impregna l’intera Germania. I convitati, poi, si muovono in modo strano, legnoso, sembrano marionette e celano nello sguardo qualcosa di inconfessabile, una miscitanza di paura e di crudeltà: le loro risate «risuonano beffarde e disperate, sfacciate, provocatorie e, al tempo stesso, prive di speranza, orribilmente tristi.»

Invano, dunque, si cercherebbero scene da Gotterdämmerung: nel Mephisto non vi sono eroi circonfusi di densa tenebra né spiriti prometeici che con coscienza e volontà scelgono il male, ma, appunto, uomini normali, quali si possono incontrare ogni giorno in banca, in riunioni di lavoro, a teatro o al cinematografo, dove per “normali” si intende esseri non malvagi che tuttavia possono essere spinti ad azioni malvagie unicamente da ciò che per loro si configura come una necessità ineluttabile, simile a quella che letteralmente consuma Hendrik Höefgen.

Sarebbe riduttivo, però, non riconoscere a Mephisto anche lo statuto di una assorta riflessione sulle cause più riposte che hanno spinto intere generazioni di tedeschi tra le fauci del Minotauro e che l’autore rintraccia nella propensione, tutta germanica, «all’oscurità e all’abisso.» 




Riprendendo le intuizioni di Mann padre - che nella Montagna incantata sostiene come, sottesa ai Lieder di Schubert, e quindi a uno dei lasciti artistici più alti della Germania, vi sia una pericolosa tensione alla morte - Klaus mostra come la grande arte si mescoli a volte con le latrine del cuore, non per conoscerle meglio e quindi per meglio combatterle, ma per pura voluttà di situazioni estreme. E lo mostra servendosi di Peltz, uno dei tanti personaggi secondari – verrebbe da dire “caratteristi” - che Mann tratteggia con mano felicissima.

Peltz è un poeta senza poesia, un artista che ha fatto della propria arte non il motore per una più chiara comprensione di sé e del mondo, bensì uno strumento fine a se stesso per flirtare con il male. Per lui l’orgia di sangue e i bagliori d’incendio sono la sola fonte di ispirazione che un artista degno di questo nome possa ammettere:  
«Far poesia e uccidere, sangue e canto, inno e assassinio: queste cose si accordano fra loro. […] Sono avido di avventure mortali […] capaci di svincolare gli uomini dalle regole civili […] Godremo avvenimenti da far venire i brividi: per me non saranno mai abbastanza.»
Certo, a Peltz si contrappone il novero dei tedeschi che hanno scelto l’esilio o la fronda irriducibile, pagandola ovviamente con la vita, piuttosto che andare a braccetto con i demoni - e anche qui Mann regala una galleria di figure straordinarie, come Barbara, la moglie di Höfgen, e suo padre, l’anziano consigliere di Stato Brukner, un personaggio che sembra uscito dalla penna di Theodor Fontane (memorabili sono le pagine che descrivono la missione punitiva degli «allegri fanciulli» delle SA nella sua villa), e ancora Sebastian, Hans Miklas e Otto Ulrichs) - eppure questi esempi luminosi non servono a diradare l’«aere grasso» che gravava, in quegli anni, sulla Germania.



Mann nutre una profonda disillusione circa la capacità di resistenza della cultura contro la marea montante del nazionalsocialismo. Se in Educazione europea Romain Gary appena nove anni più tardi, e per di più dopo aver toccato con mano le nefaste conseguenze del nazifascismo che nel 1936, anno di pubblicazione di Mephisto , si potevano solo intuire, scorge proprio nella grande tradizione culturale dell’occidente l’unico appiglio capace di risollevare le sorti dell’Europa, non così Klaus Mann: dopo la visita delle SA a villa Bukner i libri di Goethe e di Kant, di Voltaire e di Schopenhauer ardono nel caminetto e non si scorge alcuna mano capace di metterne in salvo le poche pagine superstiti.

Nel romanzo di Mann vibra ancora il dibattito che contrappose la Kultur (che è vocazione estetica, sentimento, vita) alla Zivilisation (che è lo sforzo di dare un ordine alla forza anarcoide della prima) e che ebbe quali principali protagonisti (e antagonisti) Thomas Mann e il fratello Heinrich (cui si deve un altro straordinario Mephisto, Diederich Essling, protagonista del romanzo Il suddito , che sembra l’anima gemella di Hendrik Höfgen). Anche Klaus sembra con dividere l’approdo finale del padre (che pure nelle Confessioni di un impolitico era stato un sanguigno difensore della libertà e della irresponsabilità dell’arte): senza Zivilisation non vi può essere vera Kultur giacché quest’ultima è tensione all’abisso.

L’unico accenno alla possibilità da parte della cultura, se non proprio di vincere, almeno di arginare la barbarie si ha nelle pagine conclusive del romanzo, quelle del colloquio tra Höfgen e Amleto. Anche Klaus Mann ricorre allo sdoppiamento della personalità, solo che in Mephisto a dialogare con Hendrik è il suo doppio luminoso e non quello demoniaco, come avviene invece nel Doktor Faustus o nei romanzidi Dostoevskij.



Persuaso che potrà proclamarsi autentico artista solo dopo aver interpretato Amleto, Höfgen fa di tutto per entrare nel personaggio del principe danese, per dominarlo e per coglierne l’essenza: 

«tutta la mia arte e tutti i miei peccati, tutto il mio grande tradimento e tutta la mia vergogna sono giustificabili solo con la mia arte. Ma sono vero artista solo se sono Amleto.» 

Le parole di Höfgen definiscono magistralmente a quali precipizi senza ritorno può portare la Kultur : il vero artista ha il compito di abbandonarsi al caos e di avventurarsi sui sentieri che guidano alla grande, demonica bellezza, e per questo a lui tutto è consentito, sia di infrangere i ceppi sia di abbattere gli argini. Amleto, però, non si lascia catturare e la risposta che dà all’attore è chiaramente ispirata ai principi della Zivilisation : 

«tu non sei Amleto. Non possiedi la nobiltà che si conquista solo con il dolore e la conoscenza. Non hai mai sofferto abbastanza, e quello che hai conosciuto non aveva per te più valore di un bel titolo o di una paga consistente. Non sei nobile perché sei una scimmia del potere, un giullare per lo svago degli assassini.»

Anche la Zivilisation , tuttavia, al pari della Kultur , può corrompersi e diventare posa, parola che pretende di cauterizzare le lacerazioni dell’esistenza , forbito esercizio letterario e soprattutto predica edificante, la stessa in cui cade Thomas Mann nella prefazione di un libro dedicato alla memoria di Klaus, morto suicida, dove dietro alla politezza della prosa c’è solo il vuoto.

La grandezza di un romanzo come Mephisto , invece, sta nella capacità di non spiegare né di teorizzare alcunché e di essere semplicemente una chiara e limpida narrazione. Ma limitandosi a narrare, Klaus Mann consegue anche il fine ultimo dello scrittore, che è quello non tanto di parlare, ma di far parlare gli altri.




* Andrea Panzavolta
**Da Il Patto col diavolo nella letteratura tedesca dell'esilio di Elena Giovannini









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