uno dei due è l'altro

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lunedì 17 dicembre 2018

1977. Il conflitto, la musica


  


Quando lo straordinario è vissuto come ordinario  allora vuol dire che la rivoluzione è in atto.
Massima del "Che" che bene si addice allo "stato d'animo" dei protagonisti del movimento del ‘77, l'anno della grande rivolta. Ma il '77 è anche l'anno più occultato, più rimosso. Sul versante del potere istituzionale la rimozione ormai decennale esprime il timore di riaffrontare i contenuti di un movimento con caratteristiche irriducibilmente rivoluzionarie. 

Il ‘77 non fu come il '68. Il '68 fu contestativo, il '77 fu radicalmente alternativo. Per questo motivo la versione ufficiale definisce il ‘68 come buono e il ‘77 come cattivo, infatti il '68 è stato recuperato, mentre il ‘77 è stato annientato. Per questo motivo il '77, a differenza del '68 non potrà mai essere un anno di facile celebrazione.
  

Eppure la rimozione del movimento del '77 è stata operata anche dai suoi stessi protagonisti. Migliaia di persone hanno interiorizzato gli effetti catastrofici del terrorismo repressivo dello stato, annullando insieme alla memoria di quel vissuto anche la loro identità antagonista.
 

Al di sopra di queste due rimozioni "volontarie", l’effetto azzeratore della memoria sociale prodotto dal gigantesco mutamento delle tecnologie comunicative. Ma nonostante tutto questo, le domande poste dall'ultimo movimento di massa antistituzionale in Italia restano attuali perchè irrisolte. “Quale sviluppo per quale futuro?” fu la domanda principale, semplice e terribile nel sintetizzare “l’intuizione” del vivere quel momento come il crinale di un passaggio di trasformazione epocale, reso esplicito dalla crisi e dall'esaurirsi delle regole di relazione e organizzazione e sociale basate sul sistema industriale.
 



La sensibilità di quel movimento fu di avvertire la drammaticità del passaggio obbligato alla società oscura e indecifrabile del postindustriale. Da qui la consapevolezza che il movimento del '77 ebbe di cogliere, sul piano dei contenuti, il centro dei problemi che quel passaggio comportava: il problema del lavoro e delle sue trasformazioni. La rumorosa irruzione sulla scena sociale del movimento del 77, la cui composizione era di studenti giovani proletari e donne con una collocazione precaria “non garantita" nel mercato del lavoro, obbligò gli esperti della sociopolitologia nazionale all'analisi dei suoi  caratteri così inediti e indecifrabili. 

Ma questi soggetti, da  subito, non si dimostrarono ben disposti riguardo all'armamentario classico dell'indagine sociologica e psicoanalitica, che avrebbe dovuto fare almeno un po' di luce sulle ragioni della loro devianza dalle regole della “civile convivenza". Così, senza dati, cifre ed encefalogrammi a disposizione, ai nostri "esperti" risultò impossibile andare oltre il compito di riempire il loro vuoto di sapere con uno sciorinare ininterrotto di sciocchezze pubblicate per   mesi su giornali e riviste, sia indipendenti che di partito.
 


Questo fino alla discesa, nell'arena del "dibattito” della seriosa lucidità degli intellettuali del Pci. Toccò ad Asor Rosa  ex “operaista” dei "Quaderni Rossi" e di “Classe Operaia” all'indomani della cacciata di Lama dall’Università di Roma, formulare un'analisi compiuta sui nuovi soggetti sociali della rivolta in atto. Questo sforzo riflessivo che prese il nome di "Teoria delle due società” riscosse tanto successo da divenire immediatamente l’analisi ufficiale. 

 



Grosso modo il ragionamento correva su questo filo logico: la crisi determina la disoccupazione da cui i più colpiti sono i giovani, la disoccupazione è emarginazione dal sistema del lavoro produttivo (che è quello della classe operaia di fabbrica) l'emarginazione a sua volta si traduce in disgregazione e disperazione le quali finiscono nel tradursi in violenza irrazionale e inconsulta. Questi soggetti marginali (marginali sociali in quanto non inseriti nel sistema produttivo centrale di fabbrica) sono appunto “la seconda società", "cresciuta accanto alla prima e magari a carico di questa, ma senza trarne vantaggi rilevanti, senza avere uno sbocco e senza un radicamento nella rima società” (quella operaia). 

Per la cultura industrialista del movimento operaio storico la “centralità operaia" è il posto di lavoro fisso nelle fabbriche dei beni di consumo durevoli, per cui i soggetti che non hanno questa collocazione sono necessariamente marginali. A partire da questa lettura, un movimento costituito da questi soggetti, che per di più reclamava la piena autonomia dagli istituti storici del movimento operaio (partiti e sindacato) non poteva essere considerato che un pericoloso fenomeno di emarginazione e di parassitismo corporativo, facilmente strumentalizzabile dalle forze reazionarie e conservatrici. Non a caso altre definizioni del movimento coniate da Giorgio Amendola, prestigioso intellettuale del Pci, furono quelle di "neosquadrismo" e "diciannovismo".
 


Il giudizio che la sinistra storica diede del "movimento del ‘77" aveva quindi i suoi presupposti in un'analisi della composizione di classe che non teneva conto della grande trasformazione dei processi produttivi e della giornata lavorativa sociale messa in moto dalla ristrutturazione operata dalle forze capitalistiche. 




Questa ristrutturazione che prese il nome di "riconversione industriale” ebbe inizio nel '74 (data della Crisi del petrolio) e si delineò immediatamente come attacco alla composizione tecnica e politica della classe operaia delle grandi fabbriche. La cassa integrazione fu il primo potente strumento utilizzato dai padroni per liquidare il ciclo di lotte dell'operaio massa sconvolgendone la "rigidità”, cioè l’omogeneità materiale e politica da cui traeva le condizioni del suo potere innanzitutto in fabbrica e poi nella società.

I primi effetti di questa ristrutturazione si delinearono come costituzione di una rete di decentramento, dispersione, fluidificazione nel sociale di parti rilevanti del processo produttivo e riproduttivo. Nuove figure sociali, tradizionalmente escluse dal mercato del lavoro, vennero assorbite dentro questa rete, in cui le condizioni di lavoro assunsero la caratteristica non normata della semidisoccupazione e del precariato.

Ciò che Partito comunista e sindacato non seppero o vollero capire fu che queste nuove figure precarie e non garantite avevano comunque direttamente o indirettamente una funzione produttiva: che la loro natura era operaia in quanto da essi si estraeva plusvalore; che queste figure erano parte costitutiva della nuova composizione di classe che si andava modellando sui ritmi di una metamorfosi del processo produttivo che si configura come contrazione dei tradizionali impieghi manuali, a vantaggio di una crescita del lavoro intellettuale massificato.

 

 

Invece di rivolgere attenzione a queste nuove figure produttive prendendo atto del carico di novità che esse esprimevano sul terreno delle esigenze di sviluppo e di organizzazione politica, Partito comunista e sindacato vi contrapposero la più rozza delle analisi che finiva col bollarle come fenomeno di pericolosa irrazionalità di un nuovo sottoproletariato di massa, a cui contrapporre la razionale saldezza democratica di una classe operaia garantita e arroccata nelle grandi cattedrali industriali a coltivare l'illusoria certezza di reggere l'assedio dell'attacco capitalistico.
 


Sul piano della politica istituzionale la strategia del "compromesso storico" del Pci ebbe il suo momento cruciale nel risultato delle elezioni amministrative del ‘75 quando conquistò numerosi e importanti enti locali e ancor più l'anno successivo, alle elezioni politiche, quando sfiorò il sorpasso della Dc.
 

Il clamoroso successo elettorale, arrivò sull'onda delle lotte dei movimenti di massa degli anni precedenti che il partito ritenne di aver ricondotto a funzione di cinghie di trasmissione nel sociale del suo progetto. A questo ponendo la propria candidatura a "partito di governo”, rivolse tutta la sua tensione alle manovre di alleanza e
trattativa con gli altri partiti.


 



L'assillo che la legittimità a governare dovesse passare dalla costruzione di un'immagine di credibilità democratica, lo spinse ad accettare la contropartita dell’assumersi il ruolo di garante della conflittualità sociale, affinché questa fosse ridimensionata, controllata, incanalata e amministrata o disconosciuta, scomunicata e repressa nei suoi aspetti incompatibili con la sopravvivenza del sistema in crisi. 

Di conseguenza, prioritariamente nei luoghi di lavoro, le organizzazioni e i settori sindacali controllati dal Pci elaborarono una linea che, da una parte puntava a una risoluta eliminazione di ogni opposizione operaia non controllata o controllabile, mentre dall’altra si candidava, nel confronto con i ceti industriali a forza capace di promuovere la fuoriuscita dalla crisi produttiva.
 


Il risultato di questo confronto fu l'accettazione da parte sindacale della "politica dei due tempi": prima i sacrifici a carico della classe operaia, per ristabilire i margini di accumulazione di capitali erosi dalle lotte degli anni precedenti, quindi la ripresa produttiva e un'equa ridistribuzione dei redditi e dei poteri.
 





Nel '77, con questi presupposti culturali e di strategia politica, il Pci e il sindacato si trovarono a fronteggiare l'emergenza imprevista di un movimento costituito da una varietà di soggetti proletari altamente scolarizzati, sensibilissimi nel recepire gli effetti della velocificazione delle trasformazioni di un sistema produttivo indirizzato alla dissoluzione della centralità del lavoro industriale.
 


Questi soggetti erano il condensato terminale, l'enorme imbuto, in cui confluì l'accumulo di un sapere e di
una memoria d'organizzazione di un ciclo ininterrotto di lotte antistituzionali, quindi autonome e radicali, iniziate negli anni Sessanta. Essendo soprattutto il portato storico, il prodotto conseguente dell'operaio massa dal
punto di vista del rapporto dialettico con la ristrutturazione capitalistica, questi soggetti si rivelarono altamente aggressivi sul piano delle loro espressioni politiche antagoniste.
 


Il concetto del rifiuto del lavoro che aveva attraversato tutti gli anni sessanta e la prima metà dei settanta aveva finalmente trovato la sua generazione più compiuta, una
generazione che di questo concetto faceva il proprio elemento di identità culturale, sociale e politico. 



 
Se la ristrutturazione, fluidificando il mercato del lavoro, configurò un nuovo assetto produttivo in cui l'attività lavorativa andava caratterizzandosi come precaria, saltuaria e intercambiabile tra funzioni manuali e intellettuali, i soggetti del '77 fecero proprio questo terreno di estrema mobilità tra lavori differenti e tra lavoro e non lavoro, concependo la prestazione lavorativa come dato occasionale piuttosto che fondamento costitutivo della propria esistenza.

Invece che premere e lottare per assicurarsi il “posto fisso" per tutta la vita, in fabbrica o in ufficio, vennero privilegiate le sperimentazioni sulle forme possibili di alternativa al procacciamento del reddito. Per questi soggetti la mobilità nel rapporto con il lavoro divenne da forma imposta, scelta consapevole e privilegiata rispetto al lavoro garantito delle otto ore al giorno per tutta la vita. I giovani operai già occupati nelle fabbriche, dopo aver misurato l'impossibilità e l'inutilità di resistere al processo di ristrutturazione con la lotta per la "salvaguardia del posto di lavoro", si autolicenziarono scegliendo il fronte del lavoro mobile.
 E’ soprattutto per questi comportamenti e per queste
scelte, più che per la propensione a praticare la violenza nelle lotte, che i giovani del movimento del '77 suscitarono scandalo nelle file del movimento operaio storico. 


Per questi motivi risulta allora comprensibile come, al movimento del '77, tutta la tradizione del movimento operaio storico, impiantata sull'ideologia del lavoro, non poteva che apparire, oltre che profondamente estranea, anche
oggettivamente nemica, nemica del proprio bisogno, reso maturo dallo straordinario sviluppo delle forze produttive, di liberare la vita dalla schiavitù del ricatto del lavoro comandato. 





E lo scontro fu inevitabile,
 e fu duro.
Cosi, nel '77, divampò la generalizzazione quotidiana di un conflitto politico e culturale che si ramificò in tutti i luoghi del sociale, esemplificando lo scontro che percorse tutti gli anni settanta, uno scontro duro, forse il più duro, tra le classi e dentro la classe, che si sia mai verificato dall'unità d’Italia. Quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti. 


 Queste cifre non possono essere considerate sicuramente come il semplice risultato di una scommessa azzardata del sapere delirante di un manipolo di cattivi maestri innestato sulle tensioni nichiliste di strati sociali sottoacculturati ed emarginati. 

Questo scontro fu piuttosto un appuntamento obbligato dalla precipitazione di contraddizioni sociali tra le classi che, nella crisi generalizzata, spingevano a un conflitto diretto e frontale per la rideterminazione di nuove regole di potere.*

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Talking Heads - 77







Nonostante la militanza nelle serate punkeggianti d
el C.B.G.B.’s (più che altro perché David Byrne viveva in un loft in Chrystie Street, nel Lower East-Side), i Talking Heads erano sicuramente la band che più si avvicinava all’antitesi del punk newyorkese: chitarra tagliente ma pulita, linee di basso funkeggianti alla maniera dei bianchi, ed un look sobrio e “regolare”, che contrastava non poco con i giubbotti in pelle dei Ramones, o gli abiti trasandati di Richard Hell.

Una vena “artistoide” che, almeno nella prima ora, ha contraddistinto la musica dei Talking Heads, nati per iniziativa di Byrne e di Chris Frantz proprio in un istituto d’arte di Rhode Island, a cui successivamente si unì la bassista (e compagna di Frantz) Tina Weymouth

Il trio, le cui abilità tecniche si distinguevano dalla sparuta massa newyorkese, prediligevano nella loro musica un approccio senza dubbio performativo: alla sola chitarra ritmica di Byrne, venne affiancato lo spinoso ed acido basso della Weymouth, aggiungendo dosi via via sempre più massicce di funkadelica, ed una composizione dei testi originale e controcorrente («La sfida era di prendere qualcosa che dal punto di vista dei testi fosse puramente strutturale, senza alcun contenuto emotivo, per poi caricare l’esibizione di accessi emotivi», spiega Byrne). 




La rottura con la tradizione rock, e -soprattutto nei modi e nelle forme- con il presente newyorkese, ha reso i Talking Heads unici in quel 1977, che oramai annunciava la fine della festa punk, aprendo successivamente (e con l’incontro-folgorazione sulla via Damasco con Brian Eno) ad una stagione post-punk, ove la musica di Byrne e compagni assunse significati sempre più profondi, verso la continua ricerca di come “destutturare” la musica moderna.
Abolendo quasi del tutto tematiche su amore innamorato, guerra e sesso, i Talking Heads realizzano con l’esordio Talking Heads 77 un capolavoro concettuale di words & music, senza velleità naïf o improvvisazioni fine a se stesse, ma con il preciso obiettivo di fornire delle alternative artistiche al rock mainstream dell’epoca. 

Si apre con un quartetto di brani unici nel loro genere, da Uh, Oh, Love Comes to Town (e la sua analisi ironica ed analitica sull’amore come forma di distrazione, «Jet pilot gone out of control, ship captain on the ground / Stock broker make a bad investment when love has come to town»), passando per la criptica New Feelings ed il tema ricorrente dell’incapacità di comunicare con le persone, arrivando al tempo di marcetta militare di Tentative Decision, scivolando leggeri verso la celeste e velvetiana Happy Day (una sorta di Sunday Morning frizzante ed acrilica).

Il funk “bianco” straripa in Who is it? (ricordando i Golden Years bowieani), e si trasforma successivamente in un brano quasi psichedelico con la ruvida No Compassion, in cui la voce di Byrne somiglia ad un sibilo lamentoso ed isterico. 



I cambi di scenario sono costanti e non lasciano l’ascoltatore altra soluzione che entrare completamente nella musica dei Talking Heads, che attraverso ritmi mediamente veloci si allinea al punk solo parzialmente nella forma, ma completamente nell’ideale di rottura con la musica del passato. The Book I Read esemplifica istrionismo secco di Byrne che conclude con un laconico «The book I read was in your eyes»; giocosa ed oscura allo stesso tempo è Don’t Worry about the Government, con il suo vago eco di inno, movimentato da educate campane di celebrazione in sottofondo.

La parte conclusiva del disco annovera rapidamente la calda e nostalgica First Week/Last Week … Carefree, preparando un terreno sdrucciolevole per l’intro di basso più tenebroso ed introspettivo di cui ho memoria: Tina Weymouth apre a Psycho Killer con una tensione che non si stempera nemmeno quando Byrne prende il microfono per impersonare il Norman Bates della situazione, con una delicatezza ed una spensieratezza che contrasta decisamente con la ritmica puntuale del brano. 

Chiude i giochi Pulled Up, paradossalmente l’estratto più punk di tutto il disco!

Talking Heads 77 non è solo l’esordio di una band che nel triennio successivo getterà le basi assieme ad Eno ad una rivisitazione totale (e quasi definitiva!) della musica, sia nell’approccio da studio, sia nelle avanguardie compositive; ma è soprattutto un disco godibilissimo ed ispirato che ha saputo insinuare il dubbio a chi nel 1977 vedeva solo capelli lunghi o giubbotti in pelle, e sentiva prima di ogni velocissimo brano un one, two, three, four…






https://heartofglass.altervista.org/blog/talking-heads-77-talking-heads/ 

* Tratto da L'Orda d'Oro 1968-1977 di Nanni Balestini e Primo Moroni. Saggi Universale Economica Feltribelli. Milano 2003










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