uno dei due è l'altro

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sabato 1 dicembre 2018

Pier Paolo Pasolini. La forza del passato in un futuro aprile*




È il febbraio del 1962. Il produttore Roberto Amoroso pensa a un film firmato da quattro registi, da intitolare La vita è bella. Interpella Pasolini. Pasolini accetta e scrive il soggetto di La ricotta. Amoroso lo rifiuta: lo giudica un insieme di offensive inverecondie.

Subentra Alfredo Bini. Bini produrrà Rogopag: una sigla che racchiude i nomi dei quattro autori che firmeranno il film, Rossellini, Godard, Pasolini, Ugo Gregoretti.
 
Su un dorso collinoso della campagna alle porte di Roma, un terreno vago fra la via Appia Nuova e la via Appia Antica, presso la sorgente dell'Acqua Santa, Pasolini gira La ricotta nell'autunno del 1962.
 
Nasce su quello sterrato di tufo il suo film più singolare. «Geniale» lo definì Moravia nella recensione che ne scrisse:

 «non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda».



Un poemetto per immagini: il cinema come autoriferimento, il cinema colto nel suo involucro, o cinema del cinema. Ma un cinema che utilizza voracemente pittura e letteratura. Si sta girando una crocifissione con deposizione per le quali il Pontormo e il Rosso Fiorentino sono presi a esempi figurali; mentre il regista, interpretato da Orson Welles, a un occasionale intervistatore, risponde con versi di Pasolini medesimo:
lo sono una forza del Passato
Solo nella tradizione è il mio amore.
 
Autobiografismo intellettuale e esperienza di vita – quel set romanesco, così neorealisticamente ritratto nella sua sarcastica spontaneità sono il crogiolo per il guizzare di una metafora quanto mai singolare,
«Via i crocefissi»;
«portate su le croci lasciateli inchiodati»; «cornuti»; «silenzio»; la Maddalena che, indifferente, balla il cha cha cha davanti alla croce, e Stracci, il povero Stracci, comparsa ladrone, che nella pausa di lavoro si mangia tanta ricotta da prendersi una indigestione e crepare, letteralmente crepare, legato alla croce sotto il sole che incoccia: fra grida e gesti, quel set, con la sua amara crudeltà, altro non è che il tempio invaso dai mercanti. La povertà, suggerisce l'autore, soltanto la povertà, con le sue parole schiette e pure, può offrire riscatto alla fede.



 
Il tema è complesso: e profondamente cristiano. Fa violenza al clericalismo di qualsiasi chiesa. La blasfemia dei gridi replicati «via i crocefissi» - è il segno di una antica disperazione: quella che non vede corrisposta dal mondo l'inesausta urgenza di religione. Volgarità delle voci, dei richiami: disordine brulicante, pause improvvise (quella dell'arrivo furtivo della famiglia affamata di Stracci, cui il poveretto, uno tra tanti nel formicaio di Cinecittà, passa la propria razione di cibo): tutto diventa elemento per comporre un quadro di «sgomentante sacralità».
 
È il quadro dove la sensibilità culturale di Pasolini, e il suo irreversibile bisogno di dissacrazione, al fine di rendere più concreto il «credo» cristiano, toccano il massimo di evidenza espressiva.
Un barlume di determinismo nella morte per fame di Stracci, un barlume alonato di ironia.
Di contro: la delusione, anch'essa orlata di ironia, nella quale il regista fascia le proprie risposte: accuse virulente alla borghesia italiana, l'esibizione di un «profondo, intimo, arcaico cattolicesimo», quel tanto di staccato e intellettualmente ardito che egli ha da dire sulla morte, «pseudo-problema per un marxista».

 
Pasolini è riuscito a far gioco di sé, e a giocare con gli strumenti del cinema -ha agito con l'eleganza di un artigiano. Era questa la «genialità» che gli riconosceva Moravia. I clericali non gliene riconobbero alcuna.

 



Il film, alla sua uscita, ebbe un'accoglienza distratta, fredda. 
La ragione, per Moravia, stava in quel che Pasolini 
 «con ingenua mancanza di tatto»,
 aveva messo in bocca al
suo regista:


Diamine: il regista nell'intervista dichiara: «L'Italia ha il popolo
  più analfabeta e la borghesia più ignorante
d’Europa», ed ecco scontentati così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles dichiara: «L'uomo medio è un pericoloso delinquente un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista», ed ecco scontentati tutti quanti. L'Italia del passato, infatti, era il paese dell'uomo, in tutta
la sua umanità; l'Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell'uomo medio.



Il 1 marzo 1963 il film fu sequestrato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. II decreto di sequestro firmato dal sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe Di Gennaro

IL 4 marzo, a palazzo Marignoli, sede dell'Associazione della stampa italiana, si tiene un dibattito di solidarietà con Pasolini: critici, registi, scrittori esprimono il timore che la magistratura si faccia interprete di una visione religiosa schematica e retriva.
Non tutti i cattolici sono dell'avviso del sostituto procuratore: i sacerdoti docenti della Pontificia Università Gregoriana di Roma non rilevano nel film alcun vilipendio.
 
Il caso non è soltanto giudiziario.
I dibattimento processuale ebbe luogo il 6 e il 7 marzo.
E’ protagonista Di Gennaro, il quale si fa portavoce dichiarato di una concezione della fede che non dà spazio a diversità. 
Pronuncia, nella sua requisitoria, parole come queste:
Voi vi domanderete come mai la stessa stampa cattolica non ha reagito con sdegno all'insulto di costui. E ne avete ben donde: i cattolici avrebbero dovuto prendere posizione. (...) Sono sicuro che la vostra sentenza risveglierà i morti, richiamerà a vita e a dignità quei cattolici da sacrestia che hanno abdicato alla loro cultura per tema d'essere tacciati di conformismo. (...) Stiano attenti i cattolici a portare nella città di Dio il cavallo di Troia di Pasolini.




L’intento è chiaro: le sottintese idee culturali anche.
Chiarissima, ancora di più, la psicologia del magistrato:

Qui sono io, al banco del pubblico ministero, ma in quale veste? Se l'imputato è colui che è chiamato a rispondere di un'accusa, ebbene anch'io sono imputato! E' doveroso che io faccia un'esatta presa di coscienza della realtà. Da varie fonti, senza metafore, mi si accusa: l'attentatore della libertà, il liberticida, l'inquisitore! Non occorre altro per rendersi conto che in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini ed io.
La richiesta ai giudici è perentoria:
«Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora, ineluttabilmente, condannerete il mio operato»
 
Pasolini fu dalla corte
 ritenuto «colpevole del delitto ascrittogli»,
e condannato a quattro mesi di reclusione. Il 6 maggio 1964, la corte d'Appello di Roma lo assolve perché «il fatto non costituisce reato»
Questa seconda sentenza, il 24 febbraio 1967, veniva annullata dalla corte di cassazione «perché il reato è estinto per amnistia».

 
 

Il processo del 1963, il dibattito che sollevò intorno alla
censura cinematografica, agli articoli del codice Rocco ancora attivo in Italia per i reati di vilipendio, fotografa la condizione culturale del paese.
Il miracolo economico ha mutato le strutture produttive: le grandi città del Nord stanno cambiando fisionomia; infrastrutture autostradali fanno sì che l'aspetto delle campagne si sfiguri; i mass media, televisione in testa, sono in via di espansione: tutto questo su un nucleo di irrigidite concezioni, su una moralità orgogliosa del proprio immobilismo, tale da rendere la circolazione delle idee quanto mai aleatoria o convulsa.
 

Nell'Italia nuova vi sono margini di tale astrattezza e irrealtà da spingere una natura come quella di Pasolini all'esercizio sistematico della provocazione.
 Egli sentiva vivere dentro di sé questo destino - ma, naturalmente, non lo viveva alla leggera.
Sapeva benissimo che quanto lo opponeva 
alle idee del sostituto procuratore Di Gennaro non era ciò che si poteva
chiamare futuro a confronto col passato, quanto, piuttosto
una differente concezione del Cristo.
 

 
Non diverso era il fondo di un Paese che voleva spregiudicatamente far uso di ogni illuminismo possibile, ma insieme conservare, nevroticamente conservare, le scorie del passato, radicarsi alle proprie frustrazioni sociali.
«lo sono una forza del Passato» scriveva Pasolini. Ma per via di questo non voleva, come aveva anche scritto, lasciare «ai preti il monopolio del Bene». La cultura delle pievi rurali si faceva ricca in lui di una idea dinamica della storia - ma tale dinamicità si legava inestricabilmente al messaggio evangelico dello «scandalo».
 
Il cinema poteva essere veicolo di «scandalo» assai più della letteratura. Il cinema, Pier Paolo lo dirà fra qualche anno, è «lingua scritta nella realtà» - dirà nel 1966 che il cinema esprimeva per lui niente altro che «un allucinato, infantile e pragmatico
 amore per la realtà».
 Non solo «pragmatico», ma

(…) religioso in quanto si fonda in qualche modo, per analogia, con una sorta di immenso feticismo sessuale. ll mondo non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose» 



Padri e madri, feticismo sessuale, lo scandalo: tutto si chiude in un anello che niente infrange: una circolarità di passioni che la nevrosi inchioda, ma che la ragione, e l'intuito poetico, nutrono di vitalità espressiva, di quella «disperata vitalità» che fu il bagliore dentro cui Pasolini sempre più occultava la propria esistenza.
 
Ascoltata la condanna, quella mattina di marzo del 1963, Pier Paolo tornò a casa. Il sole caldo: era già primavera.
Da qualche mese viveva con lui e con Susanna, Graziella, la figlia di Annie Chiarcossi Naldini. Graziella si era iscritta alla facoltà di Lettere dell'Università di Roma.
Susanna, conosciuta la condanna, ebbe una crisi di pianto, un mancamento. Fu una crisi allarmante. Pier Paolo ne restò sconvolto: cercò Moravia, lo pregò di raggiungerlo a casa.
Poi, riuscì a trovare il numero telefonico di Di Gennaro: lo chiamò. Gridando, rese responsabile il magistrato del turbamento di sua madre. Fu quella l'unica volta che Pier Paolo ebbe una reazione estrema di fronte a una condanna: il pianto, la prostrazione fisica di Susanna lo ottenebrarono.
 Le parole per lei erano:



Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
 
E non voglio essere solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senz'anima
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
 
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
 
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
 
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
 
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile.

 








* Tratto da Vita di Pasolini, di Enzo Siciliano - Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 1995




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