William Turner |
Nel post precedente ho espresso, in modo un po' frivolo ma credo chiaro,
la mia passione per GNU/Linux. Qui presento alcuni capitoli tratti da The Dark Side of Google (Ippolita, 2007. Qui il pdf). Un testo (che consiglio di leggere nella sua interezza) in cui vengono messe in luce, in maniera
esemplare, le strategie
aziendali e di marketing attraverso le
quali la società di Mountain View è riuscita, nel corso degli anni, a sfruttare e
a "mettere a lavoro" una buona parte delle energie e dei conseguimenti dell' Open Source e parte di quello che
può essere definito movimento del software libero. Valga da esempio, fra tanti casi, la
nascita e lo sviluppo del sistema operativo per cellulari Android, basato sul
kernel Linux e distribuito con licenza Apache. E c'è naturalmente lo strapotere "morbido" che l' algoritmo di Google esercita nella Rete e che ormai sfocia attraverso il "collasso cognitivo" dell'utente in un vero e proprio "dominio tecnocratico" e/o "controllo biopolitico". Ciò grazie al trattamento indicizzato di enormi masse di dati.
Si tratta di una dinamica che ci indica, se vogliamo tentare una minima autogestione degli strumenti digitali, la necessità di una continua formazione e di una continua ricerca di spazi e di pratiche "liberi", ci indica che non è sufficiente la sola pratica comunitaria per rendere la Rete un "bene collettivo" o anche solo "neutrale". La vicenda dimostra anche che non esiste una fantomatica "democrazia elettronica" e soprattutto dimostra l'immutata capacità del capitale di integrare dentro i propri processi di valorizzazione e di ricerca del profitto anche settori, energie e “vite” che in qualche modo vorrebbero porsi fuori o addirittura contrapporsi alle sue logiche. Il fatto poi che questa partita si sia svolta, e si svolga, nel campo più avanzato delle tecnologie dell’ informazione, e in genere della produzione “cognitiva” , spesso sotto il segno della gratuità di alcuni servizi e prestazioni, con gli utenti felici nella loro totale "attitudine alla delega" e inebriati dalle molteplici possibilità che la "piattaforma" offre loro, e le "maestranze intellettuali" inconsapevoli e "felici" di farsi sfruttare, la dice lunga sulle difficoltà che si pongono di fronte a chi crede nella necessità di cambiare in modo radicale lo stato delle cose…
Si tratta di una dinamica che ci indica, se vogliamo tentare una minima autogestione degli strumenti digitali, la necessità di una continua formazione e di una continua ricerca di spazi e di pratiche "liberi", ci indica che non è sufficiente la sola pratica comunitaria per rendere la Rete un "bene collettivo" o anche solo "neutrale". La vicenda dimostra anche che non esiste una fantomatica "democrazia elettronica" e soprattutto dimostra l'immutata capacità del capitale di integrare dentro i propri processi di valorizzazione e di ricerca del profitto anche settori, energie e “vite” che in qualche modo vorrebbero porsi fuori o addirittura contrapporsi alle sue logiche. Il fatto poi che questa partita si sia svolta, e si svolga, nel campo più avanzato delle tecnologie dell’ informazione, e in genere della produzione “cognitiva” , spesso sotto il segno della gratuità di alcuni servizi e prestazioni, con gli utenti felici nella loro totale "attitudine alla delega" e inebriati dalle molteplici possibilità che la "piattaforma" offre loro, e le "maestranze intellettuali" inconsapevoli e "felici" di farsi sfruttare, la dice lunga sulle difficoltà che si pongono di fronte a chi crede nella necessità di cambiare in modo radicale lo stato delle cose…
Google e l’Open Source
L’arma forse più complessa di Google è la sua strategia
di collaborazione-sfruttamento del mondo Open Source. L’iniziativa Google Code
(marzo 2005) è un omaggio alla comunità Open Source, di cui i fondatori di
Google si dicono “amici e riconoscenti”. Il motore più usato del Web spiega che
lo scopo di Google Code non è quello di promuovere lo sviluppo di applicazioni
che utilizzino le proprie API (Application Programming Interface), per cui
esiste già un sito dedicato, ma quello di mettere a disposizione di tutti gli sviluppatori Open
Source strumenti di pubblica utilità. I 4 progetti inizialmente pubblicati su
Google Code nascono attorno a programmi creati dagli stessi sviluppatori della
società per velocizzare la creazione, l’ottimizzazione o il debugging del
codice.
I progetti linkati su Google Code sono ospitati anche su SourceForge.net e sono distribuiti sotto licenza BSD 2.0 (il loro codice può essere utilizzato indistintamente all’interno di altre applicazioni Open Source o proprietarie). Inoltre Google promette fin da subito di mettere a disposizione della comunità Open Source diversi altri software, in buona parte frutto di quel 20% di tempo che gli sviluppatori alle dipendenze della società sono incoraggiati a dedicare a progetti personali.
I progetti linkati su Google Code sono ospitati anche su SourceForge.net e sono distribuiti sotto licenza BSD 2.0 (il loro codice può essere utilizzato indistintamente all’interno di altre applicazioni Open Source o proprietarie). Inoltre Google promette fin da subito di mettere a disposizione della comunità Open Source diversi altri software, in buona parte frutto di quel 20% di tempo che gli sviluppatori alle dipendenze della società sono incoraggiati a dedicare a progetti personali.
Non a caso segue un progetto interamente dedicato al
reclutamento di sviluppatori Open Source, con la “Summer of Code”, una vera e
propria gara con in palio 4500 dollari. Poi è il turno di “Google Earth” e
infine, come ogni potenza giunta a rappresentare uno stile di vita, Google
presenta il sogno: “moon.google.com”, Google sulla luna!
“In onore del primo sbarco dell’uomo sulla Luna, avvenuto il 20 luglio del 1969, abbiamo aggiunto alcune immagini NASA all’interfaccia di Google Maps per consentire a tutti di visitare il nostro vicino celestiale. Buona navigazione lunare”.
I movimenti di Google, “pseudo-monopolistici” nei metodi
e nelle prospettive, hanno avuto una immediata ricaduta sulla concorrenza: oggi
Google si sta trasformando in un gigante che occupa tutti gli spazi di mercato;
sempre nuovi servizi soffocano le società hi-tech più piccole, che faticano ad
arruolare ingegneri e tecnici e rischiano di vedere imitati i propri nuovi
prodotti.
Il lancio ininterrotto di nuovi servizi e il
finanziamento in pratica dall’interno a potenziali spin-off dei dipendenti
rende di fatto il mercato bloccato in termini di innovazione tecnologica. Chi
infatti finanzierebbe oggi un progetto web, con la possibilità che da lì a
qualche giorno sia proprio Google a lanciarlo? Google ha saputo rappresentare, agli occhi degli
osservatori, ma anche dei semplici utilizzatori di Internet, una sorta di
paladino del progresso: a partire dal motore di ricerca, concepito per essere compreso
rapidamente e con semplicità dagli utenti, si sono moltiplicate le proposte di
servizi e idee.
Con l’opzione Open Source l’economia relazionale messa in
atto da Google diventa una “visione del mondo”, recepita addirittura come uno
sviluppo sostenibile, un capitalismo buono che diffonde l’abbondanza, una
soluzione economicamente “etica” alle ricerche degli individui.
Free Software (1) (Sofware Libero) e Open Source (2)
(Sorgente Aperto) sono sintagmi usati spesso come sinonimi per indicare codici
o porzioni di codici informatici; tuttavia, per quanto descrivano oggetti
spesso identici, rispecchiano prospettive radicalmente differenti. Free
Software è un termine nato agli inizi degli anni Ottanta per iniziativa di
Richard Stallman: si riferisce alla libertà dell’utente di usare e migliorare
il software.
L’espressione Open Source, invece, nasce alla fine degli anni Novanta, per iniziativa in particolare di Bruce Perens e Eric S. Raymond, che nel 1998 fondano la OpenSource Initiative (3) (OSI); si riferisce alla Open Source Definition, a sua volta derivata dalle Debian Free Software Guidelines, ovvero una serie di 10 punti pratici che definiscono quali criteri legali debba soddisfare una licenza per essere considerata effettivamente “libera”: o meglio, con il nuovo termine, Open Source. È evidente quindi che da una parte il Free Software pone l’accento sulla libertà: come sottolineato nella definizione, “il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo” (4). Dall’altra parte, l’Open Source si occupa esclusivamente di definire, in una prospettiva totalmente interna alle logiche di mercato, quali siano le modalità migliori per diffondere un prodotto secondo criteri open, cioè aperti. Il Free Software ha un senso che va ben oltre il mercato, pur non escludendolo a priori; l’Open Source esiste, come specificato dai suoi stessi promotori, per adattare un modello preesistente (quello “free” nel senso di “libero”) al mercato.
L’espressione Open Source, invece, nasce alla fine degli anni Novanta, per iniziativa in particolare di Bruce Perens e Eric S. Raymond, che nel 1998 fondano la OpenSource Initiative (3) (OSI); si riferisce alla Open Source Definition, a sua volta derivata dalle Debian Free Software Guidelines, ovvero una serie di 10 punti pratici che definiscono quali criteri legali debba soddisfare una licenza per essere considerata effettivamente “libera”: o meglio, con il nuovo termine, Open Source. È evidente quindi che da una parte il Free Software pone l’accento sulla libertà: come sottolineato nella definizione, “il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo” (4). Dall’altra parte, l’Open Source si occupa esclusivamente di definire, in una prospettiva totalmente interna alle logiche di mercato, quali siano le modalità migliori per diffondere un prodotto secondo criteri open, cioè aperti. Il Free Software ha un senso che va ben oltre il mercato, pur non escludendolo a priori; l’Open Source esiste, come specificato dai suoi stessi promotori, per adattare un modello preesistente (quello “free” nel senso di “libero”) al mercato.
Gli hackers di Stanford
Ormai da alcuni anni il software Open Source viene considerato comunemente affidabile, capace di prestazioni elevate e a costi sostenibili; in pratica è oggi spesso considerato migliore rispetto ai software proprietari, proprio perché in grado di aumentare l’affidabilità di un prodotto soprattutto in virtù di una metodologia differente di sviluppo, aperta e sottoposta a un meccanismo molto ampio di revisione.
Grazie alla realizzazione di software stabili e funzionali come browser, programmi per ufficio, editor e interi sistemi operativi (GNU/Linux), quasi ogni utente si è accorto o ha sentito parlare dell’esistenza dei programmi detti genericamente copyleft o Open Source. Open Source era il termine adatto, e necessario, per sostituire la dicitura Free Software. In inglese infatti la parola Free ha il duplice significato di Libero e di Gratuito: questa ambiguità linguistica rendeva il prodotto poco appetibile dal punto di vista economico. La sostituzione con Open fu un modo strategicamente vincente per mantenere le caratteristiche di cooperazione libera senza rinunciare alla possibilità di un uso più strettamente commerciale dei software.
All’epoca, in realtà, si stava assistendo a un
cambiamento radicale nell’assetto delle comunità digitali spontanee, cioè
quelle comunità a cui si sentono legati tutti coloro che danno una definizione
positiva di hacking. Questi aggregati erano (e lo sono ancora) estremamente
compositi. Ci riferiamo a un interstizio culturale fluido nel quale si formano
e collaborano studenti, professori, ricercatori, liberi professionisti, polizia
e criminali, programmatori stipendiati da società di sviluppo, appassionati e molte
altre tipologie di hacker.
Il movimento del Free Software stava cominciando un
confronto serrato con l’economia di mercato. La battaglia della Free Software Foundation verteva sulla diffusione della licenza GPL (General Public License),
creata dal fondatore della FSF Richard Stallman (5); tale licenza vincola l’artefatto
in modo “virale” alle quattro libertà sopra elencate. In sostanza ogni modifica
apportata a codice sotto licenza GPL deve mantenere la stessa licenza d’uso,
rendendo impossibile la chiusura del codice; questo meccanismo è noto come
“permesso d’autore” (copyleft, gioco di parole su copyright). Nascevano e si diffondevano allora le prime
distribuzioni del sistema operativo GNU/Linux.
La commistione tra metodo di sviluppo libero e
net-economy avrebbe determinato negli anni successivi al 2000 l’esplosione dei
prodotti Open Source e allo scatenarsi del dibattito politico circa la
brevettabilità del software, il copyright e alla gestione etico-politica di
tutto ciò che attualmente definiamo opera d’ingegno umano.
L’azienda Google, per quanto non sia direttamente un
produttore di software, non è rimasta ai margini dello scossone Open Source:
come altre aziende dinamiche e innovative, Google ne ha cooptato le metodologie
e le ha poste al servizio della sua “missione”. La contiguità fra Google e Open
Source è spaziale e temporale: nel 1998 a Stanford, proprio mentre Brin e Page mettevano a punto la prima versione del loro motore di ricerca, stavano emergendo
alcuni importanti progetti Free Software; ricordiamo ad esempio SND e Protegè
che, in campi molto differenti, ovvero l’audio e il web semantico, avrebbero
riscosso grande successo sulla scena digitale.
A Stanford la cultura hacker, da cui deriva in ultima
analisi l’Open Source, si respira come un’aria di famiglia: non è dunque un
caso che il nostro duo formatosi in quegli anni abbia sempre manifestato una
certa predilezione per lo sviluppo su piattaforma GNU/Linux.
Se esistono differenze sostanziali tra Open Source e Free
Software, vi sono però anche elementi in comune e continuità di vedute. Per
semplicità e correttezza parleremo perciò di “metodologie e pratiche aperte”,
in breve di Open Source, per indicare il fenomeno che interseca Free Software, Open
Source e competizione di mercato nel mondo dell’IT.
La prima caratteristica di una comunità Open (ma in
questo senso anche Free) è quella di mettere in pratica un metodo di lavoro
aperto alla collaborazione di tutti, capace cioè di accettare suggerimenti e
interazioni spontanee da ogni tipologia di soggetto coinvolto nella costruzione
dell’artefatto informatico: programmatore, traduttore, o anche semplice utente.
Questo procedimento è stato definito nel gergo hacker metodo a “bazar” e la sua
applicazione su vasta scala si deve allo sviluppo del Kernel Linux nei primi
anni Novanta, un progetto nato per iniziativa di Linus Torvalds e base di tutte le distribuzioni GNU/Linux
(6).
La nuova tecnica cooperativa proposta dall’underground
digitale ha rovesciato la legge di Brooks (7) che regolava le comunità di
sviluppo dei progetti informatici fino a quel momento. Secondo la legge di
Brooks, con il crescere della complessità aumentano esponenzialmente gli errori
e quindi un progetto a cui contribuiscono migliaia di sviluppatori avrebbe
dovuto essere un’accozzaglia di codice instabile e pieno di bug. Invece,
attraverso la resa pubblica dei codici sorgenti, la circolazione libera su
internet della documentazione, la cooperazione e il feedback spontaneo di un
numero sempre più elevato di soggetti in gioco, le comunità libere hanno dimostrato
come fosse possibile un enorme miglioramento nella costruzione di artefatti
digitali, sia dal punto di vista del risultato, sia del processo. I software
realizzati in questo modo vengono generalmente resi pubblici sotto la licenza
GPL, che come abbiamo visto diffonde in maniera virale materiali copyleft.
La licenza GPL non prevede quindi restrizioni dal punto
di vista commerciale; tuttavia, esattamente come il termine Free Software
risultava eccessivamente radicale nel porre le libertà al primo posto, così
anche la GPL è stata sostituita da licenze edulcorate rispetto al portato etico
e politico che il movimento originario voleva esprimere.
È il caso di licenze come la BSD (Berkeley Software Distribution), che non implica alcuna restrizione rispetto alla chiusura dei codici e quindi inibisce la viralità, perché porzioni di codice non libero possono essere integrate nel codice libero. Dunque una creazione libera può diventare proprietaria. Oppure la MPL (Mozilla Public Licence) e altre licenze sviluppate su misura per i nuovi prodotti Open Source. L’economia di mercato diventa così sviluppo sostenibile e la Community degli sviluppatori il nucleo di una vera e propria Open Society (8), la chimerica Società Aperta. Questo immaginario è determinato non solo dall’adesione morale che suscita la pratica di uno sviluppo comunitario, ma soprattutto dalla qualità superiore degli applicativi, in apparente contraddizione con la gratuità delle competenze messe in gioco.
È il caso di licenze come la BSD (Berkeley Software Distribution), che non implica alcuna restrizione rispetto alla chiusura dei codici e quindi inibisce la viralità, perché porzioni di codice non libero possono essere integrate nel codice libero. Dunque una creazione libera può diventare proprietaria. Oppure la MPL (Mozilla Public Licence) e altre licenze sviluppate su misura per i nuovi prodotti Open Source. L’economia di mercato diventa così sviluppo sostenibile e la Community degli sviluppatori il nucleo di una vera e propria Open Society (8), la chimerica Società Aperta. Questo immaginario è determinato non solo dall’adesione morale che suscita la pratica di uno sviluppo comunitario, ma soprattutto dalla qualità superiore degli applicativi, in apparente contraddizione con la gratuità delle competenze messe in gioco.
L’era dell’Open Source economy: concorrenza e bontà
d’animo L’ingresso dell’Open Source nel mercato è, secondo alcuni osservatori,
una delle conseguenze della cosiddetta «convergenza tecnologica», uno slogan
ormai divenuto quasi un paradigma dell’era informazionale: l’avvicinamento e
sinergia di varie tecnologie, precedentemente ritenute estranee, studiate e
sviluppate in ambiti separati.
Dinanzi a queste trasformazioni spesso estremamente
rapide, la creazione di standard aperti ha creato un varco nella “guerra di
tutti contro tutti” del cosiddetto “libero mercato”: “cooperate on standards,
compete on solution”, è il motto della Ibm, una delle principali imprese
coinvolte. Se anche Big Blue decide di cooperare, significa che il gioco vale
la candela... Per molte aziende l’Open Source è infatti una delle poche
possibilità per contrastare monopoli e oligopoli ormai consolidati, per
sfuggire a dinamiche di competizione classiche senza investimenti enormi, per
limitare i costi di sviluppo e quindi diminuire “il prezzo” dei propri servizi
.
Le imprese conoscono da tempo e apprezzano il valore di
una dinamica reticolare di sviluppo e di alleanze: è ben noto che il valore di
una rete è proporzionale al quadrato delle persone/nodi che collega (9). Una
rete sempre più ampia corrisponde dunque a profitti esponenzialmente maggiori.
L’Open Source sembra offrire alcune garanzie rilevanti
nello sviluppo di reti ad alto valore aggiunto: da una parte consente al
software di rimanere in qualche modo un bene «pubblico» (adotta lo sviluppo
aperto e si avvale di comunità di supporto); dall’altra mantiene molto bassi i costi
di passaggio da un sistema all’altro (i cosiddetti switching costs), in
particolare dai modelli proprietari a quelli aperti, anche e soprattutto nel
caso dei sistemi legacy, cioè obsoleti. I costi maggiori nell’adozione di nuove
tecnologie sono dovuti alla formazione degli utenti, non all’investimento per
l’acquisizione della tecnologia stessa; a maggior ragione se si tratta di
software eccellente dal costo risibile. Ma il risultato più importante, il cui
prezzo è difficilmente calcolabile, è la creazione di un’immagine completamente
nuova: per la propria azienda e per i propri prodotti.
Il successo delle logiche del software libero ha prodotto
diversi tentativi di applicazione delle medesime pratiche in altri settori.
Sono stati inevitabilmente coniate nuove espressioni e formulati auspici spesso
esagerati: Open Laws, Open Science, persino Open Society sembrano a portata di mano.
Oggi infatti l’idea di società Open Source è divenuto quasi un paradigma della
nuova era volta alla ricerca di uno strumento comune per una prospettiva
politica “possibile”. Per società Open Source si intende infatti una società il
cui codice sia aperto e al cui miglioramento possano partecipare tutti
liberamente. Messa in questi termini non si può che essere d’accordo. Sorprende
però la leggerezza con cui si mutua un termine da un percorso particolare,
tecnico e informatico, per renderlo generale, applicandolo a teorie
filosofiche, economiche, sociologiche, senza considerare le possibilità di
modificare quel concetto o quantomeno utilizzarlo con le dovute precisazioni.
Open Source infatti, nel campo del software in cui è nato
il termine, significa anche concorrenza, gare per accaparrarsi i cervelli
migliori al minor prezzo, finanziamenti di capitale di rischio, operazioni
miliardarie di acquisto e vendita, un grande business orientato a una forma più
“democratica” e morbida di capitalismo. Questa dinamica mira non più ad
asservire la forza lavoro, bensì a cooptarla nella realizzazione della missione
dell’azienda, che si identifica sempre più con la realizzazione dei propri
desideri individuali (10).
Tra le tante società che oggi sfruttano quest’onda per
ottenere i più diversi vantaggi c’è anche Google che, d’altronde, è buono per
motto: perciò, Don’t be Evil, usa il software libero, è gratuito, è migliore di
quello proprietario, gli sviluppatori sono fieri di collaborare. La visita a
Googleplex ha mostrato chiaramente come a Mountain View questa strategia di
penetrazione nelle vite delle persone sia stata affinata al massimo grado:
lavoratori gratificati, incoraggiati a essere creativi e felici producono
meglio e di più rispetto a lavoratori frustrati e oppressi.
Sedurre gli hackers: autonomia, soldi facili, strumenti gratuiti
Lo sfruttamento dell’Open Source da parte di Google
raggiunge l’apice intorno al 2005, quando la sua immagine è stata appannata
dalle azioni dei concorrenti e da vicende giudiziarie non cristalline. Per quanto il progetto fosse notoriamente radicato nella
cultura informatica e nella pratica dell’eccellenza accademica, non era
sufficiente usare il sistema operativo GNU/Linux per far funzionare il
datacenter di Google: occorreva esplicitare la fiducia verso l’Open Source con un’iniziativa
forte, che richiamasse l’attenzione nel magma delle reti a produzione libera. Non
era più sufficiente offrire il supporto per la lingua h4x0r, il linguaggio dei
“veri” hackers, (o per il klingoniano di Star Trek), per accattivarsi le
simpatie degli sviluppatori. Inoltre l’atteggiamento elitario da cervelloni
universitari cominciava a spazientire gli investitori.
Arroganza e culto meritocratico di derivazione accademica, anche se supportati da risultati sempre ottimali, hanno poco riscontro presso gli investitori che reclamano sostanziosi dividendi. Era inevitabile che si chiudesse la fase in cui i due potevano permettersi scherzosamente di quotare in borsa il titolo ipotizzando azioni per un valore di 2.718.281.828 dollari, un numero che ricalca la costante matematica “e” (la base della funzione logaritmo naturale); o anche uscite balzane come l’annuncio dell’agosto 2005, quando dichiarano che avrebbero venduto 14.159.265 azioni per raccogliere 4 miliardi di dollari di liquidità, senza far parola con gli investitori dell’uso che avrebbero fatto di quel denaro.
Arroganza e culto meritocratico di derivazione accademica, anche se supportati da risultati sempre ottimali, hanno poco riscontro presso gli investitori che reclamano sostanziosi dividendi. Era inevitabile che si chiudesse la fase in cui i due potevano permettersi scherzosamente di quotare in borsa il titolo ipotizzando azioni per un valore di 2.718.281.828 dollari, un numero che ricalca la costante matematica “e” (la base della funzione logaritmo naturale); o anche uscite balzane come l’annuncio dell’agosto 2005, quando dichiarano che avrebbero venduto 14.159.265 azioni per raccogliere 4 miliardi di dollari di liquidità, senza far parola con gli investitori dell’uso che avrebbero fatto di quel denaro.
Per sostenere concretamente il proprio desiderio di investire
in ricerca, per dimostrare come attraverso una simile strategia si possa non
solo competere, ma eccellere sul mercato, era necessaria una mossa strategica
rivolta non tanto agli utenti “normali”, ma piuttosto ai giovani cervelli, al futuro,
all’innovazione; tradotto operativamente questo significa creare comunità,
offrire strumenti di sviluppo, stipulare accordi con altre società del settore.
Ovvero, corteggiare il mondo dell’Open Source.
Google comincia a investire nella creazione di comunità
nell’Ottobre 2005, quando finanzia con 350.000 dollari l’Oregon State
University e la Portland State University per migliorare la qualità dei progetti
Open Source, favorendo la nascita di nuovi software. Successivamente viene
avviato in pompa magna il programma mirato del Giugno 2005: Summer Of Code,
cioè “L’estate del codice”, promosso direttamente su una pagina del sito di
Google, e ora reperibile su http://code.google.com/summerofcode05.html. (per il 2016 pagina è: https://developers.google.com/open-source/gsoc/timeline).
Lo stile comunicativo è chiaro: offrire opportunità ai
migliori. Ogni programmatore che avesse creato un progetto Open Source nuovo o
apportato una miglioria degna di nota a un progetto già esistente entro l’arco
dell’estate, avrebbe avuto un premio di 4500 dollari. L’operazione mirava evidentemente
a presentarsi come un’esplicita dichiarazione d’amore verso l’Open Source,
ovvero a rimarcare che l’ Open Source era il terreno strategico sul quale
coltivare l’innovazione. In secondo luogo, puntava ad attirare le simpatie dei
giovani sviluppatori con un’iniziativa di sostegno finanziario concreto al loro
lavoro. Infine, cercava di creare una vera e propria comunità nello stile “aperto”,
quantomeno relativamente alla sponsorizzazione.
I programmatori premiati, perlopiù studenti, sono stati
oltre quattrocento; per la maggiore hanno apportato modifiche e introdotto
novità su progetti già esistenti, piuttosto che far conoscere i loro nuovi
software, aggiungendo caratteristiche a programmi come Apache, Fedora, Gaim, lo
stesso Google, Inkscape, Jabber, KDE, Mozilla, OpenOffice.org, Python, Samba,
Gnome, Mono, Ubuntu.
Un bel guadagno per tutti, specialmente per le società che stanno dietro a questi progetti: tra le principali, ricordiamo IBM, RedHat, LinSpire, Novell, Mozilla.com, Sun, HP, Ubuntu (11).
Alcuni di questi progetti, insieme a quelli sviluppati
nel famigerato 20% di tempo libero dai dipendenti di Google, hanno permesso il
raggiungimento del secondo obiettivo nel percorso di avvicinamento all’Open
Source: offrire strumenti di sviluppo. Già dal 2002 Google offriva strumenti di
sviluppo scaricabili gratuitamente dal sito code.google.com. Adesso questa
pagina contiene i progetti proprietari creati dai team di sviluppo di Google e
insieme i progetti vincenti di Summer of Code che sono in qualche modo legati
ai suoi servizi.
La sezione “Code” del sito propone alcuni progetti
dedicati ai creatori di software nei più diversi linguaggi di programmazione
(Java, C++, Python, etc.). Offrire strumenti di sviluppo è un elemento essenziale
per chiunque voglia permettere la creazione di software e comunità, perché si
investe proprio sui mezzi di lavoro necessari per la loro creazione. I progetti
concepiti dai programmatori di Google come strumenti di sviluppo prendono il
nome di Google API, librerie proprietarie per interfacciarsi e utilizzare i
principali servizi del colosso di Mountain View.
Una libreria è un’insieme di funzioni condivise: si
tratta di porzioni di codice compilate che forniscono strumenti ad altri
programmi che abbiano la necessità di funzioni semplificate. Un esempio molto
intuitivo è costituito dalle librerie grafiche GTK, QT e FLTK, che implementano
gli elementi standard di un’applicazione visuale (pulsanti, menù, icone...),
semplificando il lavoro dei programmatori: questi ultimi, appoggiandosi alla
libreria preferita, scriveranno solo le funzioni reali del programma. Saranno
infatti le librerie a disegnare i pulsanti, a gestire i click del mouse, a tracciare
le ombre e molto di tutto ciò che siamo abituati a vedere come utenti. Il tempo
e le capacità dei programmatori vengono così ottimizzate; poiché chi scrive
codice difficilmente sarà entusiasta di creare i bottoncini delle sue
applicazioni, le librerie grafiche rivestono un ruolo essenziale di collante
fra i vari progetti. Da una parte, le applicazioni risulteranno relativamente omogenee
dal punto di vista grafico; dall’altra, i programmatori potranno concentrarsi
sul loro lavoro, senza perdere troppo tempo nell’implementazione della
interfacce.
I programmatori che usano
queste librerie hanno l’opportunità di inserire la ricerca di Google nel proprio
sito o conoscere in tempo reale il proprio PageRank. Inoltre possono realizzare
software capaci di gestire campagne pubblicitarie attraverso
AdWords, generare mappe dinamiche dei loro dati con l’interfaccia di Google
Maps o anche implementare client VoIP per la telefonia on-line compatibili con
GTalk. In breve, possono sviluppare i servizi di Google come meglio credono,
nel linguaggio di programmazione a loro più congeniale, sotto l’attenta
supervisione di Mountain View.
L’enorme diffusione dei servizi di Google si coniuga con
la possibilità di personalizzazione nei minimi dettagli: infatti, mediante la
scrittura di appositi documenti XML (12), è possibile creare “ponti” di
collegamento fra i diversi servizi di Google; per esempio programmando pezzo
per pezzo l’homepage di Google come se fosse un vero e proprio applicativo,
rendendola in questo modo del tutto adeguata alle proprie esigenze. Qualcosa di
molto simile si può fare con Google Earth: è possibile costruire particolari
navigazioni in 3D sulle foto satellitari, evidenziando graficamente sui computer
degli utenti ulteriori zone geografiche, edifici, dati climatici, ecc.
Tutti questi strumenti predisposti per chi sa scrivere
codice (in almeno un linguaggio) sono essenziali per trovare nuove combinazioni
o semplicemente usare ciò che Google rende pubblico, almeno in parte,
all’interno di propri applicativi (13). Esiste addirittura un portale, googleearthhacks.com,
dove si possono trovare moltissimi trucchi e hack per utilizzare nei modi più impensati
questo servizio, incrociando le mappe satellitari con qualsiasi altro database.
Tutte le possibilità che le API di Google ci offrono
implicano il rispetto di due precise regole: la registrazione e la licenza. Per
attivare funzioni di Google API infatti è necessario richiedere una chiave,
cioè un codice di accesso e comunicare esattamente dove le si vuole impiegare.
Le API si attivano solo dopo aver effettuato questa registrazione. Il secondo punto è la licenza. Non avendo una licenza copyleft, queste API si possono utilizzare soltanto nel rispetto di alcune limitazioni: ad esempio, è necessario avere un account Google, perché l’accumulo di informazioni non si arresta mai; inoltre, le mappe sono di proprietà esclusiva di Google (o di terze parti) e non possono essere modificate in alcun modo.
Naturalmente, per usi commerciali è necessario stipulare un contratto. Il codice di attivazione permette a Google di mantenere sempre il controllo totale sui nuovi programmi generati sulle sue API: può bloccare a piacimento gli applicativi o semplicemente controllare sia il modo in cui accedono ai servizi, sia l’uso che ne viene fatto. Tutto questo è possibile perché il codice sorgente non è pubblico e libero e risulta quindi impossibile comprendere il funzionamento interno delle librerie. Oltre a far sviluppare gratuitamente e a monitorare lo sviluppo dei propri servizi, un altro motivo per cui Google sta creando comunità con questa strana formulazione che potremmo definire pseudo-Open è quello di ottenere un database sul quale fare ricerca e vendita di statistiche.
Le API si attivano solo dopo aver effettuato questa registrazione. Il secondo punto è la licenza. Non avendo una licenza copyleft, queste API si possono utilizzare soltanto nel rispetto di alcune limitazioni: ad esempio, è necessario avere un account Google, perché l’accumulo di informazioni non si arresta mai; inoltre, le mappe sono di proprietà esclusiva di Google (o di terze parti) e non possono essere modificate in alcun modo.
Naturalmente, per usi commerciali è necessario stipulare un contratto. Il codice di attivazione permette a Google di mantenere sempre il controllo totale sui nuovi programmi generati sulle sue API: può bloccare a piacimento gli applicativi o semplicemente controllare sia il modo in cui accedono ai servizi, sia l’uso che ne viene fatto. Tutto questo è possibile perché il codice sorgente non è pubblico e libero e risulta quindi impossibile comprendere il funzionamento interno delle librerie. Oltre a far sviluppare gratuitamente e a monitorare lo sviluppo dei propri servizi, un altro motivo per cui Google sta creando comunità con questa strana formulazione che potremmo definire pseudo-Open è quello di ottenere un database sul quale fare ricerca e vendita di statistiche.
Ospitare gratuitamente i progetti dei singoli
programmatori significa ottenere la loro fiducia. Permettere a chiunque di
effettuare ricerche sul database dei progetti ospitati attiva una solida catena
di utenti. Una simile incubatrice gratuita di giovani talenti garantisce
inoltre la disponibilità di materiale umano fortemente motivato e la cui
formazione, ovvero il costo principale nel settore dell’IT, è già stata
compiuta in maniera autonoma e del tutto conforme allo stile dell’azienda.
L’offerta di strumenti di sviluppo è un meccanismo di
talent-scouting noto da tempo e in particolare è il cavallo di battaglia di
alcune solide aziende come la Va Software Corporation, che mette a disposizione
gratuita del mondo dell’Open Source computer estremamente potenti e banda larga,
spazio disco e assistenza non alla portata di tutti. Due paradisi digitali
possono vantare una fama mondiale e un numero di progetti ospitati superiore a
ogni altro concorrente: sourceforge.net e freshmeat.net, entrambi di proprietà
della Va Software. Questi portali hanno una tale risonanza che anche i progetti
più piccoli, una volta comparsi sulle prime pagine, arrivano tranquillamente a contare centinaia di visite al giorno. Tutti i progetti
in seno a code.google.com hanno una loro pagina relativa su freshmeat.net e/o
sourceforge.net.
In questo modo gli applicativi possono al contempo godere
della visibilità di Google e di tutti i servizi messi da disposizione dal
colosso Va Software: mailing list, computer dedicati per la soluzione degli
errori di programmazione (debug), per sistemi di controllo delle versioni,
delle revisioni e dei cambiamenti del codice (ad esempio cvs, Concurrent
Versioning System), forum di discussione, ecc.
È semplice immaginare come, con un database utilizzato
gratuitamente da migliaia di coder, la Va Software può garantire un ottimo
servizio di business to business per aziende legate al mondo Open Source e non
solo.
Un data mining di particolare interesse per affari miliardari. Tra gli sponsor e inserzionisti di sourceforge.net e freshmeat.net troviamo Red Hat, Microsoft e molti altri. Vi sono molti modi per mettere in collegamento gli sviluppatori con le aziende Open Source. In Italia, SUN Microsystem offre la possibilità di pubblicare il proprio curriculum su una mappa di Google (utilizzando le Google API), attraverso il portale javaopenbusiness.it. Sono gli sviluppatori stessi a segnalare il proprio profilo, creando così una mappa delle competenze Open Source in Italia attraverso gli strumenti resi disponibili da SUN e da Google.
Un data mining di particolare interesse per affari miliardari. Tra gli sponsor e inserzionisti di sourceforge.net e freshmeat.net troviamo Red Hat, Microsoft e molti altri. Vi sono molti modi per mettere in collegamento gli sviluppatori con le aziende Open Source. In Italia, SUN Microsystem offre la possibilità di pubblicare il proprio curriculum su una mappa di Google (utilizzando le Google API), attraverso il portale javaopenbusiness.it. Sono gli sviluppatori stessi a segnalare il proprio profilo, creando così una mappa delle competenze Open Source in Italia attraverso gli strumenti resi disponibili da SUN e da Google.
Google può quindi contare sull’implementazione
praticamente gratuita dei propri prodotti da parte di centinaia di utenti; a
questo si aggiunte l’investimento mirato di gare come Summer of Code, festival
dedicati alla promozione e sviluppo dei propri servizi e, ultimo ma non meno
importante, sistemi di reclutamento eccezionalmente dinamici. Tra questi, si
trova anche il video-reclutamento, direttamente sulle pagine di
video.google.com, con interviste a dipendenti entusiasti e a Sergey Brin in
persona, tutti concordi nell’illustrare i privilegi del lavoro a Mountain View
(15).
Ambienti ibridi fra università e azienda
Date queste premesse, l’avvicinamento di Google all’Open
Source appare quanto mai strategico e interessato, per quanto senz’altro
originato da un comune sentire rispetto alle dinamiche cooperative tipiche
delle comunità di sviluppo Free Software, nate nell’humus accademico. La
strategia dell’accumulo evidenziata in precedenza è all’opera anche in questo
ambito: infatti Google si comporta come una sorta di buco nero che usa codici
aperti, o addirittura ne favorisce la stesura e li attira, per poi immetterli
nel proprio circuito. Ad esempio, nessuna delle modifiche che i programmatori
di Google hanno apportato agli strumenti aperti usati è mai stata resa
pubblica. In particolare il loro Google Web Server (GWS) è una versione
modificata di una versione di Apache, il server web Open Source più diffuso
nella Rete. Questo significa senz’altro sfruttare le potenzialità e le
realizzazioni del metodo di sviluppo aperto, senza però condividere le proprie implementazioni
e miglioramenti.
Un fattore di primaria importanza a proposito delle
relazioni con il mondo Open Source è che Google nasce a Stanford, un’università
nota per la sua capacità di generare start-up aggressive e competitive
basandosi su ricerche di elevato profilo. Per quanto Stanford fosse, e continui
a essere, un ambiente favorevole allo sviluppo di progetti Open Source, il
legame a doppio filo con il capitale di rischio rende difficile e anzi
impossibile proseguire sulla strada dell’eccellenza accademica una volta usciti
dal campus.
Un breve accenno alla ricerca accademica americana è
necessario per comprendere le origini di Google, tra l’Open Source e la ricerca
orientata al profitto. Infatti a livello più generale va sottolineato il
carattere accentratore dell’università statunitense a proposito di creazione intellettuale:
tutti i progetti sviluppati in campo accademico sono tendenzialmente copyright dell’università
che ha ospitato il gruppo di ricerca. Stanford non fa eccezione: del resto,
negli Stati Uniti le accademie sono storicamente legate al mondo degli affari,
e spesso sono vere e proprie imprese. I brevetti universitari sulle invenzioni
dei ricercatori fruttano royalties di tutto rispetto; inoltre conferiscono
prestigio ai centri di ricerca e agli studenti/ricercatori/imprenditori.
Le università sono ambienti ibridi, tra il pubblico e il
privato. Negli USA fino al 2002, almeno in teoria, i luoghi di ricerca pubblici
non potevano brevettare le loro invenzioni; lo stesso si dica per i laboratori
privati ma finanziati con fondi pubblici (quindi spesso anche le università).
Infatti il pagamento dei dazi ostacola la libera circolazione dei saperi nella
ricerca scientifica, la possibilità di riprodurre, verificare o falsificare i
risultati sperimentali. Questo in base all’Experimental Use Defense,
“protezione dell’uso sperimentale”, un principio che autorizza l’uso gratuito
di tecnologie brevettate nell’ambito della ricerca, introdotto nel 1813, e
abolito appunto nel 2002 con la sentenza a favore del ricercatore John Madey.
Madey ha citato in giudizio la Duke University, per cui lavorava, perché usava
un’apparecchiatura da lui brevettata per ricerche laser su elettroni liberi.
La Corte ha ritenuto che l’Experimental Use Defense fosse
stato concepito per proteggere lo scienziato dedito alla ricerca disinteressata
e libera, ma evidentemente nelle università questa attività non è più così
innocente e, anche nel caso non sia direttamente commerciale, può essere
considerata un “affare lecito” (legitimate business), poiché procura
finanziamenti e necessita di forza lavoro e di personale in formazione
(studenti). Cade così ogni distinzione fra la ricerca privata e quella pubblica
(16).
Naturalmente, tutti i progetti nati a Stanford sono
sottoposti a brevetto da parte dell’università, e questa commistione fra
incentivo ai progetti Open Source da una parte, e brevettabilità selvaggia dall’altra,
non giova certo all’ideale, né tanto meno alla pratica, della “ricerca” in sé,
tanto sbandierata come punto d’orgoglio e di forza di Google.
La questione del brevetto si fa ancora più interessante
se ricordiamo che il successo di Google si basa su un algoritmo ideato da Larry
Page, a partire dalla collaborazione con Sergey Brin, quando erano ricercatori
alla facoltà di Scienze Informatiche presso Stanford. L’algoritmo che ha rivoluzionato
l’indicizzazione della Rete è quindi di proprietà di Stanford, sottoposto a
regolare brevetto.
Note
1) La filosofia del Free Software: http://www.gnu.org/philosophy/philosophy.it.html
2) La definizione di Open Source: https://opensource.org/osd-annotated
3) Il sito della Open Source Initiative:
http://www.opensource.org/
4) Anche in articoli recenti, peraltro di buon livello,
bisogna notare questa confusione fra Free Software e Open Source, quasi che il
secondo fosse un miglioramento del primo in perfetta sintonia e continuità. Il
movimento fondato da Stallman ha senz’altro mostrato molti limiti concreti,
non solo nelle relazioni con il mercato ma anche nell’assunzione di posizioni
troppo ideologiche; tuttavia non ci sembra corretto tracciare linee evolutive
semplici quando il panorama è assai frastagliato e complesso. Si veda ad
esempio “Economia delle Reti Open Source: storia e dinamiche del movimento del
software libero”, http://www.pluto.it/files/journal/pj0601/economia_reti.html
5) La Free Software Foundation
in italiano: http://www.gnu.org/home.it.html
6) Si veda in proposito: Eric S. Raymond, La cattedrale e
il bazar, Apogeo, Milano, http://www.apogeonline.com/openpress/cathedral
7) La legge di Brooks secondo Eric S. Raymond:
http://www.apogeonline.com/openpress/libri/545/raymondb.html
8) Per una trattazione approfondita, rimandiamo a
Ippolita, Open non è free, http://www.ippolita.net/it/libro/open-non-%C3%A8-free
9) Si tratta di una legge matematica formulata alla fine
degli anni Settata da Robert Metcalfe, studente della Harvard University e poi
fondatore della società 3Com oltre che pioniere del networking (e inventore del
protocollo ethernet, ancora oggi fondamentale per le reti intranet). Ecco la
traduzione ad hoc del passaggio saliente: “Il valore di un network cresce
esponenzialmente del numero dei computer connessi al network stesso. Quindi,
ogni computer che si aggiunge al network da una parte utilizza le risorse di
questo (o le informazioni o le competenze) e dall’altra porta nuove risorse (o nuove
informazioni o competenze) al network, facendone incrementare il valore
intrinseco”. Da questo principio generale deriva che: 1) il numero di possibili
relazioni, o meta-relazioni, o connessioni all’interno di un network cresce esponenzialmente
rispetto alla crescita di computer collegato ad esso (di qui il valore
strategico dei link all’interno di una rete); 2) il valore di una comunità
cresce esponenzialmente rispetto alla crescita degli iscritti a questa comunità
(di qui il valore strategico delle comunità virtuali). Si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Metcalfe
10) In un contesto arretrato come quello italiano, in cui
le aziende, anche nel settore dell’IT, continuano ad applicare obsolete logiche
fordiste di produzione di massa, senza valorizzare minimamente le potenzialità
degli individui, potrebbe apparire sprezzante l’attacco nei confronti del
capitalismo dell’abbondanza alla Google. Ma come non crediamo nello sviluppo
sostenibile e nel consumismo responsabile promossi da un’abile propaganda
terzomondista, così non possiamo avallare nessuna forma di sfruttamento degli
individui, nemmeno quella di Googleplex, sottile e persino piacevole per i
lavoratori ormai diventati creativi entusiasti. Non si tratta di rigidità dogmatica,
ma di un minimo, comune buon senso (common decency): la missione ultima non è
la piena realizzazione delle persone, bensì il dispiegamento senza fine del
capitale, non importa se morbido o ferocemente repressivo. Richard Sennett l’ha
mostrato con lucidità e un’ampia ricognizione storica in “L’uomo flessibile. Le
conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale”, Feltrinelli, Milano, 1999, il cui titolo
originale è ben più icastico: “The Corrosion of Character”, La corrosione del
carattere. D’altra parte, il consumismo estremo del capitalismo dell’abbondanza
potrebbe costituire il primo passo verso un nuovo fascismo, come mostra la
lucida visione di J.G. Ballard nei recenti romanzi Millennium People
(Feltrinelli, Milano, 2004) e Regno a venire (Feltrinelli, Milano, 2006).
11) Summer of code è stato riproposto nell’aprile 2006
http://code.google.com/soc/: il successo è garantito.
12) XML, eXtensible Markup Language, è un linguaggio
estensibile realizzato per poter utilizzare in modo semplice i documenti
strutturati, studiato per il Web e per superare i limiti di HTML (HyperText
Markup Language), ma con possibilità di utilizzo in ambienti differenti. Sviluppato
dal W3C, il World Wide Web Consortium, XML è un sottoinsieme di SGML (Standard
Generalized Markup Language), uno standard internazionale che definisce le
regole per scrivere markup language; volutamente non comprende alcune
funzionalità complesse di SGML difficilmente implementabili su Web. La prima bozza di XML risale al
novembre 1996.
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