uno dei due è l'altro

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martedì 29 novembre 2016

La Macchina Celibe di Brian Eno e David Byrne: My Life in the Bush of Ghosts

Augusto Q. Bruni


Duchamp davanti al Grande Vetro


Non so a voi, ma a me in generale i comici veneti hanno sempre fatto molto ridere. C’è sempre un pretino apparentemente ingenuo e innocente dentro di loro. Oppure un politico di provincia pronto a vendersi altro che la mamma per gli schei. Anni fa ne ho visto in azione uno, poi diventato un attore serio e piuttosto bravo, al secolo Bobo Citran, che aveva inventato una gag assolutamente geniale. Magro e allampanato com’era, riusciva in qualche modo a far credere di essere diventato Michael Jackson in calzamaglia nera modello Diabolik

Ed eccolo che, appostato dietro le finestre di Al Bano in quel di Cellino San Marco, ascoltava col fiato sospeso il nostrano autore nazional-popolare arrabattarsi con le prime battute di quel brano che sarebbe diventato poi I Cigni di Balaka; Al Bano mugolava e si contorceva in preda a quello che potremmo chiamare spasmo creativo e alla fine veniva fuori la composizione che naturalmente tutti conosciamo... ovvero Will you be there, opportunamente canticchiata dal ladro-Jackson che si allontanava felicissimo del furto così abilmente perpetrato.

Ora, tanto per frenare il vostro istinto alla polemica partigiana dalla parte dell’uno o dell’altro, dirò subito che di tale polemica non so cosa farmene. Se una volta tanto si parlasse di musica senza paraocchi (specie quelli legali) potremmo scoprire che tutta la musica pop che esce oramai da qualunque fonte di comunicazione, è di una povertà musicale sconcertante.




La ragione è semplice, e sta nel fatto che essa si muove entro i confini angusti di un numero limitato di armonie, scale e armonizzazioni. Non solo si taglia fuori l’intero universo musicale che comincia dai quarti di tono in avanti, ma si tagliano fuori tutte le soluzioni armoniche che appartengono al blues, tanto per dirne una, e a tutti gli universi extra europei (per carità, non è roba nostra!).

Ricordo sempre con grande affetto la meritoria opera di decostruzione dei brani di Sanremo operata nella trasmissione post festival serale da parte di Elio e compagni. Per chi se la ricorda, quella trasmissione era assolutamente eversiva: mostrava, al di là di qualunque obiezione, che almeno tre quarti dei brani in lizza pescavano dentro le romanze dell’opera e dell’operetta ottocentesca, e che bastavano alcuni trucchi anche banali (come suonare il ritornello al contrario) e qualche sagace operazione di taglia-cuci-incolla per confezionare un brano ‘nuovo.

Alla fine l’equazione è semplice: universo musicale limitato uguale possibilità di sovrapposizione altissime, laddove per sovrapposizione intendo tutti i casi di incontro/sovrapposizione di brani, che questo avvenga in modo doloso o invece (e sono i più) in modo assolutamente involontario. Da quando è nata la musica pop questa è una costante, e non è possibile che avvenga altrimenti. Il pop implode su se stesso.All’interno del pop, sia ben chiaro, includo anche tutta quella enorme fetta di musica rock che ha completamente abbandonato le proprie radici blues, e che pesca altrettanto indiscriminatamente dovunque gli capiti di trovare una qualche idea, basta che non disturbi le orecchie degli ascoltatori. Il limite della decenza sta nel remake dichiarato apertamente: succede a Gwen Stefani che canta la versione pop e femminile di If I Were a Rich Man, l’aria di Tewye il lattaio dal musical ebraico Il violinista sul tetto (The fiddler on the roof)diventata ovviamente If I Were a Rich Girl; succede nel mondo del cinema dove i tempi del remake si sono accorciati e si viaggia intorno ai 10/15 anni. In entrambi i casi siamo di fronte a un fenomeno evidente di asfissia: in mancanza di idee originali si cerca di fare meglio ciò che è già stato fatto, con una nuova veste piena di trucchi digitalizzati, dal suono all’effetto speciale.

L’altro lato della medaglia è invece la crescente disponibilità di informazioni musicali e non musicali messe a disposizione della civiltà occidentale a opera da un lato dei crescenti flussi migratori Sud-Nord del mondo, dall’altro dall’esplosione del fenomeno radiofonico su onde corte in tutto quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. Sotto questo aspetto sono le colonie a invadere, stavolta, i colonizzatori.




In Italia non abbiamo avuto coscienza di questo fenomeno sino a pochi anni fa, mentre basta andare a guardare con attenzione come circolava la musica nel mondo di lingua inglese già alla fine degli anni ‘60 per capire quanto fosse sconvolgente il vento musicale che spirava dal Sud del mondo: nel film Quadrophenia di Frank Roddam (1979), nato dall’omonimo album del ‘73 degli Who, si parlava filologicamente dell’Inghilterra proletaria della metà degli anni ‘60, e in una scena ambientata in un quartieraccio di giamaicani usciva, dalle finestre del primo piano, la musica di Bob Marley. Quella stessa che sarebbe diventata popolarissima in Italia ma solo nella prima metà degli anni ‘80. 

Girare per l’etere, così come girare per l’Europa, a inizio degli anni ‘80, portava chiunque avesse orecchie aperte a incontrarsi con centinaia di materiali musicali sorprendenti e stimolanti. Ma, e questo è il punto, se non ci fosse stata alla base una ricerca etnomusicologica consapevole, l’ascoltatore casuale si sarebbe trovato di fronte a materiale altrettanto casuale, un po’ come gli objets trouvés di Marcel Duchamp, che utilizzava per la sua arte oggetti normalmente non considerati materiali artistici, spesso modificati e decontestualizzati e ricontestualizzati.

Di fatto questo è quello che è successo a diversi musicisti occidentali, tra i quali un pioniere è stato sicuramente Holger Czukay, che alla fine degli anni ‘70 aveva rinunciato a suonare il basso proprio nei Can e aveva intrapreso una sua strada solista. Nei suoi nuovi percorsi sul palco utilizzava radio a onde corte, dittafoni e materiali ‘impropri’ per giocare ai found sounds, ai ‘suoni trovati’ per caso, e senza troppa timidezza ha affermato anni dopo (e a buon titolo) di essere stato lui l’inventore del sampling, ovvero il campionamento dei suoni, con il brano Boat Women Song dal leggendario e seminale album Canaxis, del 1968 (!), composto con Rolf Dammers.

In questo caso si tratta di un brano di ben 17:28, in cui le tastiere sono dei due tedeschi mentre le voci sono attribuite a “due cantanti tradizionali sconosciute dal Vietnam”. Appropriazione    di materiale apparentemente trovato per caso. Lo stesso avviene coi suoni, nuovi e inediti. Un altro membro dei Can, il chitarrista Michael Karoli, cominciò a usare un suono di chitarra piuttosto pulito e inedito in Occidente, almeno per chi non avesse mai ascoltato musica africana moderna.

Fatto è che la moglie di Karoli, Shirley, era per metà keniana ed egli stesso aveva trascorso un bel po‘ di tempo in Kenya apprendendo il suono pulito della chitarra africana. Ma questo suono – e lo stile che ne era nato – aveva avuto origine in Congo, quando i colonialisti belgi avevano vietato l’uso dello strumento chiamato M’bira (definito anche Sansa o Kalimba) perché era stato usato per accompagnare le canzoni che protestavano contro il dominio coloniale. Naturalmente i musicisti avevano subito trovato altri mezzi per continuare a suonare quello che volevano, e uno di questi era la chitarra non distorta, che riusciva in qualche modo a riprodurre suono e stile della M’bira... le onde sonore non si riescono a fermare, sono come i virus trasportati dagli uccelli migratori.





Ora, per continuare con il paragone, se questi virus musicali avessero determinato delle mutazioni negli organismi colpiti, nulla quaestio. Saremmo di fronte a un fenomeno naturale e in qualche maniera inevitabile, e talvolta anche estremamente positivo perché determinerebbe un arricchimento della biodiversità in campo musicale. Di fatto però le cose non sono andate esattamente così, specie se andiamo a esaminare l’album più significativo di tutti i maledetti anni ‘80, che forma l’oggetto di questo articolo.

Già nel suo titolo, copiato impunemente da quello di un romanzo del premio Nobel nigeriano Amos Tutuola (non mi risulta che qualcuno abbia protestato per l’appropriazione), l’album My Life in the Bush of Ghosts mostra in pieno l’attitudine all’utilizzo artistico degli objets trouvés in campo musicale. In altri termini la mia tesi è questa: David Byrne e Brian Eno hanno costruito tutti i brani di questo album come altrettante macchine celibi. E le emozioni che scaturiscono dai brani stessi non hanno alcuna reale connessione con i significati veicolati da tutte le sorgenti sonore campionate. 

Si prendano a esempio alcune tracce che a me, personalmente, suonano come satire, per nulla velate: lo slogan patriottico e abbastanza militarista America Is Waiting suona come il manifesto negativo proprio del patriottismo e del militarismo – anche se ironicamente provvisto di una fantastica sezione ritmica, una pista da ballo per sciamani. Il trucco di Help Me Somebody è quello di trasformare un predicatore evangelico e radicale bianco nella sua nemesi, un cantante nero di rhythm and blues. The Jezebel Spirit, che ha di nuovo come protagonista un predicatore evangelista folle, oggigiorno è assimilabile a una delle tante telefonate fatte per gioco a un utente inconsapevole in una qualsiasi trasmissione radio o televisiva.

Di fatto, prima di trovare un significato profondo ai suoni e alle voci campionate, avremmo bisogno di ricontestualizzarle, rimetterle cioè dentro il contesto socio-culturale da cui esse provengono. Nel modo in cui ci vengono proposte, invece, ci spiazzano sempre e comunque e – per somma ironia – esse sono dentro un contenitore che non è tale: di fatto nessuno dei brani è una vera e propria canzone. Avendole estratte dal proprio contesto (una tipica operazione postmoderna e situazionista), discorsi e parole anonime possono avere nuova vita come un metatesto ante litteram, e contemporaneamente rimandano alla loro esistenza come frammenti sonori sparsi nell’etere, destinati ad avere mille possibili esistenze in relazione alle mille possibili orecchie che li captano nel loro flottare infinito.

Tutti gli anni ‘80 sono stati governati da molte paure, alcune esplicite altre più nascoste. Una di queste è stata la possibile perdita di senso della propria cultura, una volta messa in marcia l’esplosione della comunicazione che sarebbe definitivamente deflagrata all’alba della nascita di Internet dieci anni dopo. Sotto sotto potete vedere tutto l’album come una sorta di esorcismo al contrario, cioè come una dichiarazione di apertura e non di chiusura verso mille mondi possibili. 





Oggigiorno non esiste quasi più l’ignoto geografico e per certi versi anche quello etnografico ed etno-musicologico. E ci siamo via via venuti abituando a ogni tipo di appropriazione etnografica completamente decontestualizzata: un buon esempio sono i tatuaggi ‘tribali’ che ricoprono l’epidermide di decine di migliaia di occidentali, completamente slegati da ogni realtà religiosa spirituale e culturale originaria per divenire puro segno grafico ‘esotico’

Un quarto di secolo fa, con un pianeta più piccolo e arroccato sulle proprie identità, con gli scudi spaziali pronti a ripararci, un’azione come quella di questo album si ricopriva di valenze enormi. L’ignoto è portato in casa, e il vostro piatto musicale di oggi può prevedere – anche se lo ascoltate dal vostro tinello di Cinisello Balsamo – un sermone country della Louisiana in salsa da savana nella già citata Help Me Somebody, un gruppo gospel delle stesse zone con Moonlight in Glory, che vira verso una sorta di cajun mutante, in parallelo alle spinte da brivido di qualche voodoo palustre di Come with Us

Chiediamoci: dov’è il significato profondo del canto libanese del nord di Dunya Yusin – in Regiment, marcia ipnotica da quasi zombi mediorientale sparato nello spazio –; dov’è quello dell’altrettanto sbalorditiva sospensione oltre lo spazio e il tempo che è The Carrier, e infine dove il senso nella melopea egiziana di Samira Tawfik, perso tra le dune infinite di A Secret Life

Distinguiamo ancora un politico incalzato e messo al muro nel rimbalzare frenetico di domande, punteggiato da una cascata di percussioni, nella lugubre Mea Culpa, ma qual è il senso di tale espressione linguistica se non possiamo vedere il contesto televisivo in cui il dialogo si manifesta?

Sorge dunque legittimamente il sospetto che l’ingenuità da serendipity talvolta sbandierata da Eno e Byrne abbia invece dietro uno studio consapevole e lucidissimo sul dove e il quando. E lo zoccolo duro dell’operazione, che abbatte di colpo qualunque problematica di copyright (la linea melodica dei brani non è tale da costituire una canzone), viene invece da individuarlo in ciò che non fu possibile portare subito a compimento, cioè la naturale evoluzione dell’album Remain in Light dei Talking Heads (1), uno degli snodi fondamentali dell’evoluzione sonora del rock in tutta la sua esistenza.




Già in questo album un orecchio attento poteva cogliere immediatamente un’operazione di stratificazione ritmica di marca africana con le sonorità più nuove dell’elettronica, mescolate al chitarrismo ipnotico africano di musicisti come King Sunny Adé: il tutto frullato debitamente in salsa funk. Come osserva giustamente Scaruffi

“[...] c’è molto più che una semplice revisione di Remain in Light. Mentre [questo] era ancora intrattenimento, Bush of Ghosts è filosofia. Questo non è un album di musica, è una tesi universitaria sul ritmo. Il crescendo minimalista di Jezebel Spirit compendia In C di Terry Riley e Music for Mallet Instruments di Steve Reich. Attraverso reiterati riffs sincopati e libere percussioni poliritmiche in un fitto mix di eventi sonici, America Is Waiting decostruisce l’edonismo funk. In Mea Culpa, un fuoco di fila di mantra e un delirio di percussioni africane mantengono la chitarra distante e irreale. Help Me Somebody stende un sermone gospel su di un funk tribale ed effetti da giungla. Il campionamento vocale è modulato e ripetuto per far scaturire una qualità musicale dalla dizione enfatica. Allo stesso tempo, quella di Eno e di Byrne è una musica di destabilizzazione: i suoni ordinari perdono il loro significato e hanno bisogno di trovare nuovi ruoli. La musica del ‘quarto mondo’ di Jon Hassell sprizza fuori da tutti i pezzi, ma mai così apertamente come in A Secret Life, dove la sua sognante ed evocativa tromba viene rimpiazzata da una voce campionata. Byrne e Eno s’avventurano persino oltre le loro premesse con Come with Usun pastiche astratto di battiti, distorsioni e riverberi, e con Mountain of Needles, la funerea conclusione dell’album” (2).

La riedizione dell’album nel marzo 2006 ha portato con sé alcune novità. La prima è nel numero di brani aggiunti, che non si distaccano dai precedenti per novità sonore o linguistiche. La seconda e più importante è il fatto che l’etichetta Nonesuch ha lanciato un sito internet destinato alla pratica ormai affermata del ‘remix’: http://www.bush-of-ghosts.com/ dove chiunque può scaricare versioni multi-traccia di due canzoni dell’album, caricarle in un programma di editing qualsivoglia e farne, letteralmente, ciò che più gli aggrada sotto licenza Creative Commons




All’apparenza potrebbe sembrare l’ennesimo sito per aspiranti remixer, una categoria oramai inflazionata (l’ha fatto anche Bjork, e il suo tablista Talvin Singh vi mette a disposizione alcuni dei suoi molteplici tala da remixare). Ma potrei sbagliarmi; non ho provato a presentare il mio mash-up di Qu’ran e – mettiamo – Piemontesina Bella. Ciò che conta è che sia stata messa una bella pietra da fondamenta per le licenze Creative Commons, Web 2.0 e nuove uscite discografiche.

Consegnando le loro multi-traccia, Byrne e Eno fanno anche un potente riconoscimento del limite intrinseco che ebbe e ancora ha l’album in oggetto. È un fatto essenziale ma reale del nostro tempo che il campionamento sia un’arma a doppio taglio. Negli anni ‘80 ci furono polemiche velenose e terzomondiste che diffamarono Byrne e Eno, facendone né più né meno dei bianchi colonialisti che si appropriavano delle culture del Terzo Mondo senza mettere fuori una lira. Ora il mondo può restituire il favore: chiunque può strappare brandelli di questo lavoro e utilizzarli in qualsiasi modo a suo piacimento, e si può scommettere che se un ragazzino nel Terzo Mondo invia un remix micidiale per un blogger furbo, questi lo farà viaggiare più velocemente e più efficacemente di questa ristampa 2006 patinata. 

Byrne e Eno contavano su una certa quantità di serendipity nella loro operazione; oggi, possono testimoniare la serendipità di ciò che accade al ritmo assassino delle loro tracce, sia quelle che hanno regalato sia quelle di cui comunque la gente vorrà appropriarsi. E il messaggio più forte che potevano inviare non è solo che hanno ceduto il controllo sul loro materiale, ma che ammettono già di averlo perso, che lo vogliano o no.
 










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