uno dei due è l'altro

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sabato 4 luglio 2020

Rainer Maria Rilke - Prima Elegia duinese

 




Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie duinesi rappresentano la summa conclusiva della riflessione di Rilke: nascono da una problematica esistenziale individuale (l'inconsistenza della vita, l'inattendibilità dei sentimenti) e tendono ad una soluzione ancora più radicalmente individuale: la poesia come unica soluzione del problema vitale.
Rilke si fa qui testimone della crisi della cultura borghese del novecento, sullo sfondo della violenta rottura di generi e schemi operata dall'espressionismo. I suoi temi sono  la denuncia   della morte di Dio (Nietzsche), l'individualismo, la psicanalisi, la condanna degli aspetti disumanizzanti della tecnica e del mercantilismo.
In definitiva, una lirica potente, rigorosa e affascinante come poche altre nel novecento, che dal più profondo dell'animo e delle umane cose volge uno sguardo coraggioso, virile e commosso verso l'enigma del cielo.



 


Prima Elegia

Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza piú forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora
lo ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.
E cosí mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi
lo soffoco in gola. Ah, di chi mai
ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,
e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo
interpretato,
non diamo affidamento. Ci resta, forse,
un albero, là sul pendio,
da rivedere ogni giorno;
ci resta la strada di ieri,
e la fedeltà viziata d'un'abitudine
che si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento pregno di
cosmico spazio
ci smangia la faccia -, a chi non resterebbe la sospirata,
che soavemente delude, e che incombe pesante al cuore
solitario? Che sia forse piú lieve agli amanti?
Ah, loro, se la nascondono soltanto, un con l'altro, la
loro sorte.
Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto
agli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
nell'aria piú vasta, voleranno piú intimi voli.





Si, certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche
stella
s'aspettava che tu la rintracciassi. Montava
un’onda dal passato, in qua, o
mentre tu passavi sotto una finestra aperta
si donava un violino. Tutto questo era cómpito.
Ma lo reggevi tu? Cosí sempre distratto d'attesa,
come se tutto t'annunciasse un'amata? (E dove la
vorresti rifugiare se i grandi, strani pensieri
in te vengono e vanno
  e spesso si stanno, la notte?)
Ma se ti struggi cosí, canta le innamorate. Certo,
non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento
famoso.
Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti
parvero tanto piú amanti delle placate. Riprendila
sempre l'irraggiungibile celebrazione;
pensa: l'eroe perdura, financo la morte per lui
fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma l'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta Natura
come se non ci fossero forze due volte,
per compiere questo. Hai cantato abbastanza
di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui sfugga l'amato, all'esempio esaltato
di questa innamorata, senta: posso essere anch'io
come lei?
Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar piú fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall'essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.





Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come soltanto i Santi
ascoltarono un giorno: il grande richiamo
li alzava dal suolo; ma essi, impossibili,
restavano assorti in ginocchio:
cosí ascoltavano. Non che tu possa mai reggere
la voce di Dio. Ma lo spiro ascolta,
l'ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea.
Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te.
Dove entrassi tu mai nelle chiese
di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro
Destino?
O ti si imponeva una scritta, sublime,
come ieri la lapide in Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve,
quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta,
il moto puro dei loro spiriti.





Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. - Ma i vivi errano, tutti,
ché troppo netto distinguono.
Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno
se vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
sempre trascina con sé per i due regni ogni età,
e in entrambi la voce più forte è la sua.





Infine, non han più bisogno di noi quelli che presto la
morte rapî,
ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di si grandi misteri, - quante volte da lutto
sboccia un progresso beato - : potremmo mai essere,
noi, senza i morti?
Sarebbe vano il mito, che un giorno, nel compianto di
Lino
la prima musica, ardita, pervase arida rigidezza,
e che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi
divino
ad un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in
quella
vibrazione che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.





Elegie Duinesi, Giulio Einaudi Editore, 1978 Torino
Traduzione di Enrico e Igea de Portu





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