Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie duinesi rappresentano la summa conclusiva della riflessione di Rilke: nascono da una problematica esistenziale individuale (l'inconsistenza della vita, l'inattendibilità dei sentimenti) e tendono ad una soluzione ancora più radicalmente individuale: la poesia come unica soluzione del problema vitale.
Rilke si fa qui testimone della crisi della cultura borghese del novecento, sullo sfondo della violenta rottura di generi e schemi operata dall'espressionismo. I suoi temi sono la denuncia della morte di Dio (Nietzsche), l'individualismo, la psicanalisi, la condanna degli aspetti disumanizzanti della tecnica e del mercantilismo.
In definitiva, una lirica potente, rigorosa e affascinante come poche altre nel novecento, che dal più profondo dell'animo e delle umane cose volge uno sguardo coraggioso, virile e commosso verso l'enigma del cielo.
In definitiva, una lirica potente, rigorosa e affascinante come poche altre nel novecento, che dal più profondo dell'animo e delle umane cose volge uno sguardo coraggioso, virile e commosso verso l'enigma del cielo.
Prima
Elegia
Ma
chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli
Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi
stringesse al suo cuore: la sua essenza piú forte
mi
farebbe morire. Perché il bello non è
che
il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora
lo
ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna
distruggerci.
Degli Angeli ciascuno è tremendo.
E
cosí mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi
lo
soffoco in gola. Ah, di chi mai
ci
possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,
e
i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo
interpretato,
non
diamo affidamento. Ci resta, forse,
un
albero, là sul pendio,
da
rivedere ogni giorno;
ci
resta la strada di ieri,
e
la fedeltà viziata d'un'abitudine
che
si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte,
quando il vento pregno di
cosmico
spazio
ci
smangia la faccia -, a chi non resterebbe la sospirata,
che
soavemente delude, e che incombe pesante al cuore
solitario?
Che sia forse piú lieve agli amanti?
Ah,
loro, se la nascondono soltanto, un con l'altro, la
loro
sorte.
Non lo sai ancora? Getta dalle
tue braccia il vuoto
agli
spazi che respiriamo; forse gli uccelli
nell'aria
piú vasta, voleranno piú intimi voli.
Si,
certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche
stella
s'aspettava
che tu la rintracciassi. Montava
un’onda
dal passato, in qua, o
mentre
tu passavi sotto una finestra aperta
si
donava un violino. Tutto questo era cómpito.
Ma
lo reggevi tu? Cosí sempre distratto d'attesa,
come
se tutto t'annunciasse un'amata? (E dove la
vorresti
rifugiare se i grandi, strani pensieri
in
te vengono e vanno
e spesso si stanno, la notte?)
Ma
se ti struggi cosí, canta le innamorate. Certo,
non
è ancora abbastanza immortale il loro sentimento
famoso.
Canta
di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti
parvero
tanto piú amanti delle placate. Riprendila
sempre
l'irraggiungibile celebrazione;
pensa:
l'eroe perdura, financo la morte per lui
fu
soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma
l'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta Natura
come
se non ci fossero forze due volte,
per
compiere questo. Hai cantato abbastanza
di
Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui
sfugga l'amato, all'esempio esaltato
di
questa innamorata, senta: posso essere anch'io
come
lei?
Tanto
antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar
piú fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci
liberiamo dall'essere amato, lo reggiamo fremendo:
come
la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per
superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.
Voci,
voci. Ascolta, mio cuore, come soltanto i Santi
ascoltarono
un giorno: il grande richiamo
li
alzava dal suolo; ma essi, impossibili,
restavano
assorti in ginocchio:
cosí
ascoltavano. Non che tu possa mai reggere
la
voce di Dio. Ma lo spiro ascolta,
l'ininterrotto
messaggio che dal silenzio si crea.
Ecco
fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te.
Dove
entrassi tu mai nelle chiese
di
Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro
Destino?
O
ti si imponeva una scritta, sublime,
come
ieri la lapide in Santa Maria Formosa.
Che
vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve,
quella
parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta,
il
moto puro dei loro spiriti.
Certo
è strano non abitare più sulla terra,
non
più seguir costumi appena appresi,
alle
rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non
dar significanza di futuro umano;
quel
che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non
esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo,
come un balocco rotto.
Strano
non desiderare quel che desideravi. Strano
quel
che era collegato da rapporto
vederlo
fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser
morti;
quanto
da riprendere per rintracciare a poco a poco
un
po’ d’eternità. - Ma i vivi errano, tutti,
ché
troppo netto distinguono.
Si
dice che gli Angeli, spesso, non sanno
se
vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
sempre
trascina con sé per i due regni ogni età,
e
in entrambi la voce più forte è la sua.
Infine,
non han più bisogno di noi quelli che presto la
morte
rapî,
ci
si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come
dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di
si grandi misteri, - quante volte da lutto
sboccia
un progresso beato - : potremmo mai essere,
noi,
senza i morti?
Sarebbe
vano il mito, che un giorno, nel compianto di
Lino
la
prima musica, ardita, pervase arida rigidezza,
e
che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi
divino
ad
un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in
quella
vibrazione
che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.
Elegie Duinesi, Giulio Einaudi Editore, 1978 Torino
Traduzione di Enrico e Igea de Portu
Nessun commento:
Posta un commento