Contro chi per tagliare l'afferra
può vantarsi la scure?
o la sega di chi la muove può burlarsi?
Come se un bastone
volesse brandire chi lo impugna
e una verga sollevare
ciò che non è legno!*
Tratto
dallo splendido
Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano
di
Sebastiano Isaia
che è possibile acquistare o scaricare in formato pdf qui.
Nell’ultimo
prodotto editoriale di successo, la coppia Hardt-Negri ritorna a
maltrattare indegnamente un concetto marxiano di grande significato
teorico e politico: il General Intellect (1).
Il loro nuovo best seller s’intitola Comune. Oltre il privato e il
pubblico, ed esce in Italia sotto gli auspici del grande successo
ottenuto negli Stati Uniti, non ultimo anche in grazia della crisi
economica che ancora travaglia
il Paese del Presidente «abbronzato».
il Paese del Presidente «abbronzato».
Scrive
Carlo Formenti: «Il dilemma da cui Negri e soci non riescono a
districarsi è se sia oggi possibile tracciare un confine fra ciò
che sta fuori e ciò che sta dentro il rapporto di sfruttamento
capitalistico. La loro risposta è – più che ambigua –
paradossale, nel senso che è, al tempo stesso, negativa e positiva.
Da un lato, si dice che nulla ormai può esistere al di fuori del
capitale, coerentemente con l’assunto in base al quale la totalità
delle relazioni umane viene sussunta nel processo di valorizzazione
capitalistico; al tempo stesso si afferma che tutta la produzione
sociale – in quanto produzione biopolitica di soggettività – è
esterna al capitale e si auto-organizza attraverso forme di
cooperazione spontanee e autonome. In altre parole: il biopotere,
inteso come potere sulla vita, e la biopolitica, intesa come potere
della vita coesistono
in un unico piano di immanenza» (2).
in un unico piano di immanenza» (2).
La
critica di Formenti mi appare ben fondata e condivisibile, salvo che
per alcuni aspetti, peraltro tutt’altro che secondari, che qui però
non prendo in considerazione. Ma che significato occorre dare al
concetto di Comune? Perché lo Scienziato Politico tanto celebrato
dai media che contano scomoda un termine così ambiguo ed equivoco?
«Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti»:
questa risposta di sconvolgente ingenuità e di abissale indigenza
teorico- politica si trova in una recensione del libro Il saccheggio
(di Ugo Mattei e Laura Nader) firmata da Negri e apparsa sul
Manifesto del 4 maggio 2010 con questo significativo titolo: Quel
diritto politico
di saccheggiare i beni comuni.
di saccheggiare i beni comuni.
La
mia tesi – fuori moda, lo ammetto – è che, invece, non esiste
alcun Bene Comune, giacché tutto quello che esiste sotto il vasto
cielo della società capitalistica mondiale (o «globale»)
appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al
Capitale, privato o pubblico che sia. Il Capitale non si appropria
arbitrariamente il Comune, non lo «privatizza», ma estende
piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose
in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero
spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale
riserva di caccia. Questa mostruosa vitalità espansiva – in
termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi – rappresenta il
tratto più significativo e «rivoluzionario» (vedi Marx e
Schumpeter) del Capitalismo.
Il
lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello
produttivo di «plusvalore» e quello produttivo di solo «profitto»
o di sola «rendita»), la scienza, la tecnologia, l’arte, la
cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza
necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi
esprimono e riproducono sempre di nuovo il rapporto sociale dominante
in questa epoca storica. È precisamente questo rapporto sociale di
dominio e di sfruttamento che riempie di contenuti una «categoria
economica antidiluviana» (Marx) come quella di proprietà (privata,
statale, collettiva), e il concetto giuridico a essa correlata. «La
proprietà di capitale presenta la prerogativa di esercitare un
comando sul lavoro degli altri» (3):
questa è la forma peculiare della proprietà – qui intesa sia come
qualità, sia come categoria economico-giuridica – capitalistica,
la quale si regge, fondamentalmente, non sul possesso di cose
materiali (la proprietà nell’accezione «sordidamente economica»),
ma su un rapporto sociale (la proprietà come qualità immateriale),
sul cui fondamento prende corpo
la società-mondo che conosciamo.
la società-mondo che conosciamo.
Per
gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al
Capitalismo di Stato (la cui forma «sovietica» diventò celebre
sotto il giustamente famigerato nome di «socialismo reale»),
persino il Comune di Negri può apparire quanto di più «sovversivo»
e «radicale» si possa trovare sul mercato delle ideologie, ossia un
«Manifesto del Partito Comunista, versione 2.0», per dirla col
prestigioso Wall Street Journal. Nientemeno! Il successo di Negri si
spiega, tra l’altro, con la sua capacità di creare nella
«Moltitudine» (a dire il vero, una «moltitudine» assai elitaria,
e persino «radical chic») l’illusione, che aspetta solo di venir
frustrata – cosa che peraltro accade puntualmente –, di
rappresentare una potenza sociale, «qui e ora». Sentirsi sempre al
centro del Mondo, eternamente motori delle trasformazioni sociali,
avanguardie for ever: ecco ciò che promette l’articolo ideologico
venduto dal Nostro. Quando poi i clienti capiscono (ed è già un
miracolo) di essere stati piuttosto alla retroguardia del reale
processo sociale, saranno già trascorsi almeno venti anni.
Il
nebuloso concetto di «Bene Comune» sembra essere stato fabbricato
apposta per avvolgere in una spessa coltre fumogena concetti
scottanti e scabrosi quali quelli di violenza, di rivoluzione, di
potere politico e così via; forse anche perché in passato l’ex
teorico dell’Autonomia Operaia non ha mostrato di saperli
padroneggiare bene, questi concetti, né sul piano teorico né su
quello pratico. È anche in questa fumisteria ideologica, che fa
passare come profondo il vuoto, la vuota profondità di un pensiero
solo apparentemente critico, che probabilmente occorre individuare
la causa non meno importante della sua «fascinazione».
la causa non meno importante della sua «fascinazione».
Scrivono
Negri e Hardt: «Una volta che si è adottato il punto di vista del
comune le categorie fondamentali dell’economia devono essere
ripensate. In questo nuovo contesto, ad esempio, la valorizzazione e
l’accumulazione si declinano in una dimensionesociale anziché in
una dimensione strettamente privatistica e individualistica. Il
comune si costituisce ed è messo al lavoro da un’ampia e aperta
rete sociale» (4). Una
perla tutt’altro che originale,
nell’ambito della riflessione negriana.
nell’ambito della riflessione negriana.
Ora, che la dimensione sociale della valorizzazione e dell’accumulazione è per Marx un punto di vista assolutamente certo e dirimente, per chiunque abbia dimestichezza con le sue opere cosiddette economiche è qualcosa che suona ovvia e persino banale, e desta davvero meraviglia che uno Scienziato della fatta del Nostro non se ne sia accorto, o che non lo abbia capito: possibile? Basta leggere soltanto la «Prima sezione. La conversione del plusvalore in profitto» e la «Seconda sezione. La conversione del profitto in profitto medio» del Libro Terzo del Capitale per capire di cosa parlo. Una sola citazione: «Ciò che in tal guisa [ossia con lo sviluppo della produttività sociale] torna a beneficio del capitalista rappresenta dal suo canto un guadagno che è il risultato del lavoro sociale, anche se non degli operai direttamente sfruttati dal capitalista stesso. Quello sviluppo della forza produttiva è dovuto in ogni caso al carattere sociale del lavoro messo in
opera,
alla divisione del lavoro all’interno della società, allo sviluppo
del lavoro intellettuale, innanzi tutto alle scienze naturali. Il
capitalista trae vantaggio dai risultati del sistema della divisione
sociale nel suo complesso» (5).
In poche parole, Negri chiama Comune ciò che l’uomo di Treviri
chiamava Capitalismo (6).
«Ricordate
la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa
forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto
questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di
produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi
prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» (7).
Siamo
andati oltre il Capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo
umilmente venia! Il fatto è che, essendo ancora impigliato nella
barba del Grande Vecchio, pensavo che l’invenzione non fosse che
«capitale costante», un formidabile strumento capitalistico di
dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo (dell’individuo
tout court, e non solo del «capitale variabile»: oltre a produrre
valore, consumiamo valore). E invece siamo finiti – sia resa lode
alla Santa Astuzia della Storia! – nel Regno della libertà e
dell’immaginazione. Il Sessantotto ha vinto, dunque?
Non
saprei, ma intanto cito Marx: «L’accumulazione della scienza e
dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello
sociale, rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e
si presenta perciò come una proprietà del capitale, e segnatamente
del capitale fisso. [...] In quanto poi le macchine si sviluppano con
l’accumulazione della scienza sociale, della produttività in
generale, non è nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il
lavoro generalmente sociale. [...] La scienza si presenta, nelle
macchine, come una scienza altrui, esterna all’operaio» (8).
Penso che soprattutto nella Società-Mondo del XXI secolo,
nell’epoca della sottomissione totalitaria (e non semplicemente
«reale», come scriveva Marx ai suoi tempi) degli individui alle
molteplici e sempre più rapidamente mutevoli esigenze del Capitale,
quei concetti vadano estesi all’intera dimensione del Sociale.
Il
«sapere sociale generale» da un lato concorre a rendere più
produttivo il lavoro vivo consumato nel processo industriale, e
dall’altro espande bisogni e desideri che per venir soddisfatti
necessitano di merci «reali» e «virtuali». Esso perciò espande
potentemente il dominio del capitale in forma diretta e indiretta,
nella sfera della produzione come in quella della circolazione e dei
servizi in generale (e del servizio scienza in particolare). Andare
oltre ogni limite è l’assoluto imperativo categorico che frulla
nella testa del Capitale. «Lo sviluppo del capitale fisso mostra
fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è
diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del
processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo
del general intellect e rimodellate in conformità ad esso» (9).
Dopo
la perla, il... «marxista critico»: «Poiché ha trascurato la
dimensione sociale dell’ ”intelletto generale”, Marx mancò di
immaginare la possibilità della privatizzazione dell’ ”intelletto
generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della
battaglia intorno alla
“proprietà intellettuale”.
Negri ha ragione su questo punto» (10).
Negri ha ragione su questo punto» (10).
Ora, abbiamo appena visto come Marx non solo non abbia
trascurato minimamente la dimensione sociale del general intellect,
ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno
di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di
vista di Marx è eminentemente sociale e mondiale, perché sociale e
mondiale è la dimensione del capitale, già nella sua genesi storica.
La
profittabilità (ciò che Žižek chiama, un po’ volgarmente,
«privatizzazione») dell’intero universo è il respiro
economico-sociale immanente al concetto di capitale, e Marx questo lo
ha capito benissimo e ne ha scritto continuamente. Certo, non ha
parlato della «battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”»,
e questo, occorre riconoscerlo, è una grave mancanza teorica. Può
essere un attenuante per il barbuto di Treviri il fatto che ai suoi
tempi il web e tecnologie analoghe non fossero state ancora
inventate? La questione rimane aperta. Intanto ci tocca leggere perle
ideologiche di questo tipo: «Il capitale non solo è divenuto
dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una
mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme delle
conoscenze
e dei tempi di vita dei salariati» (11).
e dei tempi di vita dei salariati» (11).
Un
capolavoro di “simildialettica” hegeliana, non c’è dubbio. Il
servo, in virtù della sua prassi ricca di esperienze e di conoscenze
acquisite attraverso la concreta trasformazione della natura,
attraverso il lavoro, riesce in qualche modo ad avere la meglio,
almeno sul piano etico, sul suo padrone, incapace di vera
soggettività e dipendente dal servo per ciò che riguarda la sua
stessa esistenza quotidiana. Ma ovviamente le cose stanno esattamente
al contrario, perché soprattutto nel «Capitalismo cognitivo» il
soggetto della prassi economica è il Capitale, mentre i salariati ne
sono gli oggetti, e tanto più credono di dettare le leggi al primo,
quanto più essi testimoniano la loro impotenza sociale. Sul terreno
del general intellect il «velo tecnologico» gioca davvero brutti
scherzi, e anche le menti più fertili non si accorgono che «La
razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del
dominio» (12).
Rimane
il fatto che la lettura completamente fuori luogo del general
intellect porta ad esempio Žižek a scrivere insulsaggini di portata
davvero eccezionale, come la seguente: «Marx è rimasto all’interno
dei confini della “prima modernizzazione”, la quale mirava a
stabilire una società autotrasparente regolata dall’”intelletto
collettivo”; non ci si dovrebbe sorprendere che questo progetto
abbia trovato una sua realizzazione perversa nel Socialismo reale, il
quale – a prescindere dall’incertezza estrema in cui si trovava a
vivere un individuo ai tempi delle purghe politiche – ha forse
rappresentato il tentativo più radicale di sospendere l’incertezza
propria della modernizzazione capitalista. [...] Sebbene la vita
fosse misera e grigia,
non occorreva preoccuparsi per il futuro:
l’esistenza modesta di ciascuno era garantita» (13).
non occorreva preoccuparsi per il futuro:
l’esistenza modesta di ciascuno era garantita» (13).
È
proprio vero, la prima volta come tragedia (lo stalinismo), la
seconda come farsa (gli orfani, più o meno «critici», dello
stalinismo, i teorici del «si stava meglio quando si stava peggio»).
In primo luogo, in quanto «forza produttiva immediata» il general
intellect è tutto interno al Capitale, è anzi l’intelligenza del
Capitale (14), è
Capitale tout court: «La scienza come prodotto intellettuale
generale dell’evoluzione sociale appare essa stessa come
direttamente incorporata al capitale»
(15). Affermare che Marx si fosse fatto delle illusioni
riguardo a un chimerico progetto di «società autotrasparente» è
quantomeno assurdo, almeno agli occhi di chi ne ha letto le opere –
certo, poi si tratta di interpretarle: un salto mortale che non
riesce a tutti.
In secondo luogo, «il progetto di società autotrasparente regolata dall’”intelletto collettivo” non ha trovato alcuna attuazione, né virtuosa né «perversa», nei paesi che Žižek si ostina a definire «Socialismo reale» perché evidentemente attribuisce loro una natura socialista, sebbene «reale», cioè «perversa». La miseria generalizzata, garantita dallo Stato Moloch, è dunque il «Socialismo reale» secondo Žižek. A mio avviso, di reale in Russia – e negli altri Paesi cosiddetti «socialisti», Cina maoista inclusa – c’erano il Capitalismo di Stato, peraltro in una forma piuttosto grossolana e assai poco efficiente, e l’imperialismo, in assoluta continuità con la tradizionale politica di potenza Grande Russa. Capitalismo Reale, come ogni altro Capitalismo presente sulla faccia della Terra. Più che «trasformare criticamente l’apparato concettuale di Marx», egli farebbe bene a interrogarsi seriamente sul proprio apparato concettuale chiamato a dar conto della natura e della dinamica del Capitalismo, e poi, eventualmente, decidere di «trasformare criticamente» quello del vecchio barbuto. Non perché in assoluto io ritenga inutile e persino pericoloso quel compito, ma perché penso che occorre approcciarvisi in maniera più fondata e da tutt’altra prospettiva rispetto a quella dello sloveno. Prima di trasformare qualcosa bisogna intanto comprenderla.
In secondo luogo, «il progetto di società autotrasparente regolata dall’”intelletto collettivo” non ha trovato alcuna attuazione, né virtuosa né «perversa», nei paesi che Žižek si ostina a definire «Socialismo reale» perché evidentemente attribuisce loro una natura socialista, sebbene «reale», cioè «perversa». La miseria generalizzata, garantita dallo Stato Moloch, è dunque il «Socialismo reale» secondo Žižek. A mio avviso, di reale in Russia – e negli altri Paesi cosiddetti «socialisti», Cina maoista inclusa – c’erano il Capitalismo di Stato, peraltro in una forma piuttosto grossolana e assai poco efficiente, e l’imperialismo, in assoluta continuità con la tradizionale politica di potenza Grande Russa. Capitalismo Reale, come ogni altro Capitalismo presente sulla faccia della Terra. Più che «trasformare criticamente l’apparato concettuale di Marx», egli farebbe bene a interrogarsi seriamente sul proprio apparato concettuale chiamato a dar conto della natura e della dinamica del Capitalismo, e poi, eventualmente, decidere di «trasformare criticamente» quello del vecchio barbuto. Non perché in assoluto io ritenga inutile e persino pericoloso quel compito, ma perché penso che occorre approcciarvisi in maniera più fondata e da tutt’altra prospettiva rispetto a quella dello sloveno. Prima di trasformare qualcosa bisogna intanto comprenderla.
Mutuando
la critica marxiana della formula trinitaria di Smith, possiamo dire
che il general intellect vada concepito come fonte di valore «solo
nel senso che mette in moto le “sorgenti originarie”, cioè
obbliga l’operaio a fornire pluslavoro», ossia nel senso che esso
aumenta enormemente la produttività sociale del lavoro in generale e
del lavoro produttivo di plusvalore «originario» in particolare. E
questo significa accrescere il grado di sfruttamento del lavoro
salariato. Il general intellect non è che lavoro sociale accumulato,
prassi sociale accumulata sotto peculiare circostanze storiche
(capitalistiche), e come tale esso va considerato alla stregua del
Capitale Sociale: «Il capitale è produttivo di valore solo in
quanto rapporto, in quanto costringe il lavoro salariato a fornire
plusvalore, in quanto eccita la forza produttiva del lavoro a creare
plusvalore relativo. [...] Ma nel senso in cui comunemente lo
intendono gli economisti, come lavoro accumulato esistente sotto
forma di denaro o di merci, il capitale, al pari di tutte le altre
condizioni di lavoro, ivi comprese le forze della natura non pagate,
agisce produttivamente nel processo lavorativo, nella produzione di
valori d’uso,
ma non diviene sorgente di valore.
ma non diviene sorgente di valore.
Esso
non crea alcun valore nuovo e non aggiunge al prodotto in generale
che il valore di scambio ch’esso possiede, si risolve cioè in
tempo di lavoro oggettivato, così che il lavoro è la sorgente del
suo valore» (16).
Naturalmente
qui Marx fa riferimento al lavoro vivo direttamente impiegato nella
produzione, e lo contrappone al lavoro accumulato, al capitale come
«lavoro morto», che rappresenta il polo dialetticamente opposto del
processo di valorizzazione. Il morto che vampirizza il vivente,
nell’immaginifica metafora marxiana. È all’interno di questa
«griglia concettuale» che a mio avviso occorre collocare la
battaglia intorno alla «proprietà intellettuale», il cui
presupposto è la dimensione sociale (e perciò, nell’attuale epoca
storica, totalitaria) del Capitale.
Mutuando
e capovolgendo il titolo di una canzone pop del secolo scorso,
possiamo dire che nel seno della vigente società nulla nasce libero.
«Non ci sono civili in questa guerra!», disse una volta il nazista
cattivo al nazista buono. E aveva ragione.
Carlo Formenti racconta che gli è capitato «di cogliere al volo in un dibattito tra “smanettoni” su Facebook» la seguente corbelleria (a giudizio sindacabile di chi scrive): «Siamo noi che insegniamo alla macchina». Lungi dall’essere la marxiana appendice della macchina, il nuovo soggetto sociale cognitivo si sente il protagonista delle innovazioni tecnologiche e, in generale, dell’«economia 2.0». Ma la macchina, ancorché cosa tecnologica, è in primo luogo un rapporto sociale, e nello specifico un rapporto sociale capitalistico, il quale crea gli individui come tecnologie – più o meno – intelligenti; dunque, macchine che insegnano alle macchine. La forza distorsiva del velo tecnologico, che allarga a dismisura il concetto e la prassi del feticismo della merce, giunge sempre meno di rado a esiti parossistici davvero impressionanti, come si nota ad esempio in Kevin Kelly, il quale straparla di «socialismo digitale» già in atto, che non avrebbe nulla a che vedere con il «socialismo storico crollato nel 1989» (17).
Qui
la sola cosa che vedo crollata è la capacità di Kelly di penetrare
la scorza del Capitalismo, pardon: del «socialismo cognitivo». Per
quanto riguarda il «socialismo storico crollato nel 1989», qui è
meglio stendere il solito velo pietoso (18).
La
concezione romantica e «idilliaca» del general intellect per un
verso non permette alla coppia Negri-Vercellone di non rimanere
invischiati nella complessità del processo economico capitalistico –
che, al solito, è processo sociale tout court –; e per altro verso
le suggerisce la reazionaria (borghese) rivendicazione di un «Reddito
Sociale Garantito come un investimento collettivo della società nel
sapere», e non all’interno di «una logica redistributiva». Come
se il sapere, nel Capitalismo, non fosse uno degli strumenti più
potenti di dominio e di sfruttamento degli uomini e della natura,
come se la società chiamata a investire nel «capitale umano» (o,
se le parole disturbano, nel «sapere» e nel «vivente») non fosse
la Società del Capitale. La presa di distanza dalla «logica
distributiva» risente della preoccupazione di non apparire legati al
vecchio Welfare assistenzialistico, mentre in realtà si tratta
proprio di questo. E se chiamata col suo vero nome (assistenzialismo,
sussidio), e non veicolata da quella infondata teorizzazione, la
rivendicazione di un «salario sociale», ancorché abbastanza
chimerica (almeno nelle condizioni dell’attuale fase
capitalistica),
avrebbe pure una sua rispettabilità all’interno della logica del conflitto sociale.
avrebbe pure una sua rispettabilità all’interno della logica del conflitto sociale.
* Da Il Libro del Profeta Isaia. Scuserete la banale e discutibile citazione che naturalmente è mia, non del bravo Sebastiano Isaia!
NOTE
1) «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (K. Marx, Lineamenti, II, p. 403).
2)
C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del
lavoro, p. 102, Egea, 2011.
3)
«Gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno
questo in comunecon Negri: sono convinti anche loro che il comunismo
sia attuale, praticamente dietrol’angolo. Quello della Casa Bianca»
(F. Rampini, La Repubblica, 14/09/10).
4)
M Hardt, A. Negri, Il Comune, p. 284, Rizzoli, 2010.
5)
K. Marx, Il Capitale, III, p. 114.
6)
Un altro celebre Scienziato Sociale di successo, Jeremy Rifkin,
politicamente assai meno velleitario di Negri (ma non per questo meno
carico di illusioni progressiste dell’Italiano), riferendosi al
Capitalismo del XXI secolo ama parlare di «Capitalismo empatico»
(l’empatia, declinata in tutte le salse, è il suo nuovo pezzo di
successo), di «Capitalismo distributivo e collaborativo», di
«wikiCapitalismo» (perché il paradigma della «nuova
organizzazione capitalistica dal basso verso l’alto» è,
ovviamente, Internet: «tutto il potere al popolo!»), e di altre
definizioni politicamente corrette che almeno lasciano intonso il
“vecchio” sostantivo. Ciò nonostante, anche il mite professore
americano nel mondo anglosassone passa per «socialista».
7)
La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri ripresa
dal sito di Comunismo e Comunità.
8)
K. Marx, Lineamenti, II, pp.392-393.
9)
Ibidem, p. 403.
10)S.
Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
11)
A. Negri, C. Vercellone, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo
cognitivo, in Posse, ottobre 2007, p. 51.
12).
Horkheimer, T. W. Adorno, L’industria culturale, 1942, in
Dialetticadell’illuminismo, p.127, Einaudi, 1997. «Ma questo
effetto non si deve addebitare a una presunta legge di sviluppo della
mera tecnica come tale, ma alla funzione che essa svolge
nell’economia» (ivi, p. 128).
13)
S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 427, Raffaello Cortina, 2003.
14)
Un esempio di questa intelligenza: «Il concetto più ampio che
vogliamo richiamare è che i bisogni, come le aspirazioni, sono
foggiati dalla comprensione che si ha di ciò che è possibile. La
tecnologia avanzata rende fattibili attività e azioni alle quali la
gente non ha ancora nemmeno pensato. La sfida che la maggior parte
delle aziende non raccoglie sta nel saper riconoscere le potenzialità
di business che giacciono allo stato latente nella tecnologia» (M.
Hammer, J. Champy, Ripensare l’azienda, p. 101, Sperling &
Kupfer, 1997). Qui l’intelligenza del capitale è appena sminuita
dal feticismo tecnologico degli economisti, impigliati nel «velo
tecnologico».
15)
K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 89.
16)
K. Marx, Storia delle..., I, p. 158.
17)
K. Kelly, The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming
Online, in Wired Magazine, 17-2006.
18)
Rimando al mio saggio Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla
sconfitta della
Rivoluzione
d’Ottobre – 1917-1924, Nostromo III, 2011.
Caspita, la citazione del profeta mica è banale, anzi sembra così appropriata da dare brividi di assoluta immanenza! Profetica perlappunto!
RispondiEliminaComunque sempre sia benedetto Isaia, il compagno! Non il profeta…
Una sorsata di acqua limpida e fresca che dilava e svela le cazzate che questi peracottari assortiti propinano dai ben ovattati scranni delle loro cattedre fin dai primi anni '70 non smettendo di fare danni, non solo intellettuali purtroppo, come la storia esistenziale di generazioni di compagni amici che gli sono stati appresso ci ha tragicamente insegnato: ché me li posso scordà i tempi del militarismo avanguardista quando questi con qualche stupida presa di posizione da duri e puri o "azione spettacolare" (del resto non a caso anche allora tutte queste interne alle logiche capitalistiche della società dello spettacolo) riuscivano a rovinare in quattro e quattr'otto mesi di quotidiana militanza capillare di massa per la reale autonomia del proletariato nei luoghi di vita e sfruttamento reali… Per non parlare della deriva settantasettina dell'"Autonomia Operaia" ed oltre…
Niente, seguitano a pavoneggiarsi ed a fare danno! …Žižek poi, questo nostro tempo di fuffa non poteva che partorire un tal ciarlatano… E quanto piace…!
Caro Peppe, tanta verità nelle tue parole! Oltre alle nostre varie esperienze personali, e quindi ai nostri errori, che non è possibile dimenticare, c'è sempre comunque in noi il desiderio che cambi l'attuale tragico stato delle cose. Ti dirò che oggi rileggere Marx, (sarà a causa della crisi che spazza via illusioni che forse si pensava di non avere) nella sua splendida chiarezza e verità, è come bere da una sorgente della Majella. Ciao.
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