uno dei due è l'altro

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giovedì 15 ottobre 2015

L’intelligenza del Capitale. Mito e realtà del General Intellect.


Contro chi per tagliare l'afferra
può vantarsi la scure?
o la sega di chi la muove può burlarsi?

Come se un bastone
volesse brandire chi lo impugna
e una verga sollevare
ciò che non è legno!*



Tratto dallo splendido
Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano 
di Sebastiano Isaia
che è possibile acquistare o scaricare in formato pdf qui.




Nell’ultimo prodotto editoriale di successo, la coppia Hardt-Negri ritorna a maltrattare indegnamente un concetto marxiano di grande significato teorico e politico: il General Intellect (1). Il loro nuovo best seller s’intitola Comune. Oltre il privato e il pubblico, ed esce in Italia sotto gli auspici del grande successo ottenuto negli Stati Uniti, non ultimo anche in grazia della crisi economica che ancora travaglia
 il Paese del Presidente «abbronzato».


Scrive Carlo Formenti: «Il dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo stesso, negativa e positiva. Da un lato, si dice che nulla ormai può esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel processo di valorizzazione capitalistico; al tempo stesso si afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione biopolitica di soggettività – è esterna al capitale e si auto-organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono 
in un unico piano di immanenza» (2).

La critica di Formenti mi appare ben fondata e condivisibile, salvo che per alcuni aspetti, peraltro tutt’altro che secondari, che qui però non prendo in considerazione. Ma che significato occorre dare al concetto di Comune? Perché lo Scienziato Politico tanto celebrato dai media che contano scomoda un termine così ambiguo ed equivoco? «Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti»: questa risposta di sconvolgente ingenuità e di abissale indigenza teorico- politica si trova in una recensione del libro Il saccheggio (di Ugo Mattei e Laura Nader) firmata da Negri e apparsa sul Manifesto del 4 maggio 2010 con questo significativo titolo: Quel diritto politico 
di saccheggiare i beni comuni.

La mia tesi – fuori moda, lo ammetto – è che, invece, non esiste alcun Bene Comune, giacché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. Il Capitale non si appropria arbitrariamente il Comune, non lo «privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Questa mostruosa vitalità espansiva – in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi – rappresenta il tratto più significativo e «rivoluzionario» (vedi Marx e Schumpeter) del Capitalismo.


Il lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello produttivo di «plusvalore» e quello produttivo di solo «profitto» o di sola «rendita»), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono e riproducono sempre di nuovo il rapporto sociale dominante in questa epoca storica. È precisamente questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che riempie di contenuti una «categoria economica antidiluviana» (Marx) come quella di proprietà (privata, statale, collettiva), e il concetto giuridico a essa correlata. «La proprietà di capitale presenta la prerogativa di esercitare un comando sul lavoro degli altri» (3): questa è la forma peculiare della proprietà – qui intesa sia come qualità, sia come categoria economico-giuridica – capitalistica, la quale si regge, fondamentalmente, non sul possesso di cose materiali (la proprietà nell’accezione «sordidamente economica»), ma su un rapporto sociale (la proprietà come qualità immateriale), sul cui fondamento prende corpo 
la società-mondo che conosciamo.

Per gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al Capitalismo di Stato (la cui forma «sovietica» diventò celebre sotto il giustamente famigerato nome di «socialismo reale»), persino il Comune di Negri può apparire quanto di più «sovversivo» e «radicale» si possa trovare sul mercato delle ideologie, ossia un «Manifesto del Partito Comunista, versione 2.0», per dirla col prestigioso Wall Street Journal. Nientemeno! Il successo di Negri si spiega, tra l’altro, con la sua capacità di creare nella «Moltitudine» (a dire il vero, una «moltitudine» assai elitaria, e persino «radical chic») l’illusione, che aspetta solo di venir frustrata – cosa che peraltro accade puntualmente –, di rappresentare una potenza sociale, «qui e ora». Sentirsi sempre al centro del Mondo, eternamente motori delle trasformazioni sociali, avanguardie for ever: ecco ciò che promette l’articolo ideologico venduto dal Nostro. Quando poi i clienti capiscono (ed è già un miracolo) di essere stati piuttosto alla retroguardia del reale processo sociale, saranno già trascorsi almeno venti anni.

Il nebuloso concetto di «Bene Comune» sembra essere stato fabbricato apposta per avvolgere in una spessa coltre fumogena concetti scottanti e scabrosi quali quelli di violenza, di rivoluzione, di potere politico e così via; forse anche perché in passato l’ex teorico dell’Autonomia Operaia non ha mostrato di saperli padroneggiare bene, questi concetti, né sul piano teorico né su quello pratico. È anche in questa fumisteria ideologica, che fa passare come profondo il vuoto, la vuota profondità di un pensiero solo apparentemente critico, che probabilmente occorre individuare
 la causa non meno importante della sua «fascinazione».

Scrivono Negri e Hardt: «Una volta che si è adottato il punto di vista del comune le categorie fondamentali dell’economia devono essere ripensate. In questo nuovo contesto, ad esempio, la valorizzazione e l’accumulazione si declinano in una dimensionesociale anziché in una dimensione strettamente privatistica e individualistica. Il comune si costituisce ed è messo al lavoro da un’ampia e aperta rete sociale» (4). Una perla tutt’altro che originale,
 nell’ambito della riflessione negriana.



Ora, che la dimensione sociale della valorizzazione e dell’accumulazione è per Marx un punto di vista assolutamente certo e dirimente, per chiunque abbia dimestichezza con le sue opere cosiddette economiche è qualcosa che suona ovvia e persino banale, e desta davvero meraviglia che uno Scienziato della fatta del Nostro non se ne sia accorto, o che non lo abbia capito: possibile? Basta leggere soltanto la «Prima sezione. La conversione del plusvalore in profitto» e la «Seconda sezione. La conversione del profitto in profitto medio» del Libro Terzo del Capitale per capire di cosa parlo. Una sola citazione: «Ciò che in tal guisa [ossia con lo sviluppo della produttività sociale] torna a beneficio del capitalista rappresenta dal suo canto un guadagno che è il risultato del lavoro sociale, anche se non degli operai direttamente sfruttati dal capitalista stesso. Quello sviluppo della forza produttiva è dovuto in ogni caso al carattere sociale del lavoro messo in
opera, alla divisione del lavoro all’interno della società, allo sviluppo del lavoro intellettuale, innanzi tutto alle scienze naturali. Il capitalista trae vantaggio dai risultati del sistema della divisione sociale nel suo complesso» (5). In poche parole, Negri chiama Comune ciò che l’uomo di Treviri chiamava Capitalismo (6).
«Ricordate la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» (7).

Siamo andati oltre il Capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo umilmente venia! Il fatto è che, essendo ancora impigliato nella barba del Grande Vecchio, pensavo che l’invenzione non fosse che «capitale costante», un formidabile strumento capitalistico di dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo (dell’individuo tout court, e non solo del «capitale variabile»: oltre a produrre valore, consumiamo valore). E invece siamo finiti – sia resa lode alla Santa Astuzia della Storia! – nel Regno della libertà e dell’immaginazione. Il Sessantotto ha vinto, dunque?

Non saprei, ma intanto cito Marx: «L’accumulazione della scienza e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e si presenta perciò come una proprietà del capitale, e segnatamente del capitale fisso. [...] In quanto poi le macchine si sviluppano con l’accumulazione della scienza sociale, della produttività in generale, non è nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il lavoro generalmente sociale. [...] La scienza si presenta, nelle macchine, come una scienza altrui, esterna all’operaio» (8). Penso che soprattutto nella Società-Mondo del XXI secolo, nell’epoca della sottomissione totalitaria (e non semplicemente «reale», come scriveva Marx ai suoi tempi) degli individui alle molteplici e sempre più rapidamente mutevoli esigenze del Capitale, quei concetti vadano estesi all’intera dimensione del Sociale.

Il «sapere sociale generale» da un lato concorre a rendere più produttivo il lavoro vivo consumato nel processo industriale, e dall’altro espande bisogni e desideri che per venir soddisfatti necessitano di merci «reali» e «virtuali». Esso perciò espande potentemente il dominio del capitale in forma diretta e indiretta, nella sfera della produzione come in quella della circolazione e dei servizi in generale (e del servizio scienza in particolare). Andare oltre ogni limite è l’assoluto imperativo categorico che frulla nella testa del Capitale. «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect e rimodellate in conformità ad esso» (9).


Dopo la perla, il... «marxista critico»: «Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’ ”intelletto generale”, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’ ”intelletto generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. 
Negri ha ragione su questo punto» (10). 

Ora, abbiamo appena visto come Marx non solo non abbia trascurato minimamente la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminentemente sociale e mondiale, perché sociale e mondiale è la dimensione del capitale, già nella sua genesi storica.

La profittabilità (ciò che Žižek chiama, un po’ volgarmente, «privatizzazione») dell’intero universo è il respiro economico-sociale immanente al concetto di capitale, e Marx questo lo ha capito benissimo e ne ha scritto continuamente. Certo, non ha parlato della «battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”», e questo, occorre riconoscerlo, è una grave mancanza teorica. Può essere un attenuante per il barbuto di Treviri il fatto che ai suoi tempi il web e tecnologie analoghe non fossero state ancora inventate? La questione rimane aperta. Intanto ci tocca leggere perle ideologiche di questo tipo: «Il capitale non solo è divenuto dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme delle conoscenze 
e dei tempi di vita dei salariati» (11).

Un capolavoro di “simildialettica” hegeliana, non c’è dubbio. Il servo, in virtù della sua prassi ricca di esperienze e di conoscenze acquisite attraverso la concreta trasformazione della natura, attraverso il lavoro, riesce in qualche modo ad avere la meglio, almeno sul piano etico, sul suo padrone, incapace di vera soggettività e dipendente dal servo per ciò che riguarda la sua stessa esistenza quotidiana. Ma ovviamente le cose stanno esattamente al contrario, perché soprattutto nel «Capitalismo cognitivo» il soggetto della prassi economica è il Capitale, mentre i salariati ne sono gli oggetti, e tanto più credono di dettare le leggi al primo, quanto più essi testimoniano la loro impotenza sociale. Sul terreno del general intellect il «velo tecnologico» gioca davvero brutti scherzi, e anche le menti più fertili non si accorgono che «La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio» (12).

Rimane il fatto che la lettura completamente fuori luogo del general intellect porta ad esempio Žižek a scrivere insulsaggini di portata davvero eccezionale, come la seguente: «Marx è rimasto all’interno dei confini della “prima modernizzazione”, la quale mirava a stabilire una società autotrasparente regolata dall’”intelletto collettivo”; non ci si dovrebbe sorprendere che questo progetto abbia trovato una sua realizzazione perversa nel Socialismo reale, il quale – a prescindere dall’incertezza estrema in cui si trovava a vivere un individuo ai tempi delle purghe politiche – ha forse rappresentato il tentativo più radicale di sospendere l’incertezza propria della modernizzazione capitalista. [...] Sebbene la vita fosse misera e grigia,
 non occorreva preoccuparsi per il futuro: 
l’esistenza modesta di ciascuno era garantita» (13).


È proprio vero, la prima volta come tragedia (lo stalinismo), la seconda come farsa (gli orfani, più o meno «critici», dello stalinismo, i teorici del «si stava meglio quando si stava peggio»). In primo luogo, in quanto «forza produttiva immediata» il general intellect è tutto interno al Capitale, è anzi l’intelligenza del Capitale (14), è Capitale tout court: «La scienza come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale» (15). Affermare che Marx si fosse fatto delle illusioni riguardo a un chimerico progetto di «società autotrasparente» è quantomeno assurdo, almeno agli occhi di chi ne ha letto le opere – certo, poi si tratta di interpretarle: un salto mortale che non riesce a tutti. 

In secondo luogo, «il progetto di società autotrasparente regolata dall’”intelletto collettivo” non ha trovato alcuna attuazione, né virtuosa né «perversa», nei paesi che Žižek si ostina a definire «Socialismo reale» perché evidentemente attribuisce loro una natura socialista, sebbene «reale», cioè «perversa». La miseria generalizzata, garantita dallo Stato Moloch, è dunque il «Socialismo reale» secondo Žižek. A mio avviso, di reale in Russia – e negli altri Paesi cosiddetti «socialisti», Cina maoista inclusa – c’erano il Capitalismo di Stato, peraltro in una forma piuttosto grossolana e assai poco efficiente, e l’imperialismo, in assoluta continuità con la tradizionale politica di potenza Grande Russa. Capitalismo Reale, come ogni altro Capitalismo presente sulla faccia della Terra. Più che «trasformare criticamente l’apparato concettuale di Marx», egli farebbe bene a interrogarsi seriamente sul proprio apparato concettuale chiamato a dar conto della natura e della dinamica del Capitalismo, e poi, eventualmente, decidere di «trasformare criticamente» quello del vecchio barbuto. Non perché in assoluto io ritenga inutile e persino pericoloso quel compito, ma perché penso che occorre approcciarvisi in maniera più fondata e da tutt’altra prospettiva rispetto a quella dello sloveno. Prima di trasformare qualcosa bisogna intanto comprenderla.

Mutuando la critica marxiana della formula trinitaria di Smith, possiamo dire che il general intellect vada concepito come fonte di valore «solo nel senso che mette in moto le “sorgenti originarie”, cioè obbliga l’operaio a fornire pluslavoro», ossia nel senso che esso aumenta enormemente la produttività sociale del lavoro in generale e del lavoro produttivo di plusvalore «originario» in particolare. E questo significa accrescere il grado di sfruttamento del lavoro salariato. Il general intellect non è che lavoro sociale accumulato, prassi sociale accumulata sotto peculiare circostanze storiche (capitalistiche), e come tale esso va considerato alla stregua del Capitale Sociale: «Il capitale è produttivo di valore solo in quanto rapporto, in quanto costringe il lavoro salariato a fornire plusvalore, in quanto eccita la forza produttiva del lavoro a creare plusvalore relativo. [...] Ma nel senso in cui comunemente lo intendono gli economisti, come lavoro accumulato esistente sotto forma di denaro o di merci, il capitale, al pari di tutte le altre condizioni di lavoro, ivi comprese le forze della natura non pagate, agisce produttivamente nel processo lavorativo, nella produzione di valori d’uso, 
ma non diviene sorgente di valore.
Esso non crea alcun valore nuovo e non aggiunge al prodotto in generale che il valore di scambio ch’esso possiede, si risolve cioè in tempo di lavoro oggettivato, così che il lavoro è la sorgente del suo valore» (16).

Naturalmente qui Marx fa riferimento al lavoro vivo direttamente impiegato nella produzione, e lo contrappone al lavoro accumulato, al capitale come «lavoro morto», che rappresenta il polo dialetticamente opposto del processo di valorizzazione. Il morto che vampirizza il vivente, nell’immaginifica metafora marxiana. È all’interno di questa «griglia concettuale» che a mio avviso occorre collocare la battaglia intorno alla «proprietà intellettuale», il cui presupposto è la dimensione sociale (e perciò, nell’attuale epoca storica, totalitaria) del Capitale.

Mutuando e capovolgendo il titolo di una canzone pop del secolo scorso, possiamo dire che nel seno della vigente società nulla nasce libero. «Non ci sono civili in questa guerra!», disse una volta il nazista cattivo al nazista buono. E aveva ragione.

Carlo Formenti racconta che gli è capitato «di cogliere al volo in un dibattito tra “smanettoni” su Facebook» la seguente corbelleria (a giudizio sindacabile di chi scrive): «Siamo noi che insegniamo alla macchina». Lungi dall’essere la marxiana appendice della macchina, il nuovo soggetto sociale cognitivo si sente il protagonista delle innovazioni tecnologiche e, in generale, dell’«economia 2.0». Ma la macchina, ancorché cosa tecnologica, è in primo luogo un rapporto sociale, e nello specifico un rapporto sociale capitalistico, il quale crea gli individui come tecnologie – più o meno – intelligenti; dunque, macchine che insegnano alle macchine. La forza distorsiva del velo tecnologico, che allarga a dismisura il concetto e la prassi del feticismo della merce, giunge sempre meno di rado a esiti parossistici davvero impressionanti, come si nota ad esempio in Kevin Kelly, il quale straparla di «socialismo digitale» già in atto, che non avrebbe nulla a che vedere con il «socialismo storico crollato nel 1989» (17).

Qui la sola cosa che vedo crollata è la capacità di Kelly di penetrare la scorza del Capitalismo, pardon: del «socialismo cognitivo». Per quanto riguarda il «socialismo storico crollato nel 1989», qui è meglio stendere il solito velo pietoso (18).

La concezione romantica e «idilliaca» del general intellect per un verso non permette alla coppia Negri-Vercellone di non rimanere invischiati nella complessità del processo economico capitalistico – che, al solito, è processo sociale tout court –; e per altro verso le suggerisce la reazionaria (borghese) rivendicazione di un «Reddito Sociale Garantito come un investimento collettivo della società nel sapere», e non all’interno di «una logica redistributiva». Come se il sapere, nel Capitalismo, non fosse uno degli strumenti più potenti di dominio e di sfruttamento degli uomini e della natura, come se la società chiamata a investire nel «capitale umano» (o, se le parole disturbano, nel «sapere» e nel «vivente») non fosse la Società del Capitale. La presa di distanza dalla «logica distributiva» risente della preoccupazione di non apparire legati al vecchio Welfare assistenzialistico, mentre in realtà si tratta proprio di questo. E se chiamata col suo vero nome (assistenzialismo, sussidio), e non veicolata da quella infondata teorizzazione, la rivendicazione di un «salario sociale», ancorché abbastanza chimerica (almeno nelle condizioni dell’attuale fase capitalistica), 
avrebbe pure una sua rispettabilità all’interno della logica del conflitto sociale.






* Da Il Libro del Profeta Isaia. Scuserete la banale e discutibile citazione che naturalmente è mia, non del bravo Sebastiano Isaia!



NOTE

1) «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (K. Marx, Lineamenti, II, p. 403).

2) C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, p. 102, Egea, 2011.

3) «Gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comunecon Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietrol’angolo. Quello della Casa Bianca» (F. Rampini, La Repubblica, 14/09/10).

4) M Hardt, A. Negri, Il Comune, p. 284, Rizzoli, 2010.

5) K. Marx, Il Capitale, III, p. 114.

6) Un altro celebre Scienziato Sociale di successo, Jeremy Rifkin, politicamente assai meno velleitario di Negri (ma non per questo meno carico di illusioni progressiste dell’Italiano), riferendosi al Capitalismo del XXI secolo ama parlare di «Capitalismo empatico» (l’empatia, declinata in tutte le salse, è il suo nuovo pezzo di successo), di «Capitalismo distributivo e collaborativo», di «wikiCapitalismo» (perché il paradigma della «nuova organizzazione capitalistica dal basso verso l’alto» è, ovviamente, Internet: «tutto il potere al popolo!»), e di altre definizioni politicamente corrette che almeno lasciano intonso il “vecchio” sostantivo. Ciò nonostante, anche il mite professore americano nel mondo anglosassone passa per «socialista».

7) La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri ripresa dal sito di Comunismo e Comunità.

8) K. Marx, Lineamenti, II, pp.392-393.

9) Ibidem, p. 403.

10)S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.

11) A. Negri, C. Vercellone, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, in Posse, ottobre 2007, p. 51.


12). Horkheimer, T. W. Adorno, L’industria culturale, 1942, in Dialetticadell’illuminismo, p.127, Einaudi, 1997. «Ma questo effetto non si deve addebitare a una presunta legge di sviluppo della mera tecnica come tale, ma alla funzione che essa svolge nell’economia» (ivi, p. 128).

13) S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 427, Raffaello Cortina, 2003.

14) Un esempio di questa intelligenza: «Il concetto più ampio che vogliamo richiamare è che i bisogni, come le aspirazioni, sono foggiati dalla comprensione che si ha di ciò che è possibile. La tecnologia avanzata rende fattibili attività e azioni alle quali la gente non ha ancora nemmeno pensato. La sfida che la maggior parte delle aziende non raccoglie sta nel saper riconoscere le potenzialità di business che giacciono allo stato latente nella tecnologia» (M. Hammer, J. Champy, Ripensare l’azienda, p. 101, Sperling & Kupfer, 1997). Qui l’intelligenza del capitale è appena sminuita dal feticismo tecnologico degli economisti, impigliati nel «velo tecnologico».

15) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 89.

16) K. Marx, Storia delle..., I, p. 158.

17) K. Kelly, The New Socialism: Global Collectivist Society Is Coming Online, in Wired Magazine, 17-2006.

18) Rimando al mio saggio Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della
Rivoluzione d’Ottobre – 1917-1924, Nostromo III, 2011.

2 commenti:

  1. Caspita, la citazione del profeta mica è banale, anzi sembra così appropriata da dare brividi di assoluta immanenza! Profetica perlappunto!
    Comunque sempre sia benedetto Isaia, il compagno! Non il profeta…
    Una sorsata di acqua limpida e fresca che dilava e svela le cazzate che questi peracottari assortiti propinano dai ben ovattati scranni delle loro cattedre fin dai primi anni '70 non smettendo di fare danni, non solo intellettuali purtroppo, come la storia esistenziale di generazioni di compagni amici che gli sono stati appresso ci ha tragicamente insegnato: ché me li posso scordà i tempi del militarismo avanguardista quando questi con qualche stupida presa di posizione da duri e puri o "azione spettacolare" (del resto non a caso anche allora tutte queste interne alle logiche capitalistiche della società dello spettacolo) riuscivano a rovinare in quattro e quattr'otto mesi di quotidiana militanza capillare di massa per la reale autonomia del proletariato nei luoghi di vita e sfruttamento reali… Per non parlare della deriva settantasettina dell'"Autonomia Operaia" ed oltre…
    Niente, seguitano a pavoneggiarsi ed a fare danno! …Žižek poi, questo nostro tempo di fuffa non poteva che partorire un tal ciarlatano… E quanto piace…!

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    1. Caro Peppe, tanta verità nelle tue parole! Oltre alle nostre varie esperienze personali, e quindi ai nostri errori, che non è possibile dimenticare, c'è sempre comunque in noi il desiderio che cambi l'attuale tragico stato delle cose. Ti dirò che oggi rileggere Marx, (sarà a causa della crisi che spazza via illusioni che forse si pensava di non avere) nella sua splendida chiarezza e verità, è come bere da una sorgente della Majella. Ciao.

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