Pierluigi Fagan
Sinistrainrete
Nominare cose e fenomeni è un esercizio delicato.
Da come nomineremo un fatto ne determineremo la percezione e la
categorizzazione con conseguenze seconde su gli atteggiamenti ed i
giudizi che prenderemo nei suoi confronti. La ricerca del nome da
dare alla situazione internazionale nella quale siamo capitati, va
avanti da un po’ di tempo. Si va dalla nuova guerra fredda 2.0,
alla guerra ibrida, alla Terza guerra mondiale portata avanti a pezzi
ma sempre passibile di precipitare in un unico vortice fuori
controllo dalle conseguenze terrificanti. Le prime parti di
queste definizioni però sembrano concordare sul fatto che siamo in
guerra. E’ invece proprio questo fatto a dover esser discusso.
Tutte le definizioni summenzionate ed in
particolare la seconda che con “ibrida” tenta di relativizzare i
significati ben precisi del termine “guerra”, vertono su un
concetto di cui poi si cerca di modificare il significato. In questi
casi, dove si tenti ripetutamente di forzare un significato dato per
allargarne lo spettro, si fa prima a cercare un altro termine,
soprattutto se l’esercizio viene condotto sul termine “guerra” il cui significato è inequivoco da qualche migliaia di anni.
Guerra è decisamente ed apertamente confronto
armato tra due o più contendenti. Al momento, abbiamo effettivamente
una serie di guerre nel pianeta ma quella che potrebbe degenerare in
una guerra mondiale è solo una, la Siria mentre in Ucraina c’è
uno scontro locale ad intermittente e bassa intensità. In Siria,
l’ultimo strato della cipolla conflittuale vede Stati Uniti e
Russia con la Cina interessata ma poco partecipe al momento ma vi
sono poi molti altri strati che vedono Turchia, Iran, Iraq, Arabia
Saudita e Qatar, indirettamente Yemen ed Israele che avvolgono curdi
frazionati in cerca della da sempre agognata statualità,
l’improbabile Stato Islamico e una variegata composizione di forze
anti Assad, oltre al legittimo esercito siriano.
E’ sempre
possibile che i due maggiori contendenti, quelli che porterebbero il
conflitto locale a diventare mondiale, saltino gli intermedi e
decidano per il faccia a faccia ma è poco probabile. Primo perché
hanno molti attori terzi da muovere prima di impegnarsi nel confronto
diretto, secondo perché sul quadrante hanno forze aeree e navali ma
non di terra cosa che renderebbe lo scontro inconcludente, terzo
perché comunque, sono impegnate in un confronto su un territorio
terzo la cui terzietà si può mantenere senza per questo giungere a
lanciarsi le più di 7000 testate nucleari in testa, l’uno su
quella dell’altro.
Eppure, c’è qualcosa unanimemente riconosciuto
come allarmante, qualcosa molto più grande del pur tragico conflitto
siriano. Sul piano militare, per il momento, di schieramento e non
ancora di aperto conflitto, la lista dei fatti si va pericolosamente
allungando. Da Nord a Sud e poi da Ovest ad Est abbiamo l’ipotesi
che la Finlandia stia pensando di rivedere la sua storica posizione
di neutralità per entrare in orbita NATO, ci sono gli schieramenti
di truppe NATO nei paesi baltici ed in Polonia, non tanto da
paventare una invasione della Russia ma quel tanto da far scattare
l’articolo 5 dell’Alleanza nel caso fossero i russi ad invadere,
ci sono i missili schierati in Romania, c’è sempre la tensione
ucraina, Ucraina che con la Georgia potrebbe sempre entrare nella
NATO, c’è stato il fallito colpo di stato in Turchia, il ginepraio
siro-iracheno, il sempre possibile reintegro dell’Iran nella lista
dei conflitti possibili, la tensione nel Mare cinese meridionale, le
grandi manovre della flotta americana nel Pacifico e
l’intensificazione di molte collaborazioni militari americane con
l’Australia, il Vietnam, la Corea del Sud mentre in Giappone, da un
po’ di tempo, va avanti il ripensamento progressivo della scelta di
disarmo imposta dalla Costituzione post bellica.
Quello citato è in
pratica un cordone che gli Stati Uniti stanno stendendo intorno
all’asse russo-cinese. Al momento, questo cordone serve per mettere
in difficoltà l’espansione cinese con i quali però gli USA hanno
forti rapporti di interdipendenza mentre con la Russia l’obiettivo
è far fallire la sua attuale amministrazione, il regime change.
Inoltre, l’obiettivo secondo è quello di isolare il continuum
russo-asiatico dall’Europa affinché non si saldi il temuto sistema
euroasiatico.
Non c’è solo il piano militare. Ci sono
continui attacchi informatici tra Cina – Stati Uniti – Russia.
Alcuni ci sono noti ma c’è da pensare che molti vengano tenuti
ancora al riparo dalla pubblicità presso le rispettive opinioni
pubbliche. Probabilmente ci sono anche reciproche attività
spionistiche in intensificazione. Ci sono attività di pressione
economica come le sanzioni comminate ai russi, le minacce di
esclusione dai circuiti bancari internazionali come il SWIFT, il
crollo del prezzo del petrolio, attacchi alle valute, attacchi alla
stabilità dei mercati borsistici come avvenuto in Cina qualche mese
fa. C’è poi una gigantesca guerra informativa che ha il fine di
mobilitare le rispettive opinioni pubbliche che, piano-piano, si
stanno accorgendo di avere un nemico che appena qualche anno fa era
impensato come tale. Generali e think tank, analisti e commentatori
stanno indossando l’elmetto e moschetto già da tempo, o di qua o
di là, polarizzarsi è necessario. Tra un po’, i non allineati
saranno -come di norma-, ritenuti ignavi, vigliacchi, pavidi.
Il tutto avviene in un mondo, inteso nel senso più
ampio, in cui l’economia ristagna e sembra ristagnerà a lungo. La
globalizzazione comincia la sua parabola discendente, si parla
apertamente di ripresa del protezionismo, il commercio estero segna
il terzo anno di contrazione dentro una crescita mondiale sempre più
anemica la cui percentuale media gli indici ancora ben positivi degli
asiatici con quelli degli zero-virgola dei mercati più maturi,
falliscono i grandi sea-carrier. La finanza cresce di volume ormai
senza limiti possibili e disordina sempre più l’economia
ristagnante creando l’inedito fenomeno dei vortici nello stagno.
L’indebitamento che noi ossessionati dalla Germania leggiamo
soprattutto come pubblico ma la cui dimensione privata, sul piano
globale, si fa ogni giorno più rilevante, cresce senza sosta e senza
ormai la più pallida possibilità di esser onorato. La fragilità
dell’intermediario bancario, dopo gli armageddon delle banche
investors (Lehman Bro) si manifesta addirittura nel cuore di un
gigante retail come Deutsche bank, oltretutto di un paese ritenuto
sano, ricco e consistente come la Germania. Gli squilibri dello
sviluppo, le guerre ed i conflitti a cui l’inedito islamismo armato
manovrato dai petrolieri wahhabiti, l’erratico ed acefalo procedere
della mano invisibile globale, le sempre più numeroso deficienze
climatiche, le vistose asimmetrie demografiche, accendono potenti
treni migratori che agitano vieppiù lo stagno.
Per le questioni
ambientali basta la citazione stante che i loro tempi medio-lunghi ci
danno la fallace impressione che le urgenze siano sempre
dilazionabili, rendendole così sempre più potenzialmente
drammatiche ed irrisolvibili. Sul piano culturale sembra che ci si
dia la triste alternativa tra la sociologia della suburra dei social
network, Zizek che rivaluta la fenomenologia di Kim Kardashian e
l’esasperato tecnicismo che ci aiuta a fare meglio cose sempre più
insulse ed inadeguate ai tempi complessi che ci è toccato in sorte
di vivere. Idee poche, energie nulle, confusione tanta. Del resto, in
Occidente ma più nello specifico noi europei ed i giapponesi,
invecchiamo, viviamo sempre più a lungo (per cui dobbiamo lavorare
sempre più a lungo, stante che di lavoro ce ne è sempre meno) e
facciamo sempre meno figli. Quindi?
Quindi siamo entrati nel primo conflitto globale.
Globale per estensione ed intensione. Per estensione perché non è
più l’Europa il teatro del conflitto ma il mondo intero (oltre
all’Eurasia ed la sempre instabile Medio Oriente, c’è
competizione in Africa e Sud America), per intensione perché non è
più solo il piano militare ma anche quello cibernetico, economico,
finanziario, demografico, culturale, religioso, politico ed
ambientale a veicolare frizioni, attriti, sortite ed attacchi,
capovolgimenti ed improvvise riconfigurazioni sistemiche (Brexit),
paralisi e dinamiche atipiche fuori controllo. Conflitto perché la
categoria sociologica del conflitto è più ampia e comprensiva di
quella strettamente polemologica della guerra anche intendendo questa
nel nuovo senso ipermoderno e quindi non tradizionale. Conflitto
include vari tipi di guerre ma anche molto altro. Primo perché è la
prima volta che registriamo un fenomeno del genere.
Questa “prima volta” spiega anche perché
falliscono i tentativi di nominare una cosa inedita usando categorie
sedimentate nella storia precedente. Questa “prima volta”
consegue il nuovo stato del mondo ovvero 7,5 miliardi di individui
prossimi 10 miliardi, cresciuti di quattro volte in un secolo, di
7-10 volte in un secolo e mezzo o poco più, sempre più
interconnessi ed interdipendenti, ormai tutti alle prese con le
ambizioni di vita spinte dal modo economico moderno quale ordinatore
unico per tutte le partizioni politiche del pianeta, partizioni (cioè
Stati) che erano cinquanta appena sessanta anni fa ed oggi sono più
di duecento e crescenti nonostante si vaticini la fine dello Stato da
decenni.
Dentro questo quadro tellurico e nuvoloso, la
potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, viziata dalla recente
condizione di unicità a sua volta derivata da un lungo condominio
con una forza che le resisteva (Unione sovietica) ma lasciandole
ampio spazio di potere su porzioni molto vaste di mondo ed una
macedonia di non allineati sottosviluppati, è l’agente che più ha
più da perdere da praticamente ogni possibile previsione si possa
credibilmente e razionalmente fare su cosa sarà il mondo tra dieci,
venti, trenta anni.
Gli USA non possono perdere l’essenziale dominio
sull’Europa perché è questa l’estrema propaggine orientale del
sistema occidentale di cui loro sono il centro sistemico e perché
l’Europa è il loro pied-à-terre per evitare la tragedia che più
di un secolo di riflessione geopolitica di marca anglosassone ha
paventato sotto ogni profilo ed angolo d’analisi: il formarsi di un
macrosistema euro-asiatico. Il sistema euroasiatico, il 70% del
pianeta interrelato, farebbe degli Stati Uniti una periferia ed in
periferia si vive male, con poca libertà e limitata speranza. Quindi
gli USA faranno di tutto, fino all’estrema volontà mossa dalla più
profonda spinta imperativa ontologia, affinché non si saldi alcun
sistema tra Europa – Russia – Cina.
George F. Kennan, uno dei massimi strateghi
americani della guerra fredda, alla fine degli anni ’40 commentava
“Possediamo circa il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione … . In questo contesto, non possiamo che essere oggetto d’invidia e risentimento. Il nostro vero compito nell’immediato futuro è individuare un modello di relazioni che ci permetta di conservare questa posizione di disparità”.
Oggi, gli
americani sono solo il 4,4% della popolazione mondiale e la loro
percentuale di Pil è il 24% e scende costantemente di anno in anno.
C’è un limite a questa discesa, un limite oltre il quale l’intero
sistema americano e parliamo di economia ma anche di sociologia,
cultura, contratto sociale, tradizione storica, mentalità,
eterogeneità etnica e piramide delle classi con finto ascensore per
elevare la speranza e sopportare la sudditanza, si disintegra. Quel
limite non deve esser raggiunto per nessun motivo, costi quel che
costi, sapendo che a loro, al riparo tra due oceani, in una terra che
dall’agricoltura all’energia ha ampi margini di autosufficienza,
costerà sempre meno che a noi europei. I due occidenti si trovano
così e per la prima volta, in conflitto di interessi.
Queste le ragioni del primo confitto globale che
sarà lungo, aspro, cattivo, confuso e disordinante ma solo nella
migliore delle ipotesi. Altrimenti sarà breve il che però non è
una bella ipotesi per ragioni che si possono facilmente intuire.
Questa quella che Mao Zedong chiamava la “contraddizione
principale”. La pseudo-democrazia occidentale, il neoliberismo,
l’euro, Renzi, il PD, la Raggi, il battesimo del figlio di Vendola,
sono solo strati interni. Pensare globale per agire locale fu l’imput
distillato dal movimento alter-globalista. La sinistra occidentale
oggi è difficile dire se è meno capace di agire nel locale o di
pensare globale e forse l’una cosa dipende dall’altra.
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