Seconda e penultima incursione nel libro di Piero Paglini "Al Cuore della Terra e Ritorno".
Qui la prima parte del libro: Al Cuore della Terra 1
Il vecchio “secolo americano”
1. Bush padre e Bill Clinton avevano pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo
pseudo-rooseveltiano, rivitalizzando e
ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di
governo internazionali (tanto è vero che la teoria
di Paul Wolfowitz sulla guerra
preventiva benché già allora apprezzata non era
stata accolta per motivi politici).
Contando sulla scomparsa dell’Unione Sovietica,
con una Russia caratterizzata dallo
sbrago cleptocratico e compradore imposto da Boris
Yeltsin e, in definitiva, facendo
leva su credenziali economiche e politiche prive
di rivali, Bush Sr. nel 1991 riuscì senza
molti sforzi a far pagare la Guerra del Golfo ai
suoi alleati: 54,1 miliardi di dollari (otto
volte la cifra sborsata dagli Usa) e Clinton, otto
anni più tardi, riuscì a scagliare la Nato
contro la Serbia. Tuttavia, la guerra del Kosovo
aveva dimostrato che la comunità
internazionale iniziava a nutrire perplessità e ad
opporre resistenza rispetto al progetto
di egemonia planetaria statunitense, che metteva
in discussione l’ordine vestfaliano che
nel bene e nel male era il quadro della legalità
internazionale condiviso fino ad allora e
mai messo in discussione formalmente. I Russi,
ovviamente, erano molto preoccupati e
i Cinesi irritati. Ma anche i più forti stati
europei iniziavano a mostrare un entusiasmo
che decresceva di pari passo coi progressi del
progetto di moneta unica,
come d’altronde era stato “previsto”, con stizza e minacce, da Martin Feldstein,
poi consigliere di Bush Jr (cfr. “Il Sole 24 Ore”, 6-11-1997).
come d’altronde era stato “previsto”, con stizza e minacce, da Martin Feldstein,
poi consigliere di Bush Jr (cfr. “Il Sole 24 Ore”, 6-11-1997).
Certo, la fedeltà atlantica e il desiderio di non
inimicarsi gli Usa erano e sono ancora
fattori importanti, ma probabilmente nell’adesione
dei Paesi della Nato alle guerre dei
Balcani oltre alla fedeltà atlantica pesavano
ormai altri interessi sottaciuti e da non
sbandierare con leggerezza. Un ruolo importante
era giocato ad esempio dalla
riesumazione di vecchie e mai abbandonate
direttrici geopolitiche, come nel caso della
Germania da sempre interessata ai Balcani. Nel
caso dell’Italia invece si poteva
intravedere una ratatuie di puro servilismo verso
la superpotenza, di atavica piaggeria
verso il Vaticano (da ricordarsi le sue ingerenze
in Croazia), di opportunismo politico e
forse di qualche dose di volontà egemonica nei
confronti dell’Albania.
Ad ogni modo, si navigava ancora sull’onda della
belle époque finanziaria clintoniana,
che allora andava sotto il nome di “web economy”
(per i fraintendimenti che questa belle
époque ha generato. Ma le cose erano in corso di
veloce cambiamento.
2. Negli anni immediatamente seguenti si poteva
assistere a una serie di eventi
realmente da “fine millennio”: lo sgonfiamento
della bolla finanziaria clintoniana (il
famoso piano di “atterraggio morbido” del
Governatore della Fed, Greenspan),
l’introduzione dell’Euro come moneta scritturale
(gennaio 1999), la scalata al potere di
Vladimir Putin (che diverrà presidente della
Federazione Russa nel maggio del 2000), e
uno spostamento sempre più marcato dell’economia
mondiale verso l’Asia,
continente ormai centrato sulla Cina.
A quel punto gli Stati Uniti decisero di cambiare
marcia. Con la presa del potere di
Bush Jr e dei suoi consiglieri neocons, si ritornò
a una riedizione in grande della strategia
attuata dal presidente Truman all’indomani della
II Guerra Mondiale.
Così, come il New Deal universale e visionario di
Franklin D. Roosevelt era stato
ridimensionato da Truman in un più realistico
progetto di sistema gerarchico di stati
attuato su una parte ridotta del pianeta, il
cosiddetto “mondo libero”, allo stesso modo
ora i propositi blandamente neo-rooseveltiani di
Bill Clinton dovevano cedere il passo
al progetto di un sistema gerarchico di stati di
ampiezza planetaria, ciò che nella
letteratura prese per l’appunto il nome di “Impero
statunitense”.
Nel cosiddetto “movimento dei movimenti”, si
poteva invece assistere a una spensierata
confusione tra il significato di “impero” dato ad
esempio da Arundhati Roy o da Chalmers
Johnson (impero formale a guida statunitense) e il
significato designato dal libro di Hardt e
Negri, che era cosa ben differente e, soprattutto,
di là da venire. Ma tant’è: l’importante era
prendersela con un “impero”. Che poi quello
statunitense non avesse di fronte moltitudini
desideranti bensì persone in carne ed ossa che
venivano massacrate a centinaia di migliaia, la
cosa era evidentemente considerata grave ma
secondaria da un punto di vista politico e
analitico. Di fronte a questa inanità, non è
sorprendente che il New York Times abbia eccitato
i narcisismi mediatici in un tripudio gioioso e
strepitoso proclamando che il “movimento dei
movimenti” era la “seconda potenza mondiale”;
perché sapeva che lo era sì,
ma a Paperopoli.
Il progetto imperiale di Bush Jr era perseguito
con le stesse tinte nazionalistiche della
politica statunitense del secondo dopoguerra e con
lo stesso sfruttamento di un
supposto temibile nemico esterno: il comunismo nel
1946, il terrorismo internazionale
nel 2001. Condoleezza Rice aveva dunque ragione
quando paragonava il dopo 9/11 al
biennio 1946-1947: come Truman, Bush Jr si era
assunto il compito di condurre un
mondo in preda a forze centrifughe in una
struttura gerarchica di stati a guida Usa. Ma
il suo parallelo andava ben più in là di quanto
ella volesse far intendere. Infatti, se negli
anni Cinquanta il Sottosegretario di Stato, Dean
Acheson, aveva salutato la crisi di
Corea come una salvezza per il progetto
dell’amministrazione Truman,
l’Amministrazione Bush aveva tutte le ragioni per
salutare come una salvezza
l’attacco alle Torri Gemelle. E come abbiamo visto, i cinici cervelloni del Pnac
l’attacco alle Torri Gemelle. E come abbiamo visto, i cinici cervelloni del Pnac
lo avevano
invocato un anno esatto prima.
Tuttavia proprio gli amplissimi spazi di manovra
aperti dal collasso dello storico
contendente degli Stati Uniti, hanno in poco tempo trasformato il neo-unilateralismo
statunitense in un limite fondamentale all’esercizio del suo potere.
contendente degli Stati Uniti, hanno in poco tempo trasformato il neo-unilateralismo
statunitense in un limite fondamentale all’esercizio del suo potere.
Se infatti la strategia da Truman a Reagan si
basava sulla possibilità di ritagliarsi una
fetta di mondo su cui poter esercitare prima il
proprio dominio e, in seguito, la propria
egemonia, ora l’espansione globale di quella fetta
rischia di portare a ciò che è stato
definito “sovradimensionamento strategico”,
proprio nel momento in cui
si ritorna dall’egemonia al dominio.
si ritorna dall’egemonia al dominio.
3. La vulgata ha visto nella guerra in Iraq oltre
alla rapina delle risorse petrolifere di
quel Paese anche lo scenario per la realizzazione
di profitti grandiosi da parte dei sodali
di George Dubya Bush e dei loro fidi. Era un
continuo di denuncie di come un gruppo
privilegiato di aziende, in massima parte
statunitensi e legate agli uomini
dell’Amministrazione Usa di allora, si stavano
spartendo le enormi torte dell’invasione
e della “ricostruzione”. Ed era vero; ma se questo
aggiunge, se ancora possibile,
ulteriore discredito morale sulla cricca di Bush,
tuttavia si tratta per molti aspetti di
“business as usual”. Concentrarsi su questi
aspetti, indubbiamente spregevoli, può però
nascondere che le guerre di Bush, per quanto
necessarie come vedremo nella Sezione
VIII, non si stavano rivelando un buon affare per
gli Usa. Ed è per questo che c’era
bisogno del “nuovo corso” di Obama. Mantenere una
posizione imperiale ha dei costi
enormi. Ma come è ovvio il problema non è “quanto
costa”, bensì “chi paga”;
e ciò dipende da chi ha il potere di far pagare.
Chi sta allora pagando
il progetto neo-imperiale statunitense?
C’è stata fin da subito una grande riluttanza da
parte degli alleati degli Stati Uniti a
sostenere finanziariamente la guerra in Iraq. In
compenso la guerra costa agli Usa uno
sproposito. Nel loro libro “The Three Trillion
Dollar War”, l’ex Senior Vice President e Chief
Economist della Banca Mondiale, oltre che premio
Nobel per l’Economia, Joseph E.
Stiglitz e Linda Bilmes dell’Università di
Harvard, avevano previsto che alla data del 30
settembre 2008 – ovvero quando si sarebbe chiuso
l’anno fiscale – in base alle richieste
complessive avanzate al Congresso degli Stati
Uniti dall’Amministrazione Bush, il conflitto afgano e quello iracheno
avrebbero inciso complessivamente sul bilancio
federale per un ammontare pari a 845 miliardi di
dollari (al valore del 2007). Una cifra
notevolissima, se si pensa che secondo il servizio
statistico del Congresso i 12 anni di
guerra nel Vietnam sono costati 670 miliardi di
dollari (sempre al valore del 2007). Ma
è una cifra che impallidisce di fronte alle
previsioni tra oggi e il 2017 (comprendenti
anche i costi nascosti come le spese
assistenziali, sanitarie o psicologiche, per i reduci):
fra le 1,7 (nelle “condizioni più favorevoli”)
alle 2,7 migliaia di miliardi di dollari (secondo
uno scenario “realistico-moderato”). E come se non
bastasse il calcolo aggiornato ha
portando il range delle stime a ben 4-6 sei
trilioni di dollari.
A dispetto di queste cifre da capogiro, anche i
più fedeli alleati degli Usa, ad
eccezione del vassallo più sicuro, gli UK, fecero
orecchie da mercante già durante la
ridicola “conferenza dei donatori” dell’ottobre
2003 quando pure si pensava che la
guerra costasse ordini di grandezza inferiori.
Infatti, l’allora segretario di stato Colin
Powell aveva posto come obiettivo 36 miliardi di
dollari ma si ritrovò con un pugno di
mosche: gli ex grandi donatori della Guerra del
Golfo, Germania e Arabia Saudita in
testa, si comportarono da veri spilorci. Il
Giappone fu il più munifico:
1,5
miliardi di dollari, un niente se confrontato ai 13 miliardi di dollari di 12
anni prima
e una miseria se si deflaziona la cifra.
4. Si stava dunque delineando una crisi di
capacità egemonica di misura epocale messa
in risalto proprio dal fatto che gli Stati Uniti
avevano da poco convinto l’Onu a
riconoscere una certa legittimazione alla presenza
della coalizione in Iraq e quindi
formalmente il quadro giuridico non era più quello
di un’arrogante unilateralità. Una
legittimazione formale ampliava una
delegittimazione di fatto. Anche la “coalizione dei
volenterosi” si era dimostrata risibile sul campo:
dei 28 paesi alleati nei primi due anni,
solo otto avevano inviato più di 500 soldati. A
questa crisi di capacità egemonica non
corrispondeva però una volontà politica di
opposizione all’egemonismo statunitense. Il disallineamento tra riluttanza economica e
appeasement politico era dovuto
proprio all’espansionismo Usa.
Secondo un’espressione molto esplicativa e
pittoresca di Giovanni Arrighi, la azioni
statunitensi erano ormai viste come causa di
disordine internazionale e gli Stati Uniti
stessi come un boss di quartiere che offre
protezione contro il disordine
da lui stesso provocato o minacciato.
da lui stesso provocato o minacciato.
Oltre che
al lato politico-militare della faccenda questo sospetto si applica benissimo
anche
al lato politico-finanziario. Se questo è vero, non penso che si spinga il ragionamento
al lato politico-finanziario. Se questo è vero, non penso che si spinga il ragionamento
troppo
oltre la realtà, se si ipotizza che per quanto riguarda Cina e Russia,
il caos iracheno fosse visto come fonte di un
doppio vantaggio.
In primo luogo un’America impantanata negli
isolati Iraq e Afghanistan era uno
spettacolo ancora più desolante di un’America
impantanata nel Vietnam. In secondo
luogo, iniziare le guerre in Afghanistan e Iraq in
una posizione debitoria internazionale
senza precedenti sulla carta era una mossa
azzardata da parte degli strateghi neocons.
Usiamo una formula dubitativa, perché l’azzardo
deriva da un intreccio di circostanze,
non da un presunto rapporto diretto che
sussisterebbe in ogni contesto tra la
situazione economica-finanziaria di uno Stato e la
sua potenza.
Abbiamo accennato alla capacità degli Usa di uscire
in vantaggio (grazie a una guerra
mondiale) dalla crisi del ’29, e possiamo anche
ricordare che durante le guerre francesi tra il
XVIII e il XIX secolo la posizione di comando
sulla finanza europea che la Gran Bretagna
aveva strappato all’Olanda con duri conflitti,
unitamente alle innovazioni di prodotto e alla
diffusione della meccanizzazione, riuscì a
garantire all’Inghilterra il flusso dei crediti e a
convertire il suo indebitamento in un fattore di
possente crescita, di sovranità e infine di
vantaggio che sarebbe sfociato nell’egemonia
mondiale britannica per circa un secolo (nel
1793 gli interessi sul debito impegnavano almeno
il 75% del bilancio della Gran Bretagna,
eppure la sua spesa pubblica tra il 1792 e il 1815
poté aumentare di circa sei volte,
grazie al credito di cui godeva). Inoltre, erano quarant’anni che gli Usa traevano
benefici
dalla loro posizione debitoria grazie al
predominio politico- militare.
Tuttavia si poteva sperare che la debolezza economica
spingesse gli Usa verso un
ripiegamento, per lo meno temporaneo. Negli stessi
Usa si temeva che la dipendenza
economica corresse il rischio di trasformarsi in
vincolo politico sulla loro capacità di
manovra. Un rischio che possiamo comprendere meglio
se consideriamo quanto era
successo storicamente durante i lunghi anni di
crisi sistemica dell’egemonia britannica.
Anche la declinante Gran Bretagna, tra la fine del
XIX e l’inizio del XX secolo, aveva
reagito con vari conflitti al declino della sua
egemonia. Innanzitutto con nuove
conquiste coloniali e, infine, con l’aperto
confronto con lo sfidante europeo: la
Germania. Ma persino i limitati conflitti
coloniali erano stati affrontati dall’Inghilterra
partendo da una situazione di bilanci in attivo,
da un’Europa e un’America in larga
misura ancora dipendenti da lei e quindi da una
situazione politico-economica ideale.
Questa posizione vantaggiosa le era garantita
dalla spoliazione diretta dell’India e
delle altre colonie e indirettamente di altri
ricchi paesi, come la Cina. Generalmente si
pensa che in quei due colossi asiatici la Gran
Bretagna operasse prevalentemente un
saccheggio di materie prime, iniquo quanto si
vuole, ma tutto sommato d’importanza
non direttamente strategica, che inoltre
comportava uno sforzo del Paese
conquistatore per la costruzione di infrastrutture
e per l’amministrazione del Paese
colonizzato. Le cose invece stavano diversamente.
Alla vigilia della conquista del Bengala, l’India
incideva per il 22,6% sul Pil mondiale
e per il 32% sul prodotto manifatturiero mondiale,
mentre la Cina incideva
rispettivamente per il 23,1% e il 32,8%. L’India
fu conquistata direttamente e la Cina
indirettamente da una nazione, l’Inghilterra, che
in quel momento poteva vantare una
misera quota di Pil mondiale pari all’1,9% ma
poteva contare su una straordinaria
capacità in un altro settore, cioè nell’arte
criminale, l’arte di fare la guerra. Bastano questi
dati per ridicolizzare ogni discorso
economicistico nell’analisi delle dinamiche capitalistiche.
A quei tempi India e Cina
A quei
erano le maggiori potenze
economiche mondiali ma non erano
avvezze a guerre continue come invece lo eravamo
noi nella Vecchia Europa.
Così dopo la conquista dell’India e dopo i
trattati iniqui con la Cina che seguirono le
Guerre dell’Oppio, da queste impressionanti
potenze economiche iniziò un ingente
travaso di risorse finanziarie. Dall’India questo
travaso avveniva direttamente
sotto forma di “debito”: 51 milioni di sterline nel
1857, 97 milioni nel 1862, 224 milioni
nel 1900, 274 milioni nel 1913, 884 milioni nel
1939 (e solo una parte molto modesta di
questo debito veniva spesa per l’India: ferrovie,
irrigazione, .... Altro che “fardello”!).
Questo è il primo aspetto della rapina. Il secondo
è invece quello degli input per
l’industria del centro alimentata dalla finanza,
ovvero del rifornimento
di capitale
circolante (prodotti alimentari e materie prime).
5. Se quindi non si considera il ruolo dell’Impero
nella capacità britannica di giocare la
funzione di potenza capitalistica economica,
politica e militare egemonica,
non si può pensare di capire cosa succede adesso.
non si può pensare di capire cosa succede adesso.
Gli Inglesi erano perfettamente consapevoli che
senza la ricchezza rapinata
sotto forma di “debito indiano” e di uomini
sequestrati come manodopera militare, cioè
come soldati arruolati e mantenuti dall’India
stessa, non avevano chance, mentre con
l’India a disposizione potevano sia porsi al
centro dei meccanismi mondiali di
accumulazione sia affrontare ogni tipo di
conflitto armato. Ne erano talmente
consapevoli da esserne ossessionati. Solo così si
spiega l’inflessibilità meccanica (e
disumana) della riscossione delle tasse indiane,
persino in periodi di drammatica carestia.
Era così importante l’approvvigionamento di
risorse dall’Asia per mantenere
l’egemonia economica, militare e politica della
Gran Bretagna, che il Maresciallo
Montgomery, nelle sue memorie sulla II Guerra
Mondiale, afferma che se la Germania
avesse occupato l’Inghilterra sarebbe stato un
duro colpo, ma non mortale: c’era già il
piano per trasferire il governo nel Canada da dove
proseguire la lotta. Ma se la
Germania avesse tagliato in due l’Impero, isolando
la parte occidentale dall’India, la
Gran Bretagna avrebbe dovuto firmare la resa il
giorno dopo. Per fortuna Hitler
seguiva pedissequamente gli insegnamenti di von
Clausewitz che prescrivevano di
concentrare lo sforzo bellico nel teatro
principale del conflitto. Dato che il Führer era
convinto che il teatro principale fosse l’Europa,
gettò le sue armate nella trappola russa
e fu così che tra il 1942 e il 1943 la Wehrmacht
fu battuta dall’Armata Rossa senza più
possibilità di riprendersi e l’Impero britannico
rimase integro.
Ciononostante l’Inghilterra fece male i conti: i
prestiti elargiti allo Zar durante la I
Guerra Mondiale non vennero riconosciuti dal
governo sovietico, le due guerre
mondiali costarono molto di più di quanto previsto
e così il credito nei confronti
dell’India finì inesorabilmente per trasformarsi
in debito e l’Inghilterra fu costretta a
indebitarsi finanziariamente e politicamente anche
con gli Usa. Tuttavia, per lungo
tempo il possesso dell’India aveva permesso
all’Inghilterra di essere il centro
economico, finanziario, politico e militare del
mondo e di proseguire con le sue guerre
di espansione coloniale. Al contrario
dell’Inghilterra, gli Usa non hanno mai posseduto
un impero coloniale, ma solo il proprio impero
continentale, cioè gli Usa stessi.
Dovettero perciò agire in altro modo.
Come vedremo più in dettaglio, a partire dalla
fine dell’amministrazione Carter per
supplire alla crisi, innanzitutto di potenza e poi
economica, gli Stati Uniti divennero i maggiori
rastrellatori di risorse finanziarie del pianeta,
prima attorno allo strabiliante rilancio
della spesa militare durante la cosiddetta Seconda
Guerra Fredda voluta da Reagan, poi
con le politiche di liberalizzazione globale
promosse da Reagan e Bush padre; infine
grazie alla “New economy” (alias “espansione
borsistica”) clintoniana e alla successiva
Nel frattempo l’economia statunitense per quanto
riguarda i settori a bassa o media
tecnologia e a medio-alta intensità di lavoro
diventava sempre meno competitiva, così
che il mercato americano veniva sempre più invaso
dai prodotti esteri, innanzitutto
cinesi, mentre le aziende multinazionali
statunitensi decentravano intere linee all’estero,
col risultato che il deficit commerciale Usa nei
confronti di ogni altra nazione di peso
della Terra iniziò ad aumentare progressivamente
dalla metà degli anni Novanta. Una
situazione che gli Stati Uniti dovevano però
rovesciare a proprio vantaggio.
Attualmente gli Stati Uniti hanno bisogno di
essere foraggiati dall’estero nella misura
di due miliardi di dollari al giorno e si trovano
a dover affrontare un deficit di
competitività anche nei settori ad alta
tecnologia. In compenso al gennaio 2012, 5048
miliardi di dollari pari a più del 36% del debito
pubblico americano è posseduto da
governi stranieri. Di questa cifra quasi il 23% è
in mano alla Cina e il 21,7% al
Giappone. Bisogna far notare che la quota cinese è
superiore a quella complessiva di
Inghilterra, Germania, Russia e Svizzera con
l’aggiunta di tutti i Paesi produttori di petrolio.
Gli Stati Uniti riescono a mantenere una posizione
di leadership grazie al fatto che
nessun creditore ha interesse a far fuori il suo
più grande debitore e, ben più
importante, perché non c’è ancora nessuno che gli
contesti apertamente l’egemonia
mondiale politica, diplomatica, militare e
finanziaria. Ciò ovviamente ha anche un
risvolto economico; un risvolto che tuttavia è
comunemente interpretato
come la radice del problema.
come la radice del problema.
6. Se la strategia imperiale dei neocons
statunitensi si è concretizzata in una tragedia per
gli Afgani e gli Iracheni, vittime di sofferenze
vergognose che generalmente vengono
sottaciute o negate dalla stampa e dai politici
occidentali, bisogna anche sottolineare
che i suoi ritorni sembrano aver disatteso le aspettative.
Ad esempio, il controllo
dell’Iraq non pare abbia finora liberato capacità
aggiuntiva di produzione
di petrolio o fornito molti vantaggi strategici.
di petrolio o fornito molti vantaggi strategici.
Al contrario, ha indotto nuovi problemi al sistema
di dominio statunitense, come il
progetto di pipeline Iran-Pakistan-India con
possibile diramazione verso la Cina - un
incubo per gli Usa, che per ora lo hanno fermato
con gli accordi di collaborazione per
il nucleare civile con l’India - e un’accentuata
dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia.
Se si tiene conto di questi elementi e del fatto
che la Russia è riuscita a ristabilire la sua
storica egemonia sulle repubbliche centroasiatiche
(persino sull’Uzbekistan, che appariva
ormai perso), repubbliche incastonate come
gioielli geopolitici tra Medio Oriente, Russia e
Cina e a poca distanza dall’India, allora non è
difficile capire come mai queste siano oggetto
delle attenzioni dei mestatori che fanno capo ai
servizi di intelligence statunitensi, spesso
travestiti da non-violenti e da Ong per i diritti
umani, dediti alle “rivoluzioni colorate”.
Dato che i combustibili fossili giocano in mille
ragionamenti, da quelli geopolitici a
quelli ecologici, è necessario aprire una finestra
su questo punto specifico.
Iniziamo facendo notare che storicamente ogni
sconvolgimento in Medio Oriente ha
generato una spinta verso l’alto del prezzo del
petrolio.
E’ evidente che dopo il “mission accomplished” di
Bush, il prezzo del greggio è iniziato
inesorabilmente a salire sino a livelli
impensabili, per poi discendere non
semplicemente per via della crisi, come di solito
si pensa, ma perché gli Usa hanno
capito che questo aumento fantascientifico era
un’arma geopolitica a doppio taglio.
La recente impennata del prezzo del greggio è
stata generalmente attribuita alla
richiesta cinese e degli altri Paesi emergenti, in
special luogo l’India, che però sembra
aver concorso in modo relativo all’aumento del
costo del petrolio. Esistono infatti altre
dinamiche che devono essere valutate.
Probabilmente c’è stata la tentazione di
condurre una fase della partita giocando sul
prezzo del petrolio ma ci si è in poco
tempo accorti che stava diventando in un gioco
rischioso. L’economia della Cina e
quella degli Usa erano troppo strettamente intrecciate
e, in compenso, l’aumento del
greggio favoriva enormemente la Russia, competitor
meno integrato, con grande
autonomia energetica e quindi più preoccupante.
Tuttavia l’arma dell’aumento del
prezzo del petrolio era stata usata nel 1973 da
Nixon e si poteva basare su un
meccanismo collaudato che esamineremo più avanti.
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