Un primo approccio critico alla questione
dell’utero in affitto.
Senza la promessa di un suo
ulteriore approfondimento.
***
«A parte le difficoltà tecniche e mediche»,
dichiarava qualche mese fa
Karine Chung, della
University of Southern
California’s Keck School of Medicine,
«non vedo nessun motivo
etico per respingere l’idea di eseguire un trapianto di utero in un
paziente maschio. Un paziente maschio che desideri fare l’esperienza
della gravidanza ha il diritto di poterla vivere. Le difficoltà non
sono poche, visto che l’anatomia maschile e femminile non sono
proprio analoghe. Probabilmente tra cinque o massimo dieci anni
qualcuno prima o poi sarà in grado di farlo» (Marie claire,
dicembre 2015).
«Ma tra gli ostacoli all’effettiva realizzazione
dell’intervento c’è il fattore economico» (Tgcom24, 4
dicembre 2015).
Allora siamo a cavallo: infatti, è nella natura del
Capitalismo abbassare progressivamente i prezzi dei beni e servizi.
Forse non dovremo aspettare il Ventinovesimo secolo, come pensava J.
K. Jerome nel 1891, per vedere La nuova utopia egalitaria:
«In questi giorni felici, gli uomini non solo hanno imparato a
essere eguali, ma anche ad apparire eguali, per quanto è possibile.
Facendo in modo che tutti gli uomini siano ben rasati, e che tutti
gli uomini e tutte le donne abbiano i capelli neri, tagliati alla
stessa lunghezza, noi rimediamo, fino a un certo punto, agli errori
della Natura».
Mi scuso con il lettore per questa frivola
introduzione a una “problematica” molto seria. E mi scuso anche
per le ripetizioni formali e concettuali contenute nel testo; si
tratta in effetti di appunti presi alla rinfusa nell’arco di
diverse settimane. D’altra parte ripetere può forse giovare a
spiegare meglio la mia posizione su un tema così scottante e
controverso. Forse!
1. La teoria del piano inclinato e della
deriva (economica, politica, etica, antropologica) praticata da
molti intellettuali di
“destra” e di
“sinistra” conferma come
il riflesso conservatore e
il Principio d’ordine (sociale, morale,
psicologico, antropologico) siano sempre in agguato quando non si ha
chiara coscienza circa i rapporti sociali che oggi informano l’intera
nostra esistenza, e in tutto il pianeta. Il corretto punto di
partenza non è chiedersi
«di questo passo dove andremo a finire»
(
«La deriva dell’inimmaginabile è imboccata», scriveva ad
esempio
Annalisa Borghese nel 2014), ma piuttosto cercare di capire
dove già siamo finiti. Quando si affrontano le grandi
questioni connesse ai temi cosiddetti eticamente ed
antropologicamente sensibili, a cominciare dalla
mercificazione
della nostra vita, tenuta in ostaggio dal
Dio denaro, si omette, o
si sottovaluta grandemente la necessità di prendere in
considerazione la natura
radicalmente disumana del
Capitalismo, al quale certo si possono dettare leggi e regole di
comportamento, così da frenarne, imbrigliarne e correggerne in
qualche modo
“gli eccessi”. Questi tentativi sono però
destinati, nell’essenza, al fallimento più clamoroso per un
semplice motivo: i cosiddetti
“eccessi” mostrano in realtà la
vera e più intima natura del
Moloch. Ecco perché mi fanno sorridere
quelli che teorizzano la falsa antitesi fra
modernità (cosa
bella e giusta) e
ipermodernità (cosa brutta e ingiusta).
La vera antitesi è fra l
’attualità del Dominio e la
possibilità della liberazione universale degli individui,
in tutto il pianeta.
In ogni sfera della nostra esistenza l’eccezione
getta un potente fascio di luce sulla regola: si tratta, se
mi è concesso esprimermi in modalità contraddittoria
(“dialettica”?), di non distogliere lo sguardo dall’accecante
verità. Inutile dire che invece ci regoliamo diversamente, facciamo
cioè esattamente quello che ci suggerisce la sirena della minor
resistenza: puntare gli occhi altrove, alla ricerca di
risposte già confezionate (ce ne sono per tutti i gusti politici ed
ideologici), quelle che ci promettono cambiamenti «graduali ma
certi» della situazione, seguendo metodi che non intaccano una
routine esistenziale che evidentemente, tutto sommato, ci piace: dopo
tutto paghiamo i politici e gli esperti perché siano loro a
prendersi cura dei nostri problemi, intanto che noi studiamo,
lavoriamo, paghiamo le tasse, mettiamo al mondo figli e così via.
A mio avviso, e così tento una prima incursione
nel merito della questione, la vicenda rubricata come Utero in
affitto non «ci interroga con forza e prima di tutto sullo
statuto del figlio», come sostiene dalla sua peculiare prospettiva
scientifica lo psicanalista Giancarlo Ricci, autore del libro Il
padre dov’era. Le omosessualità nella psicoanalisi (Sugarco);
ci interroga piuttosto «con forza e prima di tutto sullo statuto»
dell’individuo creato a immagine e somiglianza del Dominio. Sto
parlando di tutti noi, sia ben chiaro.
Prima ancora che giuridico, simbolico e
antropologico il problema è schiettamente e radicalmente sociale,
investe cioè l’essenza stessa della nostra società, la cui
dimensione mondiale è oggi una realtà e non più una
bizzarra/visionaria ipotesi marxiana.
Più che sulla «mancanza ontologica della
condizione di madre» (Ricci) nel caso della pratica dell’utero in
affitto, invito il lettore a riflettere, anche in relazione a
quel problema specifico, sulla «mancanza ontologica della
condizione» di uomo, dell’«uomo che non è ancora un essere
umano» (Marx), dell’individuo atomizzato e massificato che non
controlla con la propria testa e con le proprie mani la Cosa che pure
esso stesso crea sempre di nuovo, peraltro con l’ausilio di mezzi
tecnici e organizzativi sempre più razionali, scientifici,
“intelligenti” – a dimostrazione che nella società classista
in generale e in quella capitalistica in particolare la razionalità,
la scienza e l’intelligenza devono piegarsi sempre e puntualmente
alle necessità dell’economia e del Potere: vedi, fra l’altro, le
carneficine belliche del XX secolo.
È giusto sostenere che non tutto
ciò che la tecnica e la scienza rendono possibile è anche
eticamente e umanamente desiderabile; ma se non si scorge la Potenza
sociale che sta dietro, prima, sopra e sotto la tecno-scienza cadiamo
in quel feticismo tecnologico (peraltro intimamente
imparentato con il feticismo della merce e del denaro che considera
l’una e l’altro come cose e non come rapporti sociali)
che ci condanna all’impotenza sociale e concettuale nello stesso
momento in cui ci armiamo per andare a duellare con i mulini a vento
di turno: la televisione, le biotecnologie, Internet, gli organismi
geneticamente modificati, ecc., ecc. Si tratta piuttosto di
umanizzare la tecnica e la scienza, di porle davvero e per
la prima volta nella storia (o «preistoria») al servizio dei
molteplici bisogni, desideri e speranze degli uomini, cosa
impossibile senza fuoriuscire dalla vigente dimensione classista e
capitalistica.
2. Per evitare fraintendimenti di sorta e per
offrire all’interlocutore la corretta chiave di lettura di queste
righe, ne anticipo la conclusione politica. Mentre le
“femministe
storiche”, coerentemente al loro punto di vista filosofico e
politico che non mette in discussione la
continuità del Dominio
(capitalistico, non semplicemente e genericamente
patriarcale),
fanno appello alle classi dirigenti nazionali e internazionali (dai
Parlamenti all’ONU) per mettere al bando lo sfruttamento sessuale
della donna (dalla prostituzione all’utero in affitto), chi scrive
pensa invece che solo l’autonoma iniziativa dei nullatenenti, al di
là della loro divisione per sesso, razza, nazionalità e religione,
può davvero
1) porre un argine a ogni genere di sfruttamento e
2)
preparare le condizioni per il superamento di quei rapporti sociali
che oggi rendono possibile
l’universale prostituzione degli
individui.
Il punto di vista critico-radicale (o
semplicemente “rivoluzionario”) che sostengo non equivale ad
assumere un atteggiamento di spocchiosa ed elitaria indifferenza nei
confronti delle rivendicazioni parziali di qualsiasi genere:
sindacali, politiche, “civili” e quant’altro; significa
piuttosto approcciare le contraddizioni sociali che generano quelle
rivendicazioni, e dunque queste stesse rivendicazioni, da una
prospettiva concettuale e politica che non conceda alcuna attenuante
a questa società, che, detto in altri termini, non contribuisca a
creare, soprattutto “nella testa e nel cuore” dei dominati,
illusioni circa una sua possibile “umanizzazione”.
La risposta
alla sempre più spinta disumanizzazione della nostra esistenza non
si trova né nel passato né in un futuro concepito come mera
estensione temporale dell’attuale status quo sociale: essa
va costruita a partire dal superamento della divisione classista
degli individui, la quale necessariamente presuppone e pone sempre di
nuovo relazioni e prassi di dominio e di sfruttamento.
Necessariamente.
Leggere e ascoltare la posizione che con «estrema
indignazione» stigmatizza lo sfruttamento sessuale delle donne
assunta da chi non ha mai avuto nulla, ma proprio nulla, da dire
sullo sfruttamento e sull’oppressione sociale degli individui più
che ridere mi stimola fisiologicamente, diciamo. Da “destra” e da
“sinistra” mi arriva addosso un’ondata di ipocrisia che per
fortuna ho imparato a cavalcare. Ma i sommersi sono tanti.
3. So benissimo di affrontare una
“problematica”
assai controversa, che si presta a diverse letture e a molteplici
valutazioni d’ordine etico e politico, molte delle quali
personalmente considero interessanti e feconde anche quando prendono
le mosse da presupposti filosofici (incluse visioni religiose del
mondo) e politici molto lontani dalla mia prospettiva. Non pretendo,
insomma, di dire
“la cosa giusta”, di affermare una posizione
univoca, esauriente, priva di contraddizioni interne, sulla questione
che sto trattando, peraltro in una forma molto sommaria e sintetica;
intendo, molto più modestamente e realisticamente (ossia alla mia
portata), contribuire a impostare
in un certo modo il tema,
a inquadrarlo, a metterlo a fuoco, così che la riflessione possa
dispiegarsi tenendo conto di ciò che
ai miei occhi appare
alla stregua di un’indiscutibile verità (ne ho poche, il lettore
mi consenta di esternarne almeno una):
la natura classista e
disumana della vigente società.
Ecco, quando riflettiamo sui
problemi e sulle contraddizioni del mondo, e soprattutto sui problemi
e sulle contraddizioni che ci toccano
personalmente e
quotidianamente, cerchiamo di non perdere mai di vista
l’essenza disumana dei rapporti sociali che determinano,
«in
ultima analisi», i nostri comportamenti e le nostre scelte – il
più delle volte si tratta di
“scelte obbligate”, anche quando
esse ci sembrano ispirate dalla massima libertà.
Come ho scritto
altre volte, cerchiamo di essere più indulgenti con le nostre e con
le altrui magagne personali (contraddizioni, debolezze, paure,
idiosincrasie, paranoie, angosce, scorrettezze d’ogni genere) e
molto più severi nel giudicare la società che non ci permette di
vivere secondo umanità. Lo so, è un discorso che si scontra con la
dominante etica della responsabilità personale, quella che ci invita
a essere bravi e onesti cittadini – o soldatini – kantiani.
«Tutto il pathos dell’imperativo categorico kantiano si riduce a
ciò, che l’uomo fa “liberamente”, cioè per intima
persuasione, quello a cui sul piano del diritto verrebbe costretto a
fare» (
E. B. Pašukanis).
Mi si potrebbe giustamente obiettare:
«Ma
sulla base del tuo ragionamento politico e del tuo approccio etico ai
problemi sociali non si governa un Paese; al massimo si può fare una
rivoluzione». Esatto! D’altra parte di realisti e pragmatici è
pieno il mondo; e, infatti, ecco i bei risultati che abbiamo sotto
gli occhi…
Certo, si potrebbe anche pensare che sostengo
l’essenziale (radicale) irresponsabilità individuale,
beninteso posto un regime di universale illibertà (ricordate la
Banalità del male di Hannah Arendt?), non per intime
convinzioni etico-filosofiche ma, molto più prosaicamente,
egoisticamente e in armonia con i tempi, pro domo mea.
Ebbene, chi sono io per stigmatizzare una simile interpretazione?
4. Quando ci relazioniamo con i problemi posti
alla società e ai singoli individui dalla sessualità, dai rapporti
di coppia, dalla cosiddetta genitorialità e così via ci
confrontiamo con una costellazione di problemi che, a mio avviso,
hanno assai poco a che fare con la natura
“in sé” delle cose e
delle persone mentre molto a che fare hanno invece con la
prassi
sociale umana colta e
“declinata” nella sua ricca e assai
mutevole molteplicità.
Sotto questo aspetto è corretto dire, ad
esempio, che non c’è nulla di meno naturale e di più sociale
dell’istituto familiare, ed è sufficiente leggere qualsiasi serio
testo di
storia sociale della famiglia (ma anche il
Vecchio
Testamento va benissimo!) per rendersi conto di quanto
concettualmente ridicole e politicamente strumentali siano le tesi
difese in questi giorni dai sostenitori di una mitica
«famiglia
tradizionale» o
«naturale». Non c’è, insomma, una naturalità
da preservare nei rapporti fra gli esseri umani ma piuttosto una
dimensione autenticamente umana da conquistare per questi stessi
rapporti.
Detto in altri termini, il problema si riduce, diciamo
così, alla
qualità dei rapporti sociali, il che mi porta
dritto a questa dirimente domanda: possiamo pretendere dalle
istituzioni, qui genericamente intese, dalle pratiche sociali d’ogni
tipo e dagli individui comportamenti autenticamente umani nella
società informata da rapporti sociali disumani? Io penso, con
Adorno, che
«Non si dà vera vita nella falsa». Per
«vera vita»
Adorno intendeva, sulla scorta della migliore tradizione filosofica
umanista mondiale, la vita
«dell’uomo in quanto uomo», il quale
rimane ancora uno splendido progetto, una meravigliosa
possibilità
– peraltro sempre più negata, sebbene sempre più fondata sul
terreno economico, scientifico, tecnologico: ciò che
nega
allo stesso tempo
promette.
Quando parlo di comportamenti «autenticamente
umani» non intendo evocare sciocche e infantili utopie circa l’uomo
perfetto o la società perfetta: parlo piuttosto della possibilità
di un uomo che, innanzitutto, viva in una comunità che non conosca
la divisione degli individui in classi sociali, e che quindi produca
e distribuisca i beni (materiali e immateriali) secondo i bisogni e
non secondo la «bronzea legge del valore». Oggi è con la società
fondata sulla ricerca del massimo profitto che abbiamo a che fare;
oggi, quando ci troviamo a dover ragionare su qualsivoglia argomento
(economico, politico, ideologico, scientifico, culturale, etico,
psicologico, “antropologico”) non possiamo prescindere dal
considerare la mostruosa (disumana) potenza del denaro, la Cosa che
può comprare tutte le altre cose («Ma la Cosa è un rapporto
sociale!»).
Conosco molte persone che pur sapendo molto meglio di me
quanto appena sostenuto, non ne tengono però in alcun conto, o solo
marginalmente, quando si tratta di dar conto di questioni
apparentemente particolari, soprattutto quelle che in qualche modo
riguardano appunto i temi «eticamente o antropologicamente
sensibili».
Personalmente non vedo niente di progressivo
(tutt’altro!) nei processi sociali che svuotano di significato e
che disarticolano la «famiglia tradizionale», la quale un tempo
prometteva agli individui strapazzati dai meccanismi sociali almeno
un’apparenza, un simulacro di rifugio, un’estrema difesa nei
confronti delle forze sociali esterne: oggi è proprio la distinzione
fra interno ed esterno (riferita anche al singolo individuo: vedi il
corretto, non modaiolo, concetto di biopolitica) che non
regge alla prova dei fatti. E quando dico oggi intendo
riferirmi a una intera epoca storica: quella borghese, la quale, come
aveva ben capito Marx, si distingue dalle altre epoche storiche per
il carattere «rivoluzionario» dei rapporti sociali che la
connotano: nulla, salvo il dominio del Capitale, può conservarsi
inalterato per troppo tempo, tutto deve continuamente cambiare sotto
la sferza delle sempre più forti, impellenti e totalitarie
necessità economiche.
Tutto questo è vero e bisogna lasciare agli
apologeti dei diritti a tutto e su tutto le
illusioni intorno a un avanzamento di progresso che esiste solo nelle
loro teste arcobaleno.
Estendere l’istituto matrimoniale anche alle
coppie dello stesso sesso ha a che fare con i diritti patrimoniali
borghesi (auguri e figli… come il politically correct
vuole!), ma non mi si venga a parlare di un avanzamento di progresso
umano.
Ciò detto non è certo invocando un impossibile –
e non desiderabile, almeno per chi scrive – ritorno al passato che
possiamo venire fuori dal vero e proprio cul de sac
esistenziale nel quale ci siamo cacciati.
«Come accade per tutte le forme di mediazione tra
singolarità biologica e totalità sociale la famiglia, nel suo
contenuto sostanziale, viene risussunta a proprio conto nella
società. La crisi della famiglia è d’ordine sociale; e non è
possibile negarla, o liquidarla come semplice sintomo di
degenerazione e decadenza. […] La crisi della famiglia è crisi
integrale dell’umanitarismo. […] La famiglia soffre di ciò come
ogni particolare che preme verso la propria liberazione: non vi sarà
emancipazione della famiglia senza emancipazione della totalità
sociale» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia,
Einaudi, 2004).
Di qui, la disillusione di quelle femministe che si
erano illuse di poter emancipare la società intera attraverso la
cosiddetta emancipazione della donna. Cosiddetta perché più di una
emancipazione nel significato più profondo del concetto si è
trattato piuttosto di una modernizzazione del ruolo della
donna funzionale al progresso della società – capitalistica.
Condividere la stessa cattiva condizione esistenziale del maschio
(con relativo declino dell’“autostima” di quest’ultimo,
evidentemente appesa al nulla di un’esistenza sempre più disumana
– per tutti: uomini e donne) non mi sembra un acquisto
rivoluzionario per le donne. Sto forse insinuando che la donna “stava
meglio quando stava peggio”? Per un simile atteggiamento mentale
(passatista, conservatore, reazionario, stupido) bisogna
bussare alla porta di qualcun altro, non alla mia.
5. Inaspettatamente – ma non certo per chi
scrive –
Giuseppe Vacca e
Mario Tronti hanno ripreso le vecchie
posizioni del
PCI (da
Togliatti a
Berlinguer) per denunciare gli
aspetti
«più delicati e controversi» della legge sulle unioni
civili in discussione in questi giorni al senato.
«Le riserve di due
intellettuali di cultura comunista del calibro di Vacca e Tronti
arrivano da lontano, da una radice che ha avuto una profonda
influenza nella storia politica italiana, la radice del realismo
incarnata dal leader del Pci Palmiro Togliatti che nel dibattito
sulla Costituente nel 1947 disse: “Per noi la semplice unione
dell’uomo e della donna non è condizione sufficiente per la
formazione della famiglia. […] La famiglia per noi esiste soltanto
quando è fondata sul vincolo matrimoniale”. Una impostazione
pragmatica e tradizionalista ripresa da Enrico Berlinguer nella sua
opposizione al referendum sul divorzio del 1974, sostenuto invece
dalla corrente libertaria della sinistra italiana, quella radicale e
socialista» (
F. Martini, La Stampa, 1 febbraio
2016).
Ovviamente solo chi sconosce completamente il significato
della parola
comunismo e, cosa assai più
“riprovevole”,
lo associa senz’altro allo stalinismo, magari nella sua variante
italiana (togliattiana), può parlare, riferendosi a
Vacca e a
Tronti, di
«due intellettuali di cultura comunista». Sono talmente
“comunisti” e
“marxisti”, quei due grossi calibri
dell’intellighentia sinistrorsa nostrana, da scendere in campo in
difesa della
«tradizione millenaria della famiglia, dal Medioevo in
avanti».
Vacca, in particolare, teme
«la deriva nichilista della
sinistra» sui temi antropologici:
«Giuseppe Vacca è un filosofo
marxista, una vita nel Partito comunista italiano e nelle sue
successive declinazioni, fino al Partito democratico di cui è uno
degli intellettuali più autorevoli. Nel 2012, insieme ad altre
figure di riferimento della sinistra, come Mario Tronti e Pietro
Barcellona, firma un documento sull’”emergenza antropologica”:
si sostiene che esistono “valori non negoziabili” e si apprezza
l’impegno della Chiesa, allora di Benedetto XVI, per difenderli. Ai
firmatari viene affibbiata l’etichetta di “marxisti
ratzingeriani”» (
M. Rebotti,
Corriere della Sera, 3
febbraio 2016).
Tanto in Italia l’etichetta di
“comunista” o di
“marxista” non si nega a nessuno: da
Marco Rizzo a
Papa
Francesco.
«La famiglia naturale», sostiene
Vacca,
«è il prodotto
della storia: prima il sovrano e oggi il legislatore ne prendono
atto». Insomma, il
“marxista” di cui sopra difende la famiglia
sorta sulla base della divisione classista della società; la
famiglia che porta in radice i contrassegni del
Dominio di classe, di
cui «
prima il sovrano e oggi il legislatore prendono atto»; la
famiglia naturale ed eterna da una supposta
«deriva antropologica»
che tenderebbe a scardinarne l’assetto naturale – ossia
storico-sociale.
Nino Bertoloni Meli ha scritto oggi sul
Messaggero che
Beppe Vacca sulla famiglia ha una
«posizione
premarxista»: come dargli torto!
Sghignazzo sulle balle speculative di questi
conservatori-autoritari che amano vestire i panni di “intellettuali
marxisti” da quando ero adolescente, e quindi ogni loro perla
reazionaria non fa che confermare e rafforzare il mio giudizio sul
“comunismo” italiano, il quale non di rado assumeva, su diverse
questioni, posizioni politiche ancora più destrorse di quelle
elaborate a suo tempo dalla Democrazia Cristiana.
Per capire il tipo di “comunismo” che ha
formato l’ossatura dottrinaria e politica di Tronti, e che spiega
la sua infatuazione per “l’umanesimo” del Papa Emerito, è
sufficiente leggere quanto segue: «Nella storia del movimento
operaio, nell’attrezzatura teorica del marxismo, nelle esperienze
pratiche dei comunisti c’è una disattenzione all’uomo» (Il
Manifesto, 5 maggio 1991).
Sì, effettivamente nello stalinismo,
nel maoismo e negli altri ismi un tempo assai graditi
all’intellettuale italiano «c’è una disattenzione all’uomo».
Ecco perché mentre certi “comunisti” – nonché intellettualoni
– dalla coda di paglia si salvano in corner, per usare il
sofisticato gergo calcistico, invocando il katechon (1), chi
scrive può tranquillamente parlare, senza evocare nella propria
testa esperienze contrarie a ogni prassi emancipativa, di rivoluzione
sociale.
Alla sinistra italiana e occidentale, i “marxisti
ratzingeriani” imputano di aver ceduto a «culture falsamente
libertarie, per le quali non esiste altro diritto che non sia il
diritto dell’individuo». A questo “nichilismo individualista”,
che si conforma alla tesi antisociale espressa una volta dalla
Thatcher («la società non esiste, esistono solo gli individui») i
“marxisti ratzingeriani” oppongono la «dimensione comunitaria,
ossia la società vigente, e un «umanesimo condiviso»: il
Capitalismo dal volto umano, appunto.
Se Dio vuole, chi scrive non
appartiene né alla «sinistra italiana e occidentale» né al
“marxismo” comunque declinato dai sinistrorsi. È poco, ma mi
accontento. Per godere punto su pratiche che in qualche modo hanno a
che fare con l’argomento qui trattato.
Come non esistono “in natura” una società in
generale, un’economia in generale, uno Stato in
generale, ma una società, un’economia e uno Stato
storicamente e socialmente peculiari, allo stesso modo non ha alcun
fondamento storico e sociale parlare della famiglia in generale.
Ebbene, la famiglia borghese, l’istituto familiare tipico di questa
epoca storica, deve necessariamente vivere una condizione di
permanente crisi, deve necessariamente subire periodici processi di
cambiamento a causa della già accennata natura «rivoluzionaria»
della società borghese. La politica e il diritto non possono che
prenderne atto, in maniera più o meno rapida, con soluzioni più o
meno adeguate alle realtà. Sotto questo aspetto, il mondo
anglosassone e l’Italia offrono i due modelli opposti di
modernizzazione capitalistica della società: il primo rapido e –
relativamente – lineare, il secondo lento e contraddittorio. Nel
caso dell’Italia la funzione “katecontica” del Vaticano ha
sempre avuto un certo peso nelle scelte della politica nazionale,
soprattutto sui temi “eticamente e antropologicamente sensibili”.
6. Apprendo, nientemeno che da
Famiglia
Cristiana, che
«le lesbiche francesi hanno detto che “Il
corpo delle donne non può essere mercificato”». Non può o
non
dovrebbe? e
a quali condizioni? Riprendo la cristiana
citazione:
«Le lesbiche francesi» si battono contro le
«lobby
molto organizzate dal discorso menzognero» che sostengono in Francia
e in Europa il diritto di avere un figlio anche attraverso la pratica
dell’utero in affitto – chiamata anche maternità surrogata o
Gestazione per altri.
«L’associazione lesbica francese
CLF ha deciso di tagliare i ponti con altre associazioni omosessuali
possibiliste o favorevoli alla pratica dell’utero in affitto. I
motivi? “Vendere i propri ovociti e il proprio corpo non ha nulla
di libero”, hanno detto, “il corpo delle donne non può essere
mercificato, né altrove, né qui”». Verissimo:
«Vendere i propri
ovociti e il proprio corpo non ha nulla di libero»; però mi chiedo:
vendere a qualsiasi titolo il proprio corpo per ricavarne denaro,
possibilmente molto e in fretta, si può considerare, al di là di
ogni apparenza, una pratica segnata dalla libertà d’arbitrio?
Vietiamo allora anche la prostituzione e la pornografia? Posto il
vigente regime sociale mondiale fondato sulla ricerca del massimo
profitto, ha un minimo senso, che non sia quello passatista,
biecamente moralista e conservatore, chiedere al
Leviatano, ossia al
cane da guardia chiamato a difendere il rapporto sociale
capitalistico che sta alla base della mercificazione degli individui
e della loro sempre più spinta disumanizzazione, di proibire una
pratica che peraltro si armonizza (si sposa!) perfettamente con
l’essenza – non con le fumisterie ideologiche tipo
“Diritti
inalienabili dell’uomo” – di questa escrementizia società? Io
credo proprio di no.
Per un verso non si risolve il problema (2),
perché esiste comunque un bisogno da soddisfare (com’è noto, il
proibizionismo non elimina il mercato, ossia la compravendita di un
bene o servizio, ma, per così dire, si limita a colorarlo di “nero”
per la gioia di chi vende e la maledizione di chi compra: vedi, ad
esempio, il mercato delle droghe); e per altro verso si porta tanta
acqua al mulino dello status quo sociale, come dimostra la
seguente citazione: «Nessun essere umano può essere ridotto a
mezzo. Noi guardiamo al mondo e all’umanità ispirandoci a questo
principio fondativo della civiltà europea» (Appello contro
la pratica dell’utero in affitto).
Ma la «civiltà europea»,
ossia la civiltà capitalistica moderna apertasi con le rivoluzioni
borghesi, dalla fine del XVI secolo in poi, si basa proprio sulla
riduzione degli esseri umani a meri strumenti, a pure risorse
economiche (bio-merci, bio-mercati), a «capitale umano»!
«Denunciamo l’utilizzo degli esseri umani il cui valore intrinseco
e la cui dignità sono cancellati a favore del valore d’uso e del
valore di scambio» (Carta per l’abolizione universale della
maternità surrogata). Benissimo! Iniziamo allora con
l’abolizione del lavoro salariato, ossia della prestazione
lavorativa venduta e acquistata nella sua maligna qualità di «merce
particolare» (Marx)!
È una provocazione, si capisce. E già che
abbiamo tirato la barba al vecchio surrogato di Treviri, caliamo sul
tavolo la solita bella citazione intonata al tema: «La prostituzione
generale appare come una fase necessaria dello sviluppo del carattere
sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività
personali. Esprimendosi più compiutamente: l’universale rapporto
di utilità e utilizzabilità» (K. Marx, Grundrisse).
Altro
che «principio fondativo della civiltà europea»! Con una
certa nonchalance raddoppio senz’altro la dose: «La
prostituzione è soltanto un’espressione particolare della
prostituzione generale dell’operaio, e siccome la prostituzione è
un rapporto di tale natura che vi rientra non solo chi è prostituito
ma anche chi prostituisce – la cui abiezione è ancor più grande –
anche il capitalista, ecc., rientra in questa categoria» (Marx,
Manoscritti economico-filosofici del 1844). Di qui, il
concetto di prostituzione universale.
Se a qualcuno non piace il termine prostituzione
applicato a prassi che non implicano l’uso mercantile del corpo
delle donne, non ho problemi a sostituirlo con sfruttamento:
il concetto rimane tuttavia lo stesso. Per quanto mi riguarda non c’è
umanità né dignità nel lavoro salariato (sì, il lavoro che fonda
anche la «Repubblica democratica nata dalla Resistenza»), nel
lavoro venduto e comparto in guisa di merce.
7. Si badi bene (e qui mi cito, e mi scuso):
«Contro ogni evidenza (o apparenza), la merce che il
capitalista acquista non è il lavoro, come pensa lo stesso
lavoratore, ma l’intera esistenza di quest’ultimo,
un’esistenza ridotta appunto a merce. Infatti, ciò che il
lavoratore vende e che il capitalista compra è l’uso di
capacità lavorativa per un tempo stabilito: un’ora, otto ore,
ecc; in cambio di questo uso il lavoratore riceve dal capitalista un
salario. Ma questa capacità lavorativa naturalmente non è
separabile dall’esistenza del lavoratore, non è qualcosa che il
venditore di prestazione lavorativa possa mettere dentro una
confezione e alienarla senz’altro in questa guisa reificata: qui è
il venditore stesso a essere la confezione della propria merce. Forma
e contenuto qui sembrano essere la stessa cosa, in onore alla
filosofia della pura identità. Insomma, Il valore di scambio di
questa bio-merce equivale, come per ogni altra merce, al tempo di
lavoro oggettivato nei “beni e servizi” che ne rendono possibile
l’esistenza e la continuità generazionale attraverso la formazione
di una famiglia e la procreazione. L’esistenza del lavoratore
calcolata (quantificata) in termini di tempo di lavoro oggettivato
nei “beni e servizi” vitali rappresenta il valore di scambio
della merce-lavoratore, mentre la disponibilità a essere usato per
un tempo stabilito contrattualmente costituisce il valore d’uso
della nostra bio-merce. Quando il capitalista porta a casa, cioè
nell’impresa, la merce-lavoratore (o bio-merce) dando in cambio
salario, egli non commette alcuna ingiustizia nei confronti
dell’operaio-venditore, non gli sottrae nulla che non abbia
restituito interamente sotto forma di salario (di denaro): “Con ciò
è quindi realizzata la piena libertà del soggetto. Transazione
volontaria; nessuna parte ricorre alla violenza. […] È solo in
virtù degli equivalenti che nello scambio i soggetti sono come
equivalenti l’un per l’altro”» (
K. Marx,
Lineamenti,
II. Vedi il post
Stato
di diritto).
Scrive Eugenia Roccella, militante devota alla
Chiesa Romana e felicissima di poter assistere ai dolorosi travagli
delle “femministe storiche” («La sinistra è spiazzata, le
sicurezze ideologiche vacillano, il senso comune, legato
all’esperienza, si prende la sua rivincita»): «Emanuele Trevi
spiega [a proposito dell’utero in affitto] che si tratta solo di
“un contratto tra esseri umani liberi e consapevoli”, senza
minimamente considerare che molte forme di sfruttamento nel mondo si
basano appunto su contratti liberi e consapevoli» (Il Foglio,
13 dicembre 2015). Brava, sottoscrivo!
Ecco perché quando la simpatica Ministra (si dice
così?) della Salute Beatrice Lorenzin parla, sempre a proposito
della pratica dell’utero in compravendita, di prostituzione al
quadrato, anzi di «ultraprostituzione» con il sottoscritto
sfonda una porta aperta, di più: spalancata. Ma la mia porta non si
apre verso un atteggiamento repressivo, punitivo, proibizionista,
bensì verso un atteggiamento radicalmente critico nei confronti
della società che rende possibile l’universale prostituzione,
pardon: sfruttamento degli individui.
Secondo alcune femministe “storiche”,
attraverso la pratica dell’utero in affitto l’uomo (omosessuale)
cerca di «impossessarsi della prole e di un processo, la maternità,
da cui gli uomini sono quasi del tutto esclusi, a parte l’apporto
biologico iniziale». Pare che ancora oggi, se Dio vuole, non si
possa fare a meno di questo «apporto biologico iniziale», anche se
la provetta non è certo un simpatico surrogato delle buone pratiche,
diciamo così. Ora, anche se così fosse, mi chiedo che bisogno c’è
di chiamare la polizia, i carabinieri, la magistratura, l’Unione
Europea e l’ONU a tutela del “bene comune-maternità”.
La
sociologa femminista Daniela Danna lamenta che «Ci sono in America
giovani eterosessuali che si rivolgono a cliniche private per
commissionare un bambino. Nonostante siano eterosessuali, cercano di
bypassare la presenza materna» (Linkiesta, 5 febbraio
2015). E allora? È questo il nocciolo del problema? Io non credo.
Non c’è niente da fare: sento puzza di lesa maestà riproduttiva,
mi pare di cogliere la paura di perdere qualcosa (una funzione, un
ruolo, un potere) a vantaggio della concorrenza – ognuno è libero
di declinarla come crede.
Prima di correre dai carabinieri e di invocare il
carcere per «pratiche contrarie alla natura» sforziamoci piuttosto
di capire di cosa veramente si tratta, ciò che implica
necessariamente un discorso centrato sui processi sociali che
modellano e rimodellano sempre di nuovo il nostro mondo.
Scrive
Luisa Muraro,
«filosofa e figura di
riferimento del femminismo italiano»:
«Per combattere la
prostituzione la legge Merlin funzionò benissimo fino a quando
l’immigrazione dai Paesi poveri non diede il via alla massiccia
importazione di donne, allettate con l’inganno proprio a causa
della loro povertà» (
L’Avvenire.it). Si vede che la
filosofa femminista non ha mai sentito parlare del
mercato nero
della prostituzione che fiorì proprio quando le
famigerate
Case vennero chiuse: il celebre invito di
Totò (
Italiani,
arrangiatevi!) non alludeva solo a pratiche manuali, diciamo.
«
L’immigrazione dai Paesi poveri» si è poi sommata alla
popolazione femminile autoctona, diversificando l’offerta a
beneficio della clientela maschile, la quale, detto per inciso, si
trova nella paradossale situazione di sfruttare
“oggettivamente”
(per legge!) una prostituta, sebbene la prestazione professionale
erogata da quest’ultima, ancorché non legalmente riconosciuta, non
è sanzionata penalmente. Sono i paradossi del proibizionismo e
dell’ipocrisia sociale. Certo, si potrebbero sempre abolire i
clienti…
(3). Ma riprendiamo la citazione:
«Allo stesso modo la
pratica dell’utero in affitto prospera solo dove c’è miseria. La
Francia – lo ha scritto anche Le Monde – risente molto
di questo vero e proprio ritorno al colonialismo, con un movimento di
francesi che si recano nelle ex colonie. È un colonialismo
particolarmente inaccettabile, perché dalla vendita del suo corpo
chi non trae alcun vantaggio è la donna».
Siamo sicuri che la
risposta giusta sia creare un regime internazionale di proibizionismo
su quella pratica affidato alla cura degli Stati e delle
organizzazioni internazionali create da quegli stessi Stati?
C’è poi chi è talmente progressista e
difensore dei diritti dei bambini da voler costringere per legge
tanto le coppie eterosessuali quanto quelle dello stesso sesso alla
prova del «progetto genitoriale», così da accertarne l’idoneità
alla corretta educazione intellettuale, civile e sentimentale dei
figli. E chi dovrebbe stabilire i criteri per fissare i corretti
“standard di genitorialità”? Lo Stato? una Commissione
scientifica creata ad hoc?, chi? Come sempre le strade che menano
all’inferno sono lastricate di eccellenti intenzioni.
Concepire la maternità “tradizionale” come
l’ultimo baluardo che ci separa dal baratro del nichilismo totale,
come «l’ultima relazione davvero inscindibile, “per sempre”,
in un mondo di rapporti labili e precari, che si possono spezzare e
interrompere in ogni momento», è una posizione ideologica di
retroguardia inefficace sul piano della teoria (comprendere il mondo,
capire la natura della Cosa che ci manipola e che ci minaccia) e
della prassi (difenderci efficacemente dagli attacchi della Cosa
mentre conquistiamo la capacità di metterla definitivamente a letto,
diciamo così).
8. Scriveva
Oriana Fallaci nel giugno del 2005,
alla vigilia del referendum sulla procreazione medicalmente
assistita:
«Non mi piace, questo referendum, perché, a parte
l’industria farmaceutica il cui cinismo supera il cinismo dei
mercanti d’armi, dietro questo referendum v’è un progetto anzi
un proposito inaccettabile e terrificante. Il progetto di reinventare
l’Uomo in laboratorio, trasformarlo in un prodotto da vendere come
una bistecca o una bomba. Il proposito di sostituirsi alla Natura,
manipolare la Natura, cambiare anzi sfigurare le radici della Vita,
disumanizzarla massacrando le creature più inermi e indifese. Non a
caso, quando otto anni fa gli inglesi crearono la pecora Dolly,
invece di esaltarmi ebbi un brivido d’orrore e dissi: «Siamo
fritti. Qui ci ritroviamo con una società fatta di cloni. Qui si
torna al nazismo». Quando porti il discorso su Hitler e sul nazismo,
su Mengele, fanno gli offesi anzi gli scandalizzati. Cianciano di
pregiudizi, protestano che il paragone è illegittimo. Poi nel più
tipico stile bolscevico ti mettono alla gogna. Ti chiamano bigotto,
baciapile, servo del Papa e del Cardinale Ruini, mercenario della
Chiesa Cattolica. Ti dileggiano con le parole retrogrado oscurantista
reazionario e posando a neo illuministi, a progressisti,
avanguardisti, ti buttano in faccia le solite banalità. Strillano
che non si può imporre le mutande alla Scienza, che il Sapere non
può essere imbrigliato, che il Progresso non può essere fermato,
che i fatti sono più forti dei ragionamenti, che il mondo va avanti
malgrado gli ottusi come te».
Lo spettro di
Oriana Fallaci con me
può stare tranquillo: anch’io disprezzo l’atteggiamento degli
illuministi fuori tempo massimo, e nei confronti della religione ho
sempre avuto un atteggiamento storico-materialistico, non
illuminista. Come mi piace dire, sono
“tecnicamente ateo” ma non
ateista sul piano filosofico. L’illuminismo e l’ateismo furono
una cosa seria nel XVII e nel XVIII secolo, e già a metà del XIX
secolo quelle due posizioni avevano perduto ogni vitalità e
carattere autenticamente progressista, almeno nei Paesi più
sviluppati del mondo. Il punto è, al di là di più o meno fondate
analogie storiche fra passato e presente, che tutto quello che
preoccupava la
Fallaci è già alle nostre spalle, si è già
verificato, è già da molto tempo una realtà, e noi non facciamo
altro che registrare le continue accelerazioni di un processo
ultrasecolare.
Altro che
«malefatte dei Frankenstein»: il problema
è molto più serio! «
Chi in buona fede favorisce il mondo nuovo si
ripara sempre sotto l’ombrello delle parole Scienza e Progresso.
Forse le più abusate dopo le parole Amore e Pace». Condivido, salvo
che per un punto: non si tratta affatto del
«mondo nuovo» ma del
mondo vecchio, nel cui seno
Scienza e Progresso equivalgono a
sviluppo capitalistico. Ecco perché è perfettamente
inutile prendersela con
«i maledetti computer, i maledetti
telefonini e il maledetto Internet con cui puoi calunniare chi vuoi e
rubare il lavoro altrui senza finire in galera».
Ripeto: chi
sostiene che non tutto quello che è tecnicamente concepibile è
eticamente e umanamente corretto non capisce la natura profondamente
sociale (o antisociale, punti di vista) della tecnoscienza, come ad
esempio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio la
“conquista
atomica”. Non è nelle nostre mani il potere di decidere sulle cose
che riguardano gli aspetti fondamentali, vitali della nostra vita, e
continuare a illudersi che le cose potrebbero cambiare
a parità
di regime sociale serve solo ripetere, anno dopo anno, decennio
dopo decennio, la solita triste litania:
«in fondo prima si stava
meglio». Sono secoli che si ripete questo sciocco ritornello. La
verità è che, posta la società divisa in classi sociali, il peggio
è sempre, soprattutto per i nullatenenti, e non smette di
peggiorare.
9. Come si vede, io mi muovo, a tentoni e
goffamente, sul terreno della critica radicale della vigente società,
non su quello dei diritti, più o meno astratti, più o meno
“civili”. Al di là del merito delle singole battaglie, conta
moltissimo la prospettiva concettuale dalla quale ci muoviamo per
dare battaglia. Non poche lotte iniziate rivendicando la salvaguardia
di ciò che di umano residua nella nostra condizione disumana (penso
alle battaglie ecologiste, o a quelle connesse alla
“biopolitica”)
finiscono per risolversi in un illusorio tentativo di rallentare
processi sociali radicati nell’essenza stessa di questa società.
Non pochi
“umanisti”, poi, conservano l’illusione giacobina di
poter cambiare le teste e le inclinazioni degli individui senza
mutare ciò che,
«in ultima analisi», orienta quelle teste e quelle
inclinazioni. E magari, a fallimento accertato, decapitare gli
incorreggibili, in attesa di veder rotolare la propria testa. Ma
l’illusione giacobina del XVIII secolo fu una cosa tragicamente
seria, mentre gli odierni
“giacobini” non arrivano nemmeno a
sfiorare il livello della farsa.
«Bisogna fermare lo sfruttamento del corpo
femminile e il sistema di produzione industriale dei bimbi». Ci sto
dentro! Ma senza proibizionismi di sorta, senza invocare la
protezione del Leviatano, e senza ideologismi – del tipo di quelli
che tendono a discriminare tra supposti bisogni naturali e cosiddetti
bisogni artificiali o «indotti dal mercato»: il Capitalismo (il
Capitalismo tout court, non la sua presunta variante
degenere chiamata neoliberismo o liberismo selvaggio, come pensano le
“femministe storiche”) (4) va superato, non esorcizzato o, men
che meno, “umanizzato” mediante illuministiche “rivoluzioni
culturali”.
Invocare il senso del limite e la necessità di
una «zona di impossibilità» (Massimo Recalcati) in grado di porre
un freno a un godimento completamente in balìa delle sirene del
mercato, sordo a ogni etica della responsabilità e delle conseguenze
(5), il tutto a parità di rapporti sociali di dominio e di
sfruttamento, significa davvero non capire la natura del Moloch
sociale con cui abbiamo a che fare; significa voler raddrizzare un
albero che deve essere storto a causa delle leggi che ne
informano lo sviluppo.
Odisseo non va legato all’albero della
ricurva nave: va piuttosto liberato portandolo in acque interdette
per sempre a ogni forma di dominio e di sfruttamento.

Note
(1) «Toni Negri mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico. Penso che non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze» (M. Tronti, Noi operaisti, p. 111, DeriveApprodi, 2009). «La crisi europea è proprio crisi di potenze catecontiche. Il potere politico non frena, non trattiene il globale, e anche la Chiesa governa sempre meno… E quando il katechon non frena più, che cosa succede? Il pensiero reazionario dell’800 vedeva la vittoria dei barbari: socialismo, ateismo… C’è anche questo, ma io ho una lettura apocalittica: non semplicemente l’assalto esterno, barbarico, ma “energeitai”. L’Anticristo non si è manifestato, ma è già in tutta la sua energia ovunque, anche nella Chiesa» (M. Cacciari, Politica e Chiesa non sanno più contenere il male, La Stampa, 29 marzo 2013). Su questi temi rimando ai miei appunti di studio Dominio e katechon.
(2) Scrive Riccardo Staglianò: «Le donne del mondo industrializzato vogliono un figlio che possono permettersi economicamente, ma non fisicamente. Le “donatrici” indiane, brasiliane, dell’Est Europa hanno lombi fecondi e non un euro in tasca. Che domanda e offerta finissero per incontrarsi secondo logiche globalizzate era fatale. Ci si può chiedere se il prezzo sia giusto. Discutere sulle implicazioni etiche. Senza illudersi di arginare il bisogno più di quanto si possa con i container cinesi» (Associazione Luca Coscioni). Staglianò informa che dall’Ucraina ti porti a casa un bellissimo bebè da madre surrogata spendendo sui 20-40 mila euro. E nel resto del mondo? «Dal ‘76 a oggi, calcola l’Organization of Parents Through Surrogacy, sono venuti al mondo così circa 28 mila bambini negli Stati Uniti. I costi variano dai 30 ai 60 mila dollari, tutto compreso. Più che in Ucraina, senza considerare la maggiore distanza e il viaggio. Il motivo per cui solo i ricchi europei si avventurano a varcare l’oceano. Gli altri prendono un biglietto per Kiev…».
«L’industria della maternità surrogata in Thailandia negli ultimi anni è cresciuta notevolmente. Le coppie che non sono capaci di riprodurre ricorrono ai servizi delle società che si trovano là per selezionare una madre surrogata. In generale, i prezzi della realizzazione della FEC in Thailandia non si differenziano molto da quelli praticate in altre cliniche di riproduzione. Il costo dei servizi di maternità surrogata è però molto più basso che nei paesi in cui la maternità surrogata è completamente legale» (Lavitanova.net). Come sempre cinico è innanzitutto il Dominio e non tanto le parole che ne danno testimonianza.
(3) Nel febbraio del 2014 il Parlamento europeo approvò una «risoluzione non vincolante» sullo sfruttamento sessuale e la prostituzione basata su un testo proposto dalla deputata laburista inglese Mary Honeyball. Secondo questa risoluzione, che giudica la prostituzione «una forma di schiavitù incompatibile con la dignità umana e i diritti umani» (non più di altri meno retribuiti e più pesanti mestieri, direbbero alcune lavoratrici sessuali), bisogna criminalizzare «chi acquista servizi sessuali e non chi li vende», secondo il cosiddetto modello nordico proibizionista adottato in Svezia, Islanda e Norvegia. Naturalmente il mondo dei sex workers si è rivoltato contro: «Il modello svedese di criminalizzazione dei clienti», sostiene Luca Stevenson, coordinatore dell’International committee on the rights of sex workers in Europe, «non solo è inefficace per ridurre la prostituzione e la tratta, ma è anche pericoloso per le/i sex workers. Infatti aumenta lo stigma che è la maggiore causa di violenza contro di noi. È una politica fallimentare denunciata da tutte le organizzazioni di sex workers e da molte organizzazioni di donne, Lgbt e migranti». Secondo Marija Tosheva, advocacy officer della Swan, «Il rapporto non riesce a rappresentare le differenti realtà del lavoro sessuale nei contesti europei. Rinforza gli stereotipi che tutte le donne provenienti dall’Est Europa siano trafficate in Europa occidentale, mettendo a tutte l’etichetta di “vittime”, escludendole dal dibattito e dai processi decisionali. Alcune sex workers migrano per cercare migliori opportunità di lavoro, alcune diventano vulnerabili alla violenza e allo sfruttamento, ma etichettare tutte le sex workers come vittime di violenza e criminalizzare ogni aspetto del lavoro sessuale vuol dire distogliere lo sguardo dalla realtà per guardare a soluzioni moralistiche e repressive».
(4) «Per questo micidiale neoliberismo tutto deve tradursi in merce, tutto si compra e si vende. Non è solo un business, è una cultura, una tendenza generale a farci ragionare in questi termini» (Luisa Muraro). Non a caso Marx parlò di «immane raccolta di merci» a proposito della moderna società capitalistica. Il corpo stesso degli individui è, infatti, diventato una «immane raccolta di merci», una verde prateria in continua espansione a disposizione del cavallo capitalistico (il Capitale non conosce un limite fisico, ma anzi esso crea sempre di nuovo spazio esistenziale su cui scorrazzare liberamente), un laboratorio che fa la gioia e la fortuna di chi per mestiere inventa nuovi bisogni, nuovi desideri, nuove “utopie”, nuovi sogni, nuove necessità. Ma che fa anche la gioia e la fortuna di chi si guadagna il pane aggiustando l’anima strapazzata di un «capitale umano» a sempre più alta «composizione organica» e a sempre più basso “saggio di umanità”: la caduta di questo “saggio” non è tendenziale ma fattuale, quasi misurabile.
(5) «Si tratta di spiegare alla gente che la libertà illimitata cioè privata d’ogni freno e d’ogni senso morale non è più Libertà ma licenza. Incoscienza, arbitrio. Si tratta di chiarire che per mantenere la Libertà, proteggere la Libertà, alla libertà bisogna porre limiti col raziocinio e il buon senso. Cnoi cannibali e i figli di Medeaon l’etica» (O. Fallaci, Noi cannibali e i figli di Medea, Corriere della Sera, 3 giugno 2005). Il punto è: siamo davvero liberi? Su questi temi rimando a Eutanasia del Dominio, L’Angelo Nero sfida il Dominio, Il libero arbitrio.