Captain Beefheart & His Magic Band
Trout Mask Replica
1969 (Straight)
Alla soglia dei sei decenni, grazie a questo blog, continuo col riascolto di alcuni dischi che hanno in qualche modo “segnato” gli anni della bella adolescenza.
Questa volta si tratta del famoso (famigerato?) doppio di Captain Beefheart. Un disco che alcuni considerano “il capolavoro” del Rock, ma che probabilmente pochi hanno ascoltato, e ancor meno apprezzato, sia per la mole dell'opera sia per le indubbie difficoltà che questa musica pone ad orecchie poco disposte a farsi coinvolgere in ambiti avventurosi.
Questo post è un invito all’ascolto: sia per chi in passato ha deciso che non valeva la pena ascoltare musica che pareva esprimere semplicemente sgradevole caos, sia per coloro che non ci hanno mai provato.
Evidentemente
qui, anche per i tanti ascoltatori della musica rock più complessa (o come si
diceva un tempo “alternativa”), ovvero quella meno ancorata ai vari canoni del genere, e
quindi ad uno dei riconosciuti canoni del “bello”, è necessario disporsi comunque ad una
operazione che coinvolga "il cuore e la mente". In un certo senso, per meglio dire, è necessario “educarsi”, predisporsi coscientemente ad ascoltare, scrollati da ogni retorico sentimentalismo.
Ciò che era pur vero, e non banale, nei “mirabili” e “aperti” anni ’60, lo è ancor più oggi in cui questa straordinaria opera, purtroppo priva, si suppone, dell' originario ed imponente supporto fisico costituito dal doppio vinile, con la stravagante e "decontestualizzante" copertina, ma soprattutto priva dell’originario, “bacino di utenza”, che ne consentiva la rara ma regolare circolazione e parziale accettazione, spesso come simbolo di uno status intellettuale “alternativo”, rischia, nella sua presunta e propedeutica inascoltabilità, di essere considerata il reperto archeologico di un’epoca lontana, piena di eccessi e di inutili velleità.
Ciò che era pur vero, e non banale, nei “mirabili” e “aperti” anni ’60, lo è ancor più oggi in cui questa straordinaria opera, purtroppo priva, si suppone, dell' originario ed imponente supporto fisico costituito dal doppio vinile, con la stravagante e "decontestualizzante" copertina, ma soprattutto priva dell’originario, “bacino di utenza”, che ne consentiva la rara ma regolare circolazione e parziale accettazione, spesso come simbolo di uno status intellettuale “alternativo”, rischia, nella sua presunta e propedeutica inascoltabilità, di essere considerata il reperto archeologico di un’epoca lontana, piena di eccessi e di inutili velleità.
Eppure, riappropriandoci del tempo, perché il tempo è la chiave, ascoltiamolo o riascoltiamolo, ne vale indubbiamente la pena. Se
la curiosità ci guida, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione ne apprezzeremo, non senza diverse e variegate sorprese, la contemporaneità e la lucida bellezza. E come sempre accade per opere ben progettate ed
eseguite, avremo modo di emozionarci, di appassionarci e di "capire" il presente.
Non è quello che chiediamo alla musica?
Non è quello che chiediamo alla musica?
Una conversazione immaginaria su "Trout Mask Replica"
Gaetano La Montagna
Premo il tasto On.
Il cd parte.
Do una regolata al guadagno di volume.
L'attesa dei pochi secondi che precedono l'inizio della
prima track, "Frownland", sembrano ore.
Il mio amico è in trepida attesa. Ansia. E pensa:
- (Cavolo, questo è considerato il capolavoro della
mus…)
Parte il brano.
I colori sul suo volto cambiano con la rapidità tipica
del camaleonte.
Un muro sonoro sembra sconvolgere la sua percezione.
Rapidamente la delusione si dipinge sulla sua faccia…
- Ma vaff…! E che è 'sta roba?
- Lo immaginavo.
- No scusa, ma a te sembra musica questa qui?
- Perché cosa credi che sia?
- Mah, a me sembra che non abbiano nemmeno provato una
volta questo brano.
- Eh eh…
- Ma è tutto così il disco?
Un senso di terrore, malcelato da una leggera ironia,
pervade l'animo del mio amico.
- Sì, pressappoco… Sì.
- Non c'è nulla che richiami una ricerca sonora. La
batteria è acida, le chitarre sono spoglie e non vanno nemmeno tanto d'accordo;
per non parlare del basso, totalmente avulso dal conteso. E la voce, mio Dio,
la voce.
- È la prima volta che ascolti Beefheart?
- No. Tempo fa ascoltai qualcosa da "Safe as
Milk".
- Sì, quando distrusse $1200 di microfoni. Sì. A
differenza dei dischi precedenti, in questo Van Vliet ha il controllo totale
sulla sua band.
- E questo dov'è che si sente?
- È più semplice di quanto si creda. Generalmente, una
rock band si basa sul minimo denominatore disponibile: il beat, il ritmo. Al di
là di ogni intenzione è il ritmo precostituito che detta legge.
- Ciò che invece non accade qua.
- Esattamente. Van Vliet è prima di tutto un bluesman.
E i bluesman, vedi Robert Johnson, sono capaci, col solo accompagnamento di una
chitarra, di stabilire il ritmo a seconda del sentimento che stanno esprimendo;
ecco perché il ritmo sembra disgiunto. Esso è semplicemente libero. Libero di
seguire il contesto.
- Io posso anche essere d'accordo, ma questa sembra
più un'impostazione concettuale che musicale. Insomma 'sto casino non è
minimamente piacevole.
- Infatti non vuole esserlo. Il disco sta semplicemente
proponendo un modo alternativo di fruire della musica rock. Questo non è
propriamente il miglior disco di rock'n'roll. È un disco di altro rock'n'roll.
- E che senso avrebbe fare ciò?
- A Beefheart, come a tutto il movimento freak, non
interessa fare della musica nel solco di quella già esistente; perché fare un
disco che possa essere migliore di un "Abbey Road" o di un
"Volunteers"? Nei loro generi, quei dischi hanno già raggiunto
risultati notevoli. È più importante fagocitare gli stereotipi cristallizzatisi
in quella musica e ricomporli per dar vita a una nuova forma. È un procedimento
detto di "decostruzione".
- Non vorrai dirmi che adesso Beefheart ha l'ardire di
creare una nuova musica?
- No, no. Non una nuova musica. Ma un nuovo ascolto.
- Ma il modo di trattare l'ascoltatore è spaventoso,
così.
- Indubbiamente. "Trout Mask Replica" è un
disco che prende tutte le tue certezze musicali, le riduce in poltiglia e poi
le butta nel cesso. E tu, mentre stai scivolando giù, in trasparenza vedi il
Capitano che fa "ciao ciao" con la mano.
- Mio Dio.
- Ti voglio ricordare che Edgar Varèse, colui che Zappa
(tra l'altro produttore di questo disco) considerava il padre spirituale del
Freak, soleva dire che non era importante discutere sulla sperimentalità della
sua musica, ma di cosa fosse capace di sperimentare l'udito dell'ascoltatore.
- Dunque Beefheart esegue un'operazione che è
antitetica a tutta la musica popolare di allora?
- A quella commerciale. Sì. Ma il suo modo di procedere
deve molto al free-jazz di quegl'anni. Musicisti come Ayler, Taylor, Sheep,
Coleman, Cherry, Dolphy e Kirk (gli unici due che il Capitano cita apertamente)
hanno avuto un ruolo determinante sulla formazione musicale di Beefheart. Le
influenze sono tante: il blues del delta per la voce e le slide, il dada dei
testi, il free-jazz dei fiati.
- Di chi è figlio, allora, questo disco?
- Qui sta la rivoluzione! La giustapposizione e la
ricombinazione di tutti quegli elementi in modo così originale, fa sì che
qualunque processo di classificazione risulti impossibile e inutile.
- In quali momenti è evidente?
- L'aspetto più saliente, oltre all'impostazione della
voce, è la tessitura realizzata con l'uso della doppia chitarra. Le due
chitarre, mai una solista e l'altra di accompagnamento, servono a realizzare un
contrappunto fittissimo.
- Sì, adesso comincio a capire. Anche il basso, come
la batteria, hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo del brano. Cioè non si
limitano ad accompagnare, ma sono parte integrante del discorso musicale;
concorrono, in egual misura con gli altri, a costruire il brano. È free.
- Certo. È per questo che molti passaggi sono lasciati
all'estemporaneità del momento. Beefheart ha registrato la sua voce senza
l'ausilio delle cuffie; quindi aveva solo una percezione "visiva"
della musica che la band stava suonando.
- Vuoi dire che il disco deve gran parte di sé al
caso?
- È un'alea controllata. I brani furono scritti da Van
Vliet al pianoforte e, successivamente, trascritti da French, alias Drumbo. Il
passaggio dalla fase di ideazione dei brani alla definitiva registrazione
richiese quasi un anno e mezzo di duro lavoro. La messa a punto dei poliritmi è
stata la cosa più faticosa affrontata dalla band.
- Parliamo di un artista che aveva già preparato la
strada a "Trout Mask Replica" con i dischi precedenti, sempre di
altissimo valore. La sua appartenenza all'entourage di Zappa lo aveva già
relegato in una nicchia di genere ben preciso. I suoi dischi, per dirla con
linguaggio contemporaneo, avevano un target ben definito.
- Cioè, Beefheart realizzava dischi solo per una
elìte?
- No. Anzi, quando molto tempo dopo gli ricordavano che
Zappa aveva definito la sua musica come "difficile", lui si irritava,
perché quelle parole avevano avuto come unico effetto quello di allontanare
definitivamente da sé una parte del pubblico.
- Comunque, è certo che Beefheart non faceva molto per
farsi amare…
- Alcuna parte del pubblico e della critica musicale
intravide già il capolavoro, come Langdon Winner.
- Dunque, la maggior parte dei musicofili non capì il
vero valore del disco?
- No. Ma bisogna riconoscere a quei dissenzienti
qualche ragione. In quegli anni, ma ancora oggi, le attese sono per i dischi
raffinati, con melodie acchiappasogni, magari con qualche arditezza armonica o
ritmica, ma che faccia sempre centro al primo ascolto.
- Atteggiamento che invece non riguardava il Capitano
e la sua band…
- Direi proprio di no. Beefheart e la Magic Band propongono
un'avventura ritmica desolutoria, esplosioni realmente selvagge, scatenava
forze telluriche. Le "aleatorie" aggregazioni armoniche dissonanti e
l'esibizione di queste dissonanze in "Trout Mask Replica" rompono
tutte le attese di gusto e di bellezza, mettono in crisi qualunque ascoltatore.
I versi, spesso trascurati ma di importanza pari alla musica, narrano di storie
grottesche, di puri non-sense; il tutto scandito da parole spezzate, mal
pronunciate o inventate per mostrare il lato grottesco e stupido dell'essere
umano. E l'amata melodia si frantuma in schegge minime; e neppure le frequenti
ripetizioni (diciamo pure proto-refrain) di queste schegge consentono una
soddisfazione: nascono e muoiono immediatamente.
- Non di meno, questa frammentazione, che come tu dici
ha un chiaro scopo programmatico, la ritroviamo anche nei ritmi.
- Soprattutto nei ritmi. Anzi, la maggior parte dei
critici musicali oggi insistono soprattutto sulla novità di trattamento dei
ritmi. Piero Scaruffi dichiara addirittura che "[…] il disco e` di fatto
un'antologia del caos in tutte le sue forme musicali […]"
- Un giudizio un po' estremo, non ti pare?
- Certo. Ma Scaruffi aveva in mente una nozione di
ritmo come la successione di accenti ordinata in strutture più o meno
complesse; ma anche se ci fermassimo a una nozione meno esauriente di ritmo, il
beat, non c'è chi non ne avverta la straordinaria vitalità, anche al primo
ascolto.
- Solo che non ne comprendiamo la varietà.
- Magari perché le nostre attese sono deluse. Un
atteggiamento molto simile a ciò che ispirava l'ascolto del "Sacre du
Printemps" di Stravinsky.
- Beefheart registrò tutte le 28 canzoni in un'unica
session di 8 ore al pianoforte. "…Non passo molto tempo a pensare. La
musica viene da sé. Non saprei come spiegarlo…" ha sempre affermato. Il
materiale, registrato su una bobina, venne dato a French che si occupò di
trascriverlo. La leggenda, peraltro confermata da Drumbo, vuole che quelle
registrazioni siano andate perse per errore e che egli dovette riscriverlo da
capo mentre Van Vliet suonava al pianoforte.
- L'episodio non mi sorprende.
- Il cast comprendeva nomi vecchi e nuovi: Jeff Cotton
"Antennae Jimmie Semens" e Bill Harkleroad "Zoot Horn
Rollo" alle chitarre, Mark Boston "Rockette Morton" al basso,
Victor Hayden "The Mascara Snake" (cugino di Van Vliet) al
clarinetto, John French "Drumbo" alla batteria. Quest'ultimo non è
citato sulla copertina del disco, perché abbandonò le sessioni all'ultimo
minuto. Le prove di registrazione durarono vari mesi, durante i quali
Beefheart, nei momenti di pausa, sottoponeva i musicisti alle cosiddette
"sedute di lavaggio del cervello".
- Cosa?
- Eh, sì. In pratica, uno del gruppo (quasi sempre
Antennae) era, per così dire, costretto a leggere ad alta voce i testi
preparati dal Capitano. Beefheart è stato spesso paragonato a un dittatore dai
suoi musicisti, aveva una personalità molto prorompente; se aveva voglia di
suonare il sax, tutti dovevano stare lì ad ascoltarlo; se aveva voglia di
guardare la tv, tutti dovevano sedere accanto a lui.
È in questo clima che i testi vengono messi a punto; così
abbiamo canzoni che parlano di vita alla easy-rider, "Wild Life",
anti-capitaliste, "Veteran's Day Poppy", che parlano di disastri,
"The Blimp", di olocausto, "Dachau Blues", di una fuga
dalla "Frownland", di uccidere un "China Pig", dei propri
stati d'animo, "My Human Gets Me Blues".
- Quali sono le peculiarità musicali di queste
registrazioni? Cioè, si nota che il quadro sonoro è ben determinato.
- Certo. Sul canale sinistro trovi una chitarra che
imposta il ritmo mentre sul destro l'altra sembra imitare una slide. Le loro
linee sono distinte, entrambe soliste e quasi mai in sincronia, né tra loro né
con la batteria o la voce.
- Atteggiamento, questo, che sembra andare in
direzioni opposta a quella dei Velvet Underground.
- Quindi alla voce e ai fiati viene lasciata la totale
libertà di movimento all'interno di quel contesto.
- Si, come un gregge di pecore in un pascolo verde.
- Senza risparmiare i rumori!
- Eh, già. Del resto quasi tutte le track sono introdotte
o chiuse da spezzoni di conversazioni registrate tra loro o con gli altri dello
staff di studio. È questo il segno più evidente della presenza di Zappa. Anzi,
spesso tra le voci che si odono c'è anche la sua ("Uh shit, how did that
harmony get in there?" dice da qualche parte).
- Dunque, non essendoci alcuna omogeneità, tutti i
brani hanno la medesima importanza.
- "Well" è un assolo di Beefheart, che mette
in risalto le sue doti canore, come anche "Orange Claw Hammer";
"When Big Joan Sets Up" offre un grande assolo di sax; "Sugar 'n
Spikes" è un boogie saltellante impostato dal ritmo delle chitarre;
"Pachuco Cadaver" è una filastrocca selvaggia; "Moonlight On
Vermont" si presenta con chitarre esplosive; i blues di "Ant Man Bee"
e "China Pig" che guardano a Blind Lemon e al Delta, il cosiddetto
blues'n'dada; la voce da vecchia zitella di Jeff in "Pena";
"Veteran's Day Poppy" con il suo inizio blues, lo sviluppo hard rock
e il collage con una coda caratterizzata da uno stentato riff.
- Nulla è superfluo o compiaciuto.
- Di più. Vi è, semmai, un senso disagevole di continua
rinuncia. Esemplare sono in questo caso le chitarre, il cui suono non gode di
alcun effetto e appaiono in tutta la loro crudezza.
- Cioè, il disco è costruito, tematicamente e
timbricamente, utilizzando il meno possibile.
- Certo. Così assume l'aspetto di un blocco di granito.
Allora l'opera non è ciò che può apparire; essa è perfettamente omogenea!
- Vuoi dire che la disomogeneità di cui parlavo è solo
ad un livello superficiale?
- Sì. Qui l'omogeneità è a un livello di
macrostruttura; investe, cioè, il principio generatore dell'intero disco e non
il trattamento del singolo brano.
- È un concept?
- In senso lato, sì. La società capitalistica
occidentale tende a cristallizzare tutte le forme artistiche, come aveva reso
evidente la pop-art di Warhol. La civiltà contemporanea investe un rito, il
rock'n'roll, e Beefheart ne porge uno nuovo, spoglio e primitivo, al quale
conferisce una dimensione, a-storica e allucinante, straordinaria. E la sua
musica mira al cuore del rock e ne coglie gli aspetti salienti. La musica di
"Trout Mask Replica" fa capire come il rock sia figlio di una scopata
tra il blues e la morte.
- Sebbene Van Vliet abbia sempre minimizzato l'influenza della sua musica sullo sviluppo di generi musicali successivi, fra tutti la new wave, non v'è dubbio che "Trout Mask Replica" sia stato un fondamentale punto Siamo arrivati al fade out di "Veteran's Day Poppy" di riferimento. Il circuito commerciale, invece, non lo ha mai tenuto in considerazione.
- Quali sono le band e gli artisti che ne hanno
risentito di più?
- Jason Gross ricorda che, nel corso degli anni, Beefheart ha raccolto (a sua insaputa, a quanto pare) una accolita di fedeli sostenitori ed eccellenti continuatori della sua opera. Cosa sarebbero stati i Pere Ubu, Tom Waits, i Talking Heads o i Residents? I Sonic Youth e gli Xtc hanno suonato le sue cover. I suoi musicisti si sono infiltrati in gruppi come i Pixies o i Red Hot Chili Peppers. Beefheart, come i Velvet Underground, è diventato uno dei semi della nuova musica alla fine dei Seventies, un eroe dell'underground.
- L'operazione di Beefheart non è stata però unica.
- Affatto. Sempre Gross ama citare questo aneddoto. Se
tu hai sempre visto film come "Die Hard" o "Terminator" e,
poi, passi direttamente a "Dog Star Man", "Un Chien
Andalou" o "Empire" penserai "…ma che cazzo succede…",
ti si rovescerà il pop-corn. Stan Brakhage, Luis Bunuel o Andy Warhol afferrano
la materia filmica e la rivoltano come un guanto per farne un'astrazione.
Proprio come ha fatto Beefheart con il rock.
Siamo arrivati al fade out di "Veteran's Day
Poppy" e il disco si chiude.
John Picarella - The beating of an ashtray heart
Jason Gross - Kill your idols
Dick Larson - Trout Mask Replica? The Captain must be
mad!
Byron Coley - Three decades inside the Mask
Matt Groening - Plastic Factory
Mike Barnes - Behind Trout Mask. An interview with
John French
Langdon Winner - The odissey of Captain Beefheart
***
pakosorio
Devo ringraziare Danilo, che negli anni ’80 a Pescara aveva un piccolo ma straordinario negozio di dischi dove era possibile ascoltare, prima di acquistarli, meravigliosi Long Playing, nuovi e usati. Fra questi c’era Trout Mask Replica!
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