uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

domenica 22 luglio 2018

Silenzio di Dio. Sergio Quinzio

L'esistenza del male *



Cristo «morendo ha distrutto la morte e ci ha donato la vita». Certo per poter affermare questo come realtà già tutta in atto bisogna concepire la redenzione in senso "spirituale", come salvezza dalla colpa, e non dalla sofferenza, la quale come ognuno vede perdura. Se l'essenziale, se ciò che veramente conta è la liberazione dalla sofferenza, come possiamo infatti dirci salvati?




In Fede e critica Guido Morselli, uno dei tanti intellettuali contemporanei che hanno volontariamente abbandonato la vita, svolge un'esplicita confutazione della teodicea nega cioè la possibilità di una qualunque conciliazione tra la perfezione di Dio e l'esistenza del male. In questo senso, dichiara di voler «mettere la teologia "con le spalle al muro"». Mi pare che ci riesca. Anzitutto notando che «il male non si presta a essere trattato in forma teoretica», dal momento che,  

«per poco che lo si esamini da vicino, ci si accorge che esso si identifica, in tutte le sue accezioni, con la sofferenza: la quale è nel numero di quei fatti della sfera soggettiva dell'individuo che sono evidenti e afferrabili solo in detta sfera, e pensati fuori di lì perdono facilmente la loro consistenza». 




Tutte le immaginabili teodicee muovono infatti dal considerare la sofferenza - non solo degli uomini ma di tutti gli altri innumerevoli esseri, di cui i teologi si occupano cosi poco - come una conseguenza della colpa, e cioè in definitiva muovono dal concepire il male come colpa anziché come sofferenza.
 
Ma se il male invece è la sofferenza, e la sofferenza non è solo la giusta conseguenza della colpa, allora il male è uno scandalo, un orrore spaventoso, per il quale non può esistere nessuna giustificazione. Una pagina di Morselli mostra chiaramente che la contrapposizione tra il male identificato con la colpa - e cioè concepito come privo di realtà propria in quanto la colpa non è che il mancato compimento di un atto dovuto - e il male identificato con la sofferenza, è in sostanza la contrapposizione tra la concezione pagana e la concezione cristiana del mondo.





Dice Morselli

«Come Kant si affaticò a illustrare, tra il relativo e il contingente, e l'assoluto e necessario, si spalanca un incolmabile abisso; ecco perché il Dio speculativo non è minimamente tocco dal disordine di questo mondo, e se ne sta nel suo immoto e remoto empireo a contemplare se stesso, o a gheometrìzein, secondo immaginavano i Greci. Certo non si dà pensiero di seguire e registrare i fatti nostri, e nemmeno di dirigerli; il male che ha per teatro (o per materia) il relativo, un tale Dio lo può ignorare, o piuttosto non può non ignorarlo, e altrettanto lo ignorerebbe, è chiaro, chi riuscisse a mettersi dal suo "punto di vista". Ben diverso il Dio del Vangelo, e la circostanza che pensatori intimamente cristiani abbiano potuto trascurare un sì radicale mutamento di prospettive, dimostra che genere di divario si verifichi tra l'indole di una religione e le sue sovrastrutture metafisiche. II Dio dei cristiani si mantiene in un misterioso, stretto rapporto con le creature; lungi dall'essere un imperturbato geometra o contemplator di se stesso, è un padre, non incapace di soffrire per i suoi figli e con loro: persino, sotto un certo aspetto, partecipe della loro sorte. Questo Dio non sarebbe in alcun modo disposto a concedere che il male sia una particolarità che non lo riguarda».




PuNidanadi, la mistica shivaita vissuta a quanto sembra nel sedicesimo secolo e nota con il nome di Kareikkalammeyar, ha appassionatamente cantato le lodi di Shiva nel Poema dell' Ammirabile. A suscitare la sua debordante devozione è il dio nella sua terribile forma distruttiva di Bhairava. Non amerà altri che lui, al quale si è consacrata pregandolo di liberarla dal suo corpo di carne per renderla simile alle yogini, i malefici demoni femmine che nei luoghi di cremazione circondano il dio. 

La sua preghiera viene esaudita e la mistica diventa esangue, una specie di scheletro in perpetua adorazione ai piedi di Shiva, livido dio della morte che adornato di serpenti, teschi e polvere d'ossa danza sulle fiamme dei roghi funebri. In realtà, il pensiero religioso indiano ha raggiunto i suoi vertici appunto nello shivaismo, che considera la divinità non nel suo aspetto di forza vivificante ma nel suo aspetto di forza che distruggendo le forme particolari dissolve tutto nell’Uno senza forma




L'amico induista che mi ha fatto conoscere il Poema dell'Ammirabile mi ha chiesto perché amo Dio, e trovato del tutto inaccettabile la mia risposta, che cioè lo amo perché è misericordioso. Appunto allora mi ha suggerito di leggere il poema di Kareikkalammeyar, perché imparassi che Dio si ama perché è Dio, l'inconoscibile Uno, e non perché è conforme al nostro desiderio che lo vorrebbe buono e misericordioso verso di noi. 

Amare Dio perché è misericordioso - mi ha detto - non vuol dire amare Dio, ma amare noi stessi nell'idea interessata che ci facciamo di lui. Ma io sono rimasto convinto che amare Dio solo perché è Dio significa semplicemente sottostare alla sua strapotenza, obbedire insomma alla brutale necessità che ci obbliga a sottometterci a ciò che è più potente di noi; mentre amarlo perché è misericordioso significa essere conformi alla sua volontà che ha posto in noi, a sua immagine e somiglianza, il bisogno e la speranza della misericordia, insegnandoci a chiederla per noi e a darla agli altri.

Questa contrapposizione di atteggiamenti è quella che separa nettamente, di fronte al problema del male. La tradizione ebraico-cristiana non solo dall'induismo ma da tutte le altre analoghe religioni cosmiche che concepiscono Dio, anziché come onnipotente creatore pieno d'amore verso le creature alle quali per sua libera scelta ha dato la vita, come supremamente indifferente, nella sua assoluta immutabilità, alle sofferenze degli esseri che si avvicendano sulla terra.

 L'esistenza del male suscita scandalo nell'orizzonte della fede cristiana, mentre non suscita nessuno scandalo in quello indù, dove, anzi, di male non ha neppure senso parlare. perché gli uomini e le cose sono solo maya, apparenza, ed è reale solo l'Uno divino. Non c'è passaggio dal dio indù al Dio cristiano: convincersi del primo e abolire nel suo orizzonte la tragica domanda circa il male non avvicina in nessun modo al Dio di Gesù.




Proprio per questo l'esistenza del male pesa terribilmente contro la fede. Donde il male, se tutto ha origine nel Dio perfettamente potente e misericordioso? Sono in definitiva vani nell’orizzonte ebraico-cristiano, i millenari tentativi di superare la contraddizione tra onnipotenza e misericordia riducendo il male alla colpa, e spostando all'indietro nel tempo, con il peccato originale o la ribellione degli angeli, l'ingresso del male nell'opera di Dio.
Contro la concezione tipicamente pagana e platonica che con sereno distacco vede nella sofferenza che affligge gli uomini la giusta pena espiatrice delle loro colpe, necessaria per riequilibrare la bilancia della giustizia la quale garantisce il permanere dell'ordine universale, l'anima cristiana di Dostoevskij grida che Dio ha comunque torto di fronte alle lacrime di un solo bambino che soffre. E anche se Joseph de Maistre e altri con lui si associano alle ragioni platoniche ritenendole senz'altro cristiane, l'abisso fra Platone e Cristo è in realtà incolmabile.
Quanto poi alla giustificazione del male come prova meritoria o come espiazione da parte dell'innocente di colpe altrui, mi sembra difficile negare che ci sia, in queste intenzioni attribuite al Dio onnipotente e misericordioso, una strumentalizzazione delle più spaventose sofferenze: come se fare tranquillamente del dolore dell'innocente un mezzo in vista di un fine da conseguire non fosse la peggiore forma di degradazione dell'uomo a mezzo. 




Sebbene il racconto biblico termini con la sottomissione di Giobbe all'inscrutabile decreto di Dio che lo tormenta permettendo che senza adeguata colpa sia tormentato, le parole che Dio rivolge agli amici che in nome della religione avevano rimproverato Giobbe riconoscono - senza però rispondere - la legittimità della sua disperata protesta e della sua violenta ribellione: 

«Giobbe mio servitore intercederà per voi: allora, per lui, non vi condannerò per non aver detto, di me, la verità come l'ha detta il mio servitore Giobbe» (Giobbe, 42,8).






* Tratto da Silenzio di Dio di Sergio Quinzio. Arnoldo Mondadori Editore, 1982


venerdì 6 luglio 2018

L’eterno ritorno dell’uguale: l’impotenza della sinistra di fronte ai mutamenti della realtà

militant




Non c’erano dubbi in proposito, ma la direzione politica intrapresa dalle sinistre nell’accanita lotta al populismo ha dileguato come niente fosse il significato elettorale dello scorso 4 marzo. Prosegue, questa accolita al momento definitivamente espulsa dalla società, come se niente fosse cambiato rispetto a dieci o venti anni fa. Insiste nell’assoluta mancanza di coraggio nel sottoporre a critica radicale i motivi di fondo della sua esistenza. Fa luce su tutto questo un articolo di Gianpasquale Santomassimo, pubblicato lo scorso 29 giugno sul Manifesto. 

Nel pezzo, che  riportiamo in fondo al post, viene sottolineata l’apatia generale di questo insieme di sinistre che continuano a sottrarsi alla resa dei conti intellettuale e ideologica che pure sembra necessaria. Dal 5 marzo, come prevedibile, si è tornati a farneticare di fronti antifascisti, strillando al ritorno del fascismo, ignorando le scosse telluriche alla radice di un risultato elettorale che, a saperlo leggere, ci racconta di un mondo nuovo che finalmente ha trovato anche una sua rappresentanza politica capace di arrivare in prossimità del potere. Una rappresentanza che non ci piace (come potrebbe piacerci?), ma che piace a chi non ha alcuna alternativa materiale a cui affidarsi. Non è poco.  




Nel momento in cui la società reale, quella formata da milioni di proletari vinti alle logiche populiste, decreta l’espulsione del Pd dal governo, pezzi di sinistra residuale tornano a proporre strampalate alleanze antirazziste al fianco di chi, in questi anni, ha assolto il compito di promuovere un razzismo diffuso e dal volto umano verso i ceti popolari in generale e i migranti in particolare.

Si agita il mito di un Pd “derenzizzato” a cui non crede più neanche Cuperlo, per dire; si favoleggia di “ripartenze dai territori”, come se la cinghia di trasmissione tra centro e periferia del partito della stabilità liberista fosse in qualche modo attaccabile in qualche suo punto debole. Nell’istante in cui il Pd muore, un pezzo di sinistra si offre come stampella ideologica nella lotta al razzismo leghista. E tutto questo in attesa del passaggio di consegne tra Renzi e Zingaretti.

A quel punto i fuochi d’artificio saranno assicurati: finalmente il Pd verrà rimesso al centro di ogni possibile alleanza progressista contro il fascismo. Ma la mancata analisi del 4 marzo sta producendo molti più danni di quanto fosse lecito aspettarsi.


 


Proprio nel momento in cui finalmente si procede all’attacco frontale contro l’ongizzazione delle questioni sociali, di cui quella migrante è la più evidente, la sinistra – tutta – viene costretta dentro una logica binaria di difesa di quelle stesse Ong, che costituiscono da decenni lo strumento attraverso cui disattivare qualsivoglia conflittualità politica riguardante le contraddizioni generate dal liberismo in crisi. 

Nel momento in cui si diviene, volenti o nolenti, espressione politica dell’ideologia Ong, viene persa per strada la natura sociale del voto del 4 marzo, cioè il contraddittorio rifiuto della stabilità liberista fondata sui dogmi del pareggio di bilancio e della riduzione del welfare. La questione migrante smette i panni della problematica sociale per indossare quelli, pacificati, della questione culturale: razzisti contro antirazzisti, come se, di punto in bianco, quegli stessi milioni di proletari si siano automaticamente convinti della difesa della razza (mentre se avessero votato Pd, Leu e accozzaglia varia, sarebbero rimasti illuminati umanisti).

A forza di sballare paragoni col passato ripetendoli meccanicamente ad ogni cambio di governo (c’era il fascismo con la Dc, con Berlusconi, con Prodi, con Monti, con Renzi…), ci ritroviamo a braccetto con chi ha tutto l’interesse a declinare la lotta al populismo come questione antirazzista. Un tema che è centrale, ovviamente, ma solo ed esclusivamente in quanto sociale, cioè espressione e lotta al risentimento piccolo borghese verso i lavoratori poveri. 


Eppure è proprio la questione sociale ad essere scomparsa dai radar della sinistra dopo il 4 marzo. Prova ne è la (non) reazione delle sinistre verso il “decreto dignità” in corso di approvazione dal governo. Per la prima volta – ripetiamo: per la prima volta – da decenni viene approvato un decreto che va contro gli interessi di Confindustria, che infatti ha scatenato subito la contraerea ideologica guidata da Repubblica

Un decreto ultra-mediato, ovviamente, dal sapore propagandistico, certamente. Una misura più da campagna elettorale che materialmente efficace. Non può essere il nostro orizzonte, neanche volendoci attestare a una visione riformista dell’azione di governo. Eppure rimane il segnale: in assenza di opposizione sociale, nel deserto di qualsiasi spinta dal basso, popolare, verso misure di redistribuzione del reddito, il governo vara una di quelle misure per cui è stato per l’appunto votato dai proletari di cui sopra. Un decreto immediatamente contrastato dal partito unico di Repubblica.

La (non) reazione delle sinistre esemplifica il punto morto a cui sono giunte: sghignazzamenti sui social network, sbeffeggiamenti, disinteresse generale. Eppure è proprio attorno alla questione sociale, cioè all’azione di destituzione delle controriforme liberiste del Pd, che si gioca la partita complessiva tra governo e sua possibile opposizione. Solo da qui è possibile immaginare una lotta al razzismo economico che sia al tempo stesso guerra senza quartiere a ogni ipotesi centrosinistra, nonché in grado di recuperare un rapporto con chi si è rassegnato all’egemonia populista.






Poi, certamente, una posizione politica non “vive” per il solo fatto di essere giusta. Andrebbe anche, soprattutto, declinata nelle lotte di classe. Non c’è alcuna soluzione a portata di mano al momento. Ma reiterare l’orrore di una sinistra succube del liberismo democratico non può che approfondire la distanza abissale tra sinistra e classi popolari del paese.


***


 


La rappresentanza sociale ha cambiato verso
Gianpasquale Santomassimo

Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo. In effetti revisione della legge Fornero, del Jobs Act, della «Buona scuola», il reddito di cittadinanza, sarebbero provvedimenti che tutta «la sinistra» avrebbe dovuto assumere Si ha l’impressione che, lasciati alle spalle i proponimenti iniziali, della sconfitta del 4 marzo si sia attenuata o smarrita l’eco a sinistra. E anche le rovinose sconfitte successive, non suscitano reazioni oltre la riaffermazione sostanziale della giustezza della propria linea. Non viene detto esplicitamente, ma è implicito nella riproposizione delle certezze del passato recente e nello stesso modo di valutare il successo degli avversari.

Se ci si convince di vivere in un paese fascista e razzista (inserito a sua volta in un continente ancor più razzista, se la questione dei migranti è la cartina di tornasole di tutto il resto) la cosa non potrà che risolversi nella proposizione di una sorta di «suprematismo morale» da parte di una minoranza che considera il resto del mondo «disumano», che crede di detenere in esclusiva intelligenza e umanità, che nega alla stragrande maggioranza del popolo italiano ed europeo.





Una minoranza che sembra aver smarrito perfino la curiosità intellettuale di studiare con serietà gli avversari e le loro motivazioni, di comprenderne natura e logica, che è o dovrebbe ssere compito preliminare di ogni battaglia politica, accontentandosi di ripetere luoghi comuni stereotipati e consolatori. Un facile alibi per questo atteggiamento è sicuramente rappresentato dall’onnipresenza mediatica dei proclami di Matteo Salvini, che è ormai invadente e pervasiva quanto quella che fu di Matteo Renzi.

CON UNA DIFFERENZA fondamentale, però: Renzi si rivolgeva a una Italia in gran parte immaginaria, fatta di «eccellenze», brevetti, «startup», benestanti felici coi figlioli all’Erasmus. Salvini invece si rivolge a un’Italia fin troppo reale, impoverita e incattivita, che esprime un bisogno di protezione e sicurezza. Sicurezza che è una dimensione globale e avvertita come tale dalla popolazione, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico.

A mio avviso il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento. È un fenomeno che rischia di assumere una dimensione epocale (non solo italiana) e di segnare una fase non breve della nostra storia. Non giunge per la verità inatteso, anzi si può considerare per qualche aspetto uno sbocco tardivo, venendo dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per le generazioni più giovani.

Temo che anche il mitico «nuovo centrosinistra», che viene spesso evocato con poca fantasia, sia ormai una prospettiva usurata, sia perché è stata una politica ormai rigettata dagli elettori, sia perché la nuova alleanza di governo è già, in termini sociali, una replica dell’alleanza tra classi e ceti, tra aree diverse della popolazione, tra interessi che possono convergere e che furono propri di quella esperienza.

OVVIAMENTE CON FORTI influenze della destra nel discorso pubblico e nel senso comune, perché questa è l’aria che si respira, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Ma senza un segno univoco di destra, con una compresenza di tematiche su cui si potrebbe convenire e di propositi inquietanti: in effetti revisione della legge Fornero, del Jobs act, della «Buona Scuola», reddito di cittadinanza, erano provvedimenti che «la sinistra» avrebbe dovuto assumere per riacquistare un minimo di credibilità presso quelli che in un tempo lontano furono i suoi serbatoi elettorali. E anche andare in Europa con la spina dorsale, senza essere succubi di mitologie illusorie, sarebbe stata cosa buona e giusta.




LE INDUBBIE VENATURE razziste che emergono nel discorso pubblico sono conseguenza abbastanza inevitabile dell’egemonia consegnata alle destre. Vanno rifiutate e combattute, possibilmente senza continuare a schierarsi col potere oppressivo di Bruxelles. Ma sarebbe anche lecito interrogarsi su quanto le questioni riconducibili al «razzismo» abbiano un peso effettivo nei comportamenti elettorali di una platea così vasta, e personalmente estenderei il dubbio anche alla questione dei migranti, forse non così cruciale nel motivare le scelte rispetto a quanto suggerirebbe la propaganda ossessiva di Salvini e di altri governanti in Europa.
In ogni caso, continuare a trattare Di Maio e Salvini da ignoranti o trogloditi è sbagliato e sterile.

Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche (Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.

Con buona pace di Umberto Eco, il fascismo non è una categoria dello spirito ma è un fenomeno storico dalle caratteristiche ampiamente studiate e discusse, e va evitato l'abuso di «false analogie» di cui un tempo eravamo abituati a diffidare.

Aggiungerei che ricondurre automaticamente ogni forma di razzismo al fascismo è un dispositivo mentale che semplifica e banalizza entrambi i termini in questione. Non tiene conto fra l’altro della lunga tradizione coloniale, e in essa del ruolo delle democrazie coloniali, le più radicali e risolute nella pratica della discriminazione e dell’apartheid. Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato, la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo.



 
QUESTA NUOVA DESTRA si potrà combattere solo contendendole la capacità di parlare ai ceti popolari. Servirebbe un vero Partito del lavoro, collegato a sindacati, organizzazioni esistenti, corpi intermedi. Purtroppo è qualcosa a cui la sinistra nel suo complesso appare oggi del tutto inadeguata, tanto nel balbettio di una sinistra «riformista» artefice della situazione nella quale ci troviamo, quanto negli automatismi di una sinistra «radicale» che non riesce a dismettere l’abitudine di immaginarsi solo come assemblaggio di minoranze e monoculture, incapace di rivolgersi alla società italiana nel suo complesso.

Tutta la sinistra, moderata, radicale o antagonista, è stata percepita dalla maggioranza dei cittadini come estranea o nemica. Se non si parte da questa dolorosa consapevolezza sarà molto difficile proporsi di voltare pagina e ripensare tutto, con umiltà. Presidiare il tre-quattro per cento, destinato a farsi sempre più precario, può risolversi alla fine in uno sforzo inutile e superfluo, perché le classi popolari troveranno comunque il modo di farsi rappresentare, con o senza una sinistra.

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