uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

venerdì 6 luglio 2018

L’eterno ritorno dell’uguale: l’impotenza della sinistra di fronte ai mutamenti della realtà

militant




Non c’erano dubbi in proposito, ma la direzione politica intrapresa dalle sinistre nell’accanita lotta al populismo ha dileguato come niente fosse il significato elettorale dello scorso 4 marzo. Prosegue, questa accolita al momento definitivamente espulsa dalla società, come se niente fosse cambiato rispetto a dieci o venti anni fa. Insiste nell’assoluta mancanza di coraggio nel sottoporre a critica radicale i motivi di fondo della sua esistenza. Fa luce su tutto questo un articolo di Gianpasquale Santomassimo, pubblicato lo scorso 29 giugno sul Manifesto. 

Nel pezzo, che  riportiamo in fondo al post, viene sottolineata l’apatia generale di questo insieme di sinistre che continuano a sottrarsi alla resa dei conti intellettuale e ideologica che pure sembra necessaria. Dal 5 marzo, come prevedibile, si è tornati a farneticare di fronti antifascisti, strillando al ritorno del fascismo, ignorando le scosse telluriche alla radice di un risultato elettorale che, a saperlo leggere, ci racconta di un mondo nuovo che finalmente ha trovato anche una sua rappresentanza politica capace di arrivare in prossimità del potere. Una rappresentanza che non ci piace (come potrebbe piacerci?), ma che piace a chi non ha alcuna alternativa materiale a cui affidarsi. Non è poco.  




Nel momento in cui la società reale, quella formata da milioni di proletari vinti alle logiche populiste, decreta l’espulsione del Pd dal governo, pezzi di sinistra residuale tornano a proporre strampalate alleanze antirazziste al fianco di chi, in questi anni, ha assolto il compito di promuovere un razzismo diffuso e dal volto umano verso i ceti popolari in generale e i migranti in particolare.

Si agita il mito di un Pd “derenzizzato” a cui non crede più neanche Cuperlo, per dire; si favoleggia di “ripartenze dai territori”, come se la cinghia di trasmissione tra centro e periferia del partito della stabilità liberista fosse in qualche modo attaccabile in qualche suo punto debole. Nell’istante in cui il Pd muore, un pezzo di sinistra si offre come stampella ideologica nella lotta al razzismo leghista. E tutto questo in attesa del passaggio di consegne tra Renzi e Zingaretti.

A quel punto i fuochi d’artificio saranno assicurati: finalmente il Pd verrà rimesso al centro di ogni possibile alleanza progressista contro il fascismo. Ma la mancata analisi del 4 marzo sta producendo molti più danni di quanto fosse lecito aspettarsi.


 


Proprio nel momento in cui finalmente si procede all’attacco frontale contro l’ongizzazione delle questioni sociali, di cui quella migrante è la più evidente, la sinistra – tutta – viene costretta dentro una logica binaria di difesa di quelle stesse Ong, che costituiscono da decenni lo strumento attraverso cui disattivare qualsivoglia conflittualità politica riguardante le contraddizioni generate dal liberismo in crisi. 

Nel momento in cui si diviene, volenti o nolenti, espressione politica dell’ideologia Ong, viene persa per strada la natura sociale del voto del 4 marzo, cioè il contraddittorio rifiuto della stabilità liberista fondata sui dogmi del pareggio di bilancio e della riduzione del welfare. La questione migrante smette i panni della problematica sociale per indossare quelli, pacificati, della questione culturale: razzisti contro antirazzisti, come se, di punto in bianco, quegli stessi milioni di proletari si siano automaticamente convinti della difesa della razza (mentre se avessero votato Pd, Leu e accozzaglia varia, sarebbero rimasti illuminati umanisti).

A forza di sballare paragoni col passato ripetendoli meccanicamente ad ogni cambio di governo (c’era il fascismo con la Dc, con Berlusconi, con Prodi, con Monti, con Renzi…), ci ritroviamo a braccetto con chi ha tutto l’interesse a declinare la lotta al populismo come questione antirazzista. Un tema che è centrale, ovviamente, ma solo ed esclusivamente in quanto sociale, cioè espressione e lotta al risentimento piccolo borghese verso i lavoratori poveri. 


Eppure è proprio la questione sociale ad essere scomparsa dai radar della sinistra dopo il 4 marzo. Prova ne è la (non) reazione delle sinistre verso il “decreto dignità” in corso di approvazione dal governo. Per la prima volta – ripetiamo: per la prima volta – da decenni viene approvato un decreto che va contro gli interessi di Confindustria, che infatti ha scatenato subito la contraerea ideologica guidata da Repubblica

Un decreto ultra-mediato, ovviamente, dal sapore propagandistico, certamente. Una misura più da campagna elettorale che materialmente efficace. Non può essere il nostro orizzonte, neanche volendoci attestare a una visione riformista dell’azione di governo. Eppure rimane il segnale: in assenza di opposizione sociale, nel deserto di qualsiasi spinta dal basso, popolare, verso misure di redistribuzione del reddito, il governo vara una di quelle misure per cui è stato per l’appunto votato dai proletari di cui sopra. Un decreto immediatamente contrastato dal partito unico di Repubblica.

La (non) reazione delle sinistre esemplifica il punto morto a cui sono giunte: sghignazzamenti sui social network, sbeffeggiamenti, disinteresse generale. Eppure è proprio attorno alla questione sociale, cioè all’azione di destituzione delle controriforme liberiste del Pd, che si gioca la partita complessiva tra governo e sua possibile opposizione. Solo da qui è possibile immaginare una lotta al razzismo economico che sia al tempo stesso guerra senza quartiere a ogni ipotesi centrosinistra, nonché in grado di recuperare un rapporto con chi si è rassegnato all’egemonia populista.






Poi, certamente, una posizione politica non “vive” per il solo fatto di essere giusta. Andrebbe anche, soprattutto, declinata nelle lotte di classe. Non c’è alcuna soluzione a portata di mano al momento. Ma reiterare l’orrore di una sinistra succube del liberismo democratico non può che approfondire la distanza abissale tra sinistra e classi popolari del paese.


***


 


La rappresentanza sociale ha cambiato verso
Gianpasquale Santomassimo

Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo. In effetti revisione della legge Fornero, del Jobs Act, della «Buona scuola», il reddito di cittadinanza, sarebbero provvedimenti che tutta «la sinistra» avrebbe dovuto assumere Si ha l’impressione che, lasciati alle spalle i proponimenti iniziali, della sconfitta del 4 marzo si sia attenuata o smarrita l’eco a sinistra. E anche le rovinose sconfitte successive, non suscitano reazioni oltre la riaffermazione sostanziale della giustezza della propria linea. Non viene detto esplicitamente, ma è implicito nella riproposizione delle certezze del passato recente e nello stesso modo di valutare il successo degli avversari.

Se ci si convince di vivere in un paese fascista e razzista (inserito a sua volta in un continente ancor più razzista, se la questione dei migranti è la cartina di tornasole di tutto il resto) la cosa non potrà che risolversi nella proposizione di una sorta di «suprematismo morale» da parte di una minoranza che considera il resto del mondo «disumano», che crede di detenere in esclusiva intelligenza e umanità, che nega alla stragrande maggioranza del popolo italiano ed europeo.





Una minoranza che sembra aver smarrito perfino la curiosità intellettuale di studiare con serietà gli avversari e le loro motivazioni, di comprenderne natura e logica, che è o dovrebbe ssere compito preliminare di ogni battaglia politica, accontentandosi di ripetere luoghi comuni stereotipati e consolatori. Un facile alibi per questo atteggiamento è sicuramente rappresentato dall’onnipresenza mediatica dei proclami di Matteo Salvini, che è ormai invadente e pervasiva quanto quella che fu di Matteo Renzi.

CON UNA DIFFERENZA fondamentale, però: Renzi si rivolgeva a una Italia in gran parte immaginaria, fatta di «eccellenze», brevetti, «startup», benestanti felici coi figlioli all’Erasmus. Salvini invece si rivolge a un’Italia fin troppo reale, impoverita e incattivita, che esprime un bisogno di protezione e sicurezza. Sicurezza che è una dimensione globale e avvertita come tale dalla popolazione, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico.

A mio avviso il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento. È un fenomeno che rischia di assumere una dimensione epocale (non solo italiana) e di segnare una fase non breve della nostra storia. Non giunge per la verità inatteso, anzi si può considerare per qualche aspetto uno sbocco tardivo, venendo dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per le generazioni più giovani.

Temo che anche il mitico «nuovo centrosinistra», che viene spesso evocato con poca fantasia, sia ormai una prospettiva usurata, sia perché è stata una politica ormai rigettata dagli elettori, sia perché la nuova alleanza di governo è già, in termini sociali, una replica dell’alleanza tra classi e ceti, tra aree diverse della popolazione, tra interessi che possono convergere e che furono propri di quella esperienza.

OVVIAMENTE CON FORTI influenze della destra nel discorso pubblico e nel senso comune, perché questa è l’aria che si respira, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Ma senza un segno univoco di destra, con una compresenza di tematiche su cui si potrebbe convenire e di propositi inquietanti: in effetti revisione della legge Fornero, del Jobs act, della «Buona Scuola», reddito di cittadinanza, erano provvedimenti che «la sinistra» avrebbe dovuto assumere per riacquistare un minimo di credibilità presso quelli che in un tempo lontano furono i suoi serbatoi elettorali. E anche andare in Europa con la spina dorsale, senza essere succubi di mitologie illusorie, sarebbe stata cosa buona e giusta.




LE INDUBBIE VENATURE razziste che emergono nel discorso pubblico sono conseguenza abbastanza inevitabile dell’egemonia consegnata alle destre. Vanno rifiutate e combattute, possibilmente senza continuare a schierarsi col potere oppressivo di Bruxelles. Ma sarebbe anche lecito interrogarsi su quanto le questioni riconducibili al «razzismo» abbiano un peso effettivo nei comportamenti elettorali di una platea così vasta, e personalmente estenderei il dubbio anche alla questione dei migranti, forse non così cruciale nel motivare le scelte rispetto a quanto suggerirebbe la propaganda ossessiva di Salvini e di altri governanti in Europa.
In ogni caso, continuare a trattare Di Maio e Salvini da ignoranti o trogloditi è sbagliato e sterile.

Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche (Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.

Con buona pace di Umberto Eco, il fascismo non è una categoria dello spirito ma è un fenomeno storico dalle caratteristiche ampiamente studiate e discusse, e va evitato l'abuso di «false analogie» di cui un tempo eravamo abituati a diffidare.

Aggiungerei che ricondurre automaticamente ogni forma di razzismo al fascismo è un dispositivo mentale che semplifica e banalizza entrambi i termini in questione. Non tiene conto fra l’altro della lunga tradizione coloniale, e in essa del ruolo delle democrazie coloniali, le più radicali e risolute nella pratica della discriminazione e dell’apartheid. Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato, la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo.



 
QUESTA NUOVA DESTRA si potrà combattere solo contendendole la capacità di parlare ai ceti popolari. Servirebbe un vero Partito del lavoro, collegato a sindacati, organizzazioni esistenti, corpi intermedi. Purtroppo è qualcosa a cui la sinistra nel suo complesso appare oggi del tutto inadeguata, tanto nel balbettio di una sinistra «riformista» artefice della situazione nella quale ci troviamo, quanto negli automatismi di una sinistra «radicale» che non riesce a dismettere l’abitudine di immaginarsi solo come assemblaggio di minoranze e monoculture, incapace di rivolgersi alla società italiana nel suo complesso.

Tutta la sinistra, moderata, radicale o antagonista, è stata percepita dalla maggioranza dei cittadini come estranea o nemica. Se non si parte da questa dolorosa consapevolezza sarà molto difficile proporsi di voltare pagina e ripensare tutto, con umiltà. Presidiare il tre-quattro per cento, destinato a farsi sempre più precario, può risolversi alla fine in uno sforzo inutile e superfluo, perché le classi popolari troveranno comunque il modo di farsi rappresentare, con o senza una sinistra.

© 2018 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE








Nessun commento:

Posta un commento