uno dei due è l'altro

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martedì 24 maggio 2016

Riforma o rivoluzione sociale? Postcapitalismo!


Sebastiano Isaia


Masolino da Panicale

La tecnologia sta trasformando il capitalismo in qualcosa di radicalmente diverso, non solo rispetto ai suoi tumultuosi esordi e agli anni d’oro del suo consolidamento e della sua gigantesca espansione (prima globalizzazione: dalla rivoluzione industriale alla Prima guerra mondiale), ma anche rispetto al capitalismo di pochi decenni fa. La transizione dal noto all’ignoto accelera, così che si possa stimare in cinquanta anni, anno più, anno meno, il tempo che ci separa dalla sempre più probabile e necessaria estinzione del capitalismo, uscita di scena che peraltro assumerà una modalità assai diversa da quella immaginata dai comunisti del XIX e del XX secolo.


Si tratterà, infatti, di una rivoluzione tecnologica e politica assolutamente pacifica. D’altra parte, la cattiva esperienza della Russia socialista obbliga la sinistra, la sola forza politica che possa mettere sui giusti binari la transizione dal Capitalismo al Postcapitalismo, a una  profonda revisione politica dei suoi vecchi schemi, pena la sua definitiva uscita di scena a tutto vantaggio di una destra razzista e sovranista sempre più pericolosa. Un nuovo tipo di sharing economy sta dunque crescendo sotto la superficie del capitalismo avanzato, e alla fine la prassi della condivisione generalizzata di beni e servizi lo distruggerà dall’interno. Economia capitalistica di mercato ed economia postcapitalista coesisteranno per qualche decennio, ma alla fine la prima dovrà cedere il passo alla seconda, perché il cambiamento può essere certamente ostacolato e rallentato (ad esempio attraverso la creazione di monopoli: vedi Uber, Google, Facebook, Amazon, ecc.), ma non impedito indefinitamente. 



La produttività sociale generata dalle tecnologie intelligenti spinge il tempo di lavoro, il prezzo delle merci/servizi e il profitto verso un punto critico che per l’economia attuale equivale a una pugnalata inferta al cuore: lo zero economico. Il capitalismo ha superato la soglia tecnologica del non ritorno? Nessuno può dirlo. In ogni caso, la costituzione di un nuovo Potere sistemico accanto a quello vecchio è già in atto. Lungi dall’essere distrutto, secondo il vecchio canone marxista che nella Russia socialista e altrove ha fornito una pessima prova di sé, lo Stato dev’essere ripensato come catalizzatore e come motore della transizione dal Capitalismo al Postcapitalismo.

Questo è, in estrema – e perciò stesso incompleta e riduttiva – sintesi, il nucleo concettuale che pulsa al centro di Postcapitalism, un interessante – ma tutt’altro che originale (1) – saggio scritto da Paul Mason, giornalista economico inglese di simpatie laburiste e profondo conoscitore della vasta letteratura “postcapitalistica” prodotta in Italia. 

«Se negli anni Settanta Negri e la sinistra radicale italiana erano prematuri nell’affermare che la fabbrica non era più il luogo della lotta di classe e che la società stessa era diventata la fabbrica, oggi quest’affermazione è corretta»

No, non lo era allora, corretta, e non lo è tanto meno oggi. È ciò che proverò ad argomentare (dimostrare mi sembra fuori dalla mia portata) nelle pagine che seguono.


Evgeny Morozov, assai critico delle tesi postcapitalistiche di Mason (alle quali oppone il vitalismo liberista dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, premio Nobel nel 1974), sostiene (su Twitter) che «non possiamo pensare a una narrativa di internet che non contempli il capitalismo, come non possiamo pensare a una narrativa del capitalismo che non contempli internet».



In realtà è la stessa distinzione operata da Morozov che appare debole, evanescente, poco significativa fattivamente e concettualmente. Scrive Mason: «Il capitalismo non sarà abolito a tappe forzate. Sarà abolito creando qualcosa di più dinamico, che già esiste, quasi invisibile, all’interno del vecchio sistema, e che poi verrà alla luce rimodellando l’economia intorno a nuovi valori, nuove norme e nuovi comportamenti» (2). Mason chiama il mondo che – forse – verrà dopo il definitivo esaurimento della spinta propulsiva (e adattiva) del Capitalismo Postcapitalismo, appunto; forse per economia di pensiero, o forse perché rimanere nel vago “fa” più… postmoderni.

La fuoriuscita dell’umanità dalla disumana dimensione del Capitalismo senza attraversare l’impervio – quanto, a mio avviso, necessario – sentiero della rivoluzione sociale, ma grazie allo spontaneo “salto dialettico” dalla quantità alla qualità reso possibile dallo stesso sviluppo capitalistico: è, questa, un’utopia reazionaria (mille volte contraddetta dal reale processo sociale mondiale) che spesse volte ha fatto capolino nella storia del movimento operaio internazionale. È sufficiente menzionare il Bernsteindebatte, l’acceso dibattito che si sviluppò nel seno del socialismo europeo alla fine del XIX secolo intorno agli articoli del socialista “revisionista” Eduard Bernstein pubblicati sulla Neue Zeit dal 1896 al 1898, per farsi un’idea abbastanza precisa di ciò che intendo dire. Rosa Luxemburg accuserà Bernstein di voler trasformare «tutto il movimento operaio [in] un’inutile rattoppatura per la salvezza dell’ordine capitalistico» (3). 

 
Com’è noto, Bernstein sosteneva che i nuovi fenomeni economico-sociali sorti dopo la morte di Marx (sviluppo del sistema creditizio, sviluppo delle organizzazioni imprenditoriali, del monopolio, delle comunicazioni; miglioramento della situazione economica e politica del proletariato, ecc.) per un verso accrescevano la capacità di adattamento del Capitalismo, allontanando forse per sempre lo spettro delle crisi generali, fondamento materiale delle rivoluzioni sociali; e per altro verso, “dialetticamente”, questi stessi fenomeni rappresentavano «al tempo stesso premesse, e in parte persino prodromi della socializzazione della produzione e dello scambio» (E. Bernstein, New Zeit, 1897-98). 

La mela matura del Socialismo sarebbe caduta dall’albero da sola, oppure dopo uno scossone elettorale e qualche sciopero pacifico: nulla legittimava più il “vecchio” modello di rivoluzione sociale pensato da Marx in una precedente fase dello sviluppo capitalistico. Scriveva la Luxemburg: «Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, conservano il capitalismo, come possono rappresentare al tempo stesso “premesse e in parte addirittura prodromi del socialismo”? Evidentemente solo nel senso che essi esprimono più nettamente il carattere sociale della produzione. Ma in quanto la conservano nella sua forma capitalistica, essi al contrario rendono in pari misura vano il passaggio da questa produzione socializzata alla forma socialista» (4). In estrema – e personalissima – sintesi: senza l’urto rivoluzionario promosso dal proletariato armato di coscienza di classe e di organizzazione autonoma, nessuna mela “socialista” potrà mai cadere dall’albero capitalistico. 



La somma delle riforme sociali non genera il “salto dialettico” dalla quantità alla qualità, ma accresce piuttosto le capacità adattive del vigente Dominio sociale.

Dalla prospettiva autenticamente anticapitalista il movimento rivendicativo economico e politico dei lavoratori deve essere subordinato allo «scopo finale», il quale «non è uno stato che attende il proletariato al termine del movimento, indipendentemente da questo movimento e dal cammino che esso percorre, uno “Stato dell’avvenire” situato in qualche luogo; non è uno stato che si possa di conseguenza tranquillamente dimenticare nelle lotte quotidiane e accentuare tutt’al più nelle prediche domenicali come un momento di elevazione opposto alle preoccupazioni quotidiane. [...] Lo scopo finale è invece piuttosto quella relazione alla totalità (alla totalità della società considerata come processo), da cui soltanto ogni singolo momento della lotta trae il suo senso rivoluzionario» (5)

Qui si afferma, sulla scorta di Hegel e di Marx, «il predominio della categoria della totalità», chiamata a riempire di senso e di una concretezza non volgarmente empirica la contingenza.

Quando leggo le perle “dialettiche” degli attuali teorici del “salto dialettico” più o meno inevitabile/spontaneo (vedi gli accelerazionisti e i proudhoniani d’ogni tendenza), non posso che inchinarmi al cospetto della seguente tesi luxemburghiana: «La teoria bernsteiniana è stata il primo, ma insieme anche l’ultimo, tentativo di dare una base teorica all’opportunismo» (6). In effetti, gli epigoni inconsapevoli di Bernstein (e di Proudhon) non fanno che ripetere, attualizzandolo, l’impianto politico-dottrinario del maestro, autore della celebre formula “movimentista” che postula il primato assoluto del movimento («che è tutto») sullo scopo finale («che è nulla»). 




Il loro errore concettuale fondamentale, che li costringe a muoversi politicamente ben dentro la continuità del dominio capitalistico, consiste in una infondata lettura della natura sociale del Capitalismo, che essi allo stesso tempo esaltano (come «premesse e in parte addirittura prodromi del socialismo») e sottovalutano (come reale modo di essere del Capitalismo). Per mutuare Goethe (che nel libro citato Rosa Luxemburg usa contro Corrado Schmidt), ciò che esiste (la realtà) essi lo vedono in lontananza, e ciò che ancora non esiste (la possibilità) essi la vedono alla stregua di una realtà fattuale: di qui ciò che mi piace chiamare, con riferimento ai riformatori sociali dei nostri tempi (vedi, ad esempio, il solito Toni Negri), “ottimismo della pseudo-rivoluzione”. Per questi ottimisti incalliti la madre della “rivoluzione” è sempre incinta e sul punto di partorire un nuovo mondo rigorosamente post (e oltre) qualche cosa: postfordista, postindustrialista, postmoderno, post-post, e così via.

Mentre Bernstein puntò a suo tempo (in un momento in cui il ciclo espansivo dell’accumulazione capitalistica sembrava inarrestabile, come l’ascesa della Germania a potenza globale di prima grandezza) i riflettori sulla capacità adattativa del Capitalismo giunto nella sua fase “matura”, Mason (che muove da una congiuntura economica sfavorevole, tale da alimentare il dibattito rubricato come stagnazione secolare) parte dal presupposto opposto: «In breve, la tesi di questo libro è la seguente: il capitalismo è un sistema adattivo complesso che ha raggiunto i limiti della propria capacità di adattamento» (7). Il riformismo del primo sembra insomma radicarsi su una concezione ottimistica circa lo stato di salute del Capitalismo, mentre quello del secondo appare fondarsi su una concezione che in qualche modo ricorda il “crollismo” contro cui il “revisionista” tedesco si batté strenuamente.



Scrive Mason: «Nuove forme di proprietà, nuove forme di prestito, nuovi contratti: negli ultimi dieci anni è nata una nuova sottocultura d’impresa che i mezzi d’informazione hanno chiamato sharing economy, economia della condivisione. Si sentono dovunque termini come “beni comuni” e “produzione peer to peer”, ma pochi si sono chiesti cosa comportano questi nuovi sviluppi per il capitalismo. Penso che questi microprogetti offrano una via d’uscita, ma solo se saranno coltivati, promossi e tutelati attraverso un cambiamento radicale dell’attività dei governi. Tutto questo potrà cominciare solo con un nuovo modo di concepire la tecnologia, la proprietà e il lavoro. A quel punto, quando creeremo gli elementi del nuovo sistema, potremo dire a noi stessi e agli altri: “Questo non è più solo il mio meccanismo di sopravvivenza, il mio rifugio dal mondo neoliberista, ma un nuovo modo di vivere in via di formazione”»

Si tratta, insomma, di dare impulso a una rivoluzione politico-culturale in grado di sprigionare per intero il potenziale economico-sociale che mina le fondamenta del Capitalismo old style, e anche i governi naturalmente sono chiamati a dare il loro prezioso contributo. Come il platonico «pensiero di Dio», il Capitale cognitivo di cui parla Mason «si nutre di intelletto e di scienza pura» (Fedro).



Niente da dire, nulla da obiettare; ma perché chiamare Postcapitalismo un classico progetto di “rivoluzione capitalistica”?

Ovviamente non sto contrapponendo la posizione rivoluzionaria di Rosa Luxemburg, di Lukács o di qualche altro comunista citato in queste pagine alla posizione borghese-progressista di Mason, operazione che sarebbe ridicola sotto tutti i punti di vista; cerco piuttosto di prendere spunto dalle argomentazioni del postcapitalista inglese per sviluppare una serie di riflessioni intorno a dei nodi teorici e politici che a me appaiono meritevoli d’attenzione. Scrive Lelio Demichelis a proposito del libro di Mason: «È il trionfo del capitalismo di piattaforma, che non è qualcosa di virtuoso che permette una cooperazione libera tra soggetti anch’essi liberi, appunto mediante una piattaforma tecnologica (un mezzo), ciascuno potendo godere del lavoro condiviso con altri. Ma è un capitalismo di piattaforma perché i profitti (il fine) sono di chi possiede la piattaforma (come nel caso di Uber o di Airbnb), non di chi la usa. E la stessa sharing economy è sì condivisione ma deve prourre business per la piattaforma; o altrimenti, è meglio definibile come economia della sopravvivenza in tempi di impoverimento di massa». Più che di un Postcapitalismo dovremmo piuttosto parlare di un ultracapitalismo, non c’è dubbio.

Demichelis è pronto a riconoscere le colpe che fanno capo alla scienza sociale per ciò che riguarda la fabbricazione della mitologia intorno a un’incompresa «economia della conoscenza», al «capitalismo cognitivo di pochi anni fa»: «Economisti e soprattutto noi sociologi abbiamo (non tutte, ma) molte colpe nell’avere favorito questa rivoluzione linguistica. Che si basava e ancora si basa su un drammatico errore di valutazione delle trasformazioni avvenute e ancora in atto appunto nell’organizzazione del lavoro capitalista. Un errore. Intellettuale e di analisi» (8).



Come non condividere. Ciò su cui invece non mi trovo per nulla d’accordo con Demichelis è sulla sua predilezione per l’economia capitalistica che l’Occidente ha conosciuto nell’altrettanto mitico «Trentennio glorioso» seguito al Secondo macello imperialistico mondiale: «Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato. Come il fatto che il lavoro era un diritto. Ed è diventato una merce. Chiamando però tutto questo modernità e innovazione». Il classico piagnisteo dei nostalgici del tempo in cui il Muro di Berlino era ancora in piedi. Detto en passant, e solo per mera pignoleria dottrinaria, il lavoro (salariato) non è diventato una merce al tempo dell’odiato neoliberismo: lo è sempre stato in regime capitalistico, nell’Ovest capitalisticamente più dinamico come nell’Est dominato dal modello capitalistico di matrice Sovietica – nel senso della defunta URSS, si capisce.


note
(1) Sotto questo aspetto Lelio Demichelis non sbaglia quando scrive che «Leggere Mason fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva laliberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Rifkin, alla wikinomics di Tapscott e Williams (2007), alpunkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’internet delle cose, all’ascesa del commons collaborativo e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Negri e Hardt del Comune (2010). Per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste. Quindi, incapaci di vedere come la soluzione da loro proposta per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia che, da sola permetterebbe condivisione e libera circolazione delle idee – sia in contraddizione con l’essere la tecnologia ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola), la tecnologia permettendo al capitalismo di sopravvivere alle sue contraddizioni, il capitalismo essendo la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono. Paradossale è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (e globale e totalitaria la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescere se stessa, possa giocare contro se stessa liberando se stessa (e gli uomini) dal capitalismo che la sostiene» (MicroMega). Non condivido invece, come si evince altrove nel presente testo, la proposta politica di Demichelis: «Ci vuole ben altro, allora, per uscire dal tecno-capitalismo. Occorre soprattutto una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Deve tornare? Lo sanno tutti che da quando il Capitalismo è Capitalismo «il fine» è la ricerca del profitto! Spesso la rivendicazione del primato della politica sull’economia cela, e al contempo rivela, la nostalgia per il vecchio Capitalismo (o «dirigismo» ovvero «socialismo») di Stato.
(2) P. Mason, Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro, p. 15, Il Saggiatore, 2016.
(3) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 146, Editori
Riuniti, 1967.
(4) Ibidem, p. 149.
(5) G. Lukács, Rosa Luxemburg come marxista, in Rassegna
comunista, 1921.
(6) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 205.
(7) P. Mason, Postcapitalismo, p. 14.
(8) L. Demichelis, Il nuovo fordismo individualizzato,
Sbilanciamoci, 14 aprile 2016.


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