Non si possono confutare delle condizioni di esistenza, ci si può solo liberare di esseJ. Garnault
1. La menzogna è necessaria
Nietzsche considerava la capacità di sopportare la verità come metro di misura della forza di un individuo (1). Simmetricamente, possiamo considerare il grado di menzogna di cui è permeato il discorso pubblico contemporaneo come un buon indicatore di ciò che non va nelle nostre società. La menzogna in tanto è necessaria in quanto la verità nuoce al mantenimento dell’attuale configurazione della società e dei suoi assetti di potere. Più precisamente, il discorso falso diventa necessario a un duplice riguardo. In primo luogo, in relazione a situazioni razionalmente insostenibili che si vogliono perpetuare.
È quanto accade, ad esempio, quando le strabilianti disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza tra paesi e tra classi sociali vengono attribuite a differenze di merito (di carattere personale, culturale, o addirittura razziale). Allo stesso modo, i disastri ambientali causati dall'indiscriminato sfruttamento capitalistico delle risorse del pianeta sono addebitati a fatalità naturali.
In secondo luogo, il discorso falso sorge di necessità – quasi inconsapevolmente - quando ai problemi del mondo si pretende di dare soluzione tenendo fermo proprio ciò che ne rappresenta la causa principale, ossia l’attuale modo di produzione e i suoi limiti. Limiti che sono intrinseci e ineliminabili, e non - come la corrente pubblicistica apologetica vorrebbe farci credere - contingenti e superabili. In questo senso si può ben dire che la produzione della menzogna si radichi nella menzogna della produzione – ossia nell’insostenibilità dell’attuale modo di produzione.
2. La menzogna è naturale
La menzogna, però, non è soltanto necessaria: è anche ovvia, e naturale. La disponibilità alla menzogna (a credervi e a farsene portavoce) è infatti la logica conseguenza di ben determinati meccanismi sociali, trova la sua radice in condizioni oggettive. Esattamente nello stesso senso Marx precisava, parlando del feticismo della merce, come tale «riduzione a cosa» dei rapporti sociali non fosse un errore della percezione soggettiva, bensì un’illusione (una «parvenza») continuamente posta in essere e riprodotta dalla configurazione dei rapporti sociali stessi (2).
Per questo motivo è sbagliato guardare alla menzogna pensando a un complotto: quasi che si trattasse di una congiura ordita dai media o dai contingenti detentori del potere politico. Questo punto di vista è senz’altro corretto in singoli casi, non è però sostenibile in generale. In questo capitolo si seguiranno quindi le tracce della menzogna necessaria e naturale dei nostri tempi, per capire come e dove nasca. Si proverà, insomma, a entrare in quella vera e propria fabbrica del falso che è la nostra società.
3. Il regno della mediazione
Il nostro presente è il regno della mediazione. A cominciare dai rapporti di lavoro. Lavoro interinale, lavoro pseudoindipendente, stages gratuiti, telelavoro: in tutte queste forme, il rapporto reale è nascosto, mistificato, reso occulto e difficile a decifrarsi. In tutti questi casi, il rapporto tra capitale e lavoro, tra proprietario dei mezzi di produzione e salariato, è reso indiretto. I due poli sono allontanati.
Nel caso del telelavoro la distanza è puramente spaziale, quindi - si direbbe - non molto rilevante: e tuttavia con ciò viene ugualmente mistificata, o resa meno immediatamente comprensibile, la natura sociale dell’attività lavorativa, e d’altra parte viene ostacolata la possibilità di organizzazione collettiva dei lavoratori.
Negli altri casi, la mistificazione è più marcata. Gli stages su un luogo di lavoro sono prestazione lavorativa gratuita mistificata come apprendimento: essi rappresentano in verità una tangente che l’aspirante lavoratore (e già lavoratore in atto, ancorché senza tale qualifica) paga all’impresa per essere assunto, anche soltanto a tempo determinato.
Il lavoro pseudoindipendente è incarnato dai «collaboratori esterni» che svolgono in verità lavoro in tutto e per tutto dipendente, ma sono catalogati e considerati (dalla legge, dalle statistiche e dal fisco, e non di rado anche da se stessi) come lavoratori autonomi (3).
Infine, il lavoro interinale. Qui la mediazione si dispiega in tutta la sua potenza mistificatrice: io dipendo formalmente da un’agenzia che mi affitta (letteralmente) a un’azienda per un determinato periodo di tempo; la mia controparte formale è pertanto l’agenzia di lavoro interinale, mentre il mio rapporto di dipendenza reale ha luogo con l’impresa per cui temporaneamente lavoro. Qui la mediazione, ovvero la moltiplicazione dei passaggi nel rapporto, conduce a un vero e proprio qui prò quo: il padrone per me non è il padrone in sé. La mediazione quindi mistifica e rende opachi - quando non invisibili – i rapporti reali, ponendo perciò in discussione la stessa possibilità del conflitto. Menzogna e ignoranza sono i battistrada dell’impotenza e dell’inazione.
4. Stati di separazione
progressiva
La mediazione connota anche il rapporto tra il lavoro del singolo individuo e il suo prodotto, tra l’attività lavorativa e i suoi effetti. È la stessa divisione del lavoro, e la parcellizzazione sempre più spinta delle attività lavorative, che rende impossibile per il singolo - con l’eccezione forse di poche funzioni di carattere direttivo e manageriale - percepire l’importanza del proprio contributo al prodotto finito e anche solo conoscere il contesto della propria attività. La possibilità di intendere il funzionamento del sistema è sempre più remota. La conoscenza dei meccanismi della produzione è sempre più sapere iniziatico, appannaggio di ristrette cerchie di specialisti, e anch’esso - del resto - sempre più parcellizzato.
Ciò che oggettivamente possiamo considerare come «mediazione», dal punto di vista del soggetto è vissuto come «separazione». «Con la separazione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto» - scrive Debord, rifacendosi al giovane Marx - «si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, come ogni comunicazione personale diretta tra produttori» (4).
Questa separazione ha alla sua origine la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione. È questa la separazione fondamentale. Ma non è l’unica. Pensiamo alla separazione dei consumatori dalle fonti di produzione di ciò che consumano, a cominciare dagli alimenti. Negli Stati Uniti d’America mezzo chilo di cibo viaggia in media per oltre duemila chilometri prima di arrivare sulla tavola di chi lo mangerà (5).
Tale separazione, oltre a essere in molti casi puramente irrazionale (pensiamo alle centinaia di chilometri compiuti dalle acque minerali, e al costo ecologicamente insostenibile del loro trasporto), ha per conseguenza l’ignoranza e l’indifferenza nei confronti delle condizioni di produzione dei cibi stessi. Quante persone in Europa si interrogano sullo sfruttamento, poniamo, dei contadini del Centro America che lavorano nelle piantagioni di banane (6)?
Ma pensiamo anche alla separazione tra azione e suo effetto, ad esempio in campo bellico. In questo caso la separazione è immediatamente astrazione. Più precisamente: cattiva astrazione.
5. La cattiva astrazione
«È ormai un luogo comune massmediale che stia prendendo piede un nuovo tipo di guerra: una guerra ad alta tecnologia, in cui le missioni vengono compiute tramite bombardamenti di precisione... Le antiche concezioni di combattimento corpo a corpo, di coraggio, eccetera, stanno diventando obsolete».
Così osserva Zizek, che prosegue:
«Si dovrebbe notare l’omologia strutturale tra questa nuova guerra a distanza in cui il “soldato” (uno specialista di computer) preme dei bottoni a centinaia di chilometri di distanza dall’obiettivo, e le decisioni dei gruppi dirigenti che influenzano milioni di persone (gli esperti del Fondo monetario, i regolamenti dell’Organizzazione mondiale del commercio, i cartelli delle multinazionali che decidono le necessarie“ristrutturazioni”): in entrambi i casi l’astrazione viene iscritta direttamente nella situazione “reale”. Si prendono decisioni che influenzeranno migliaia di persone, a volte provocando terribile scompiglio e confusione, ma il collegamento tra queste decisioni “strutturali” e la dolorosa realtà di milioni di esseri umani viene rescisso, dato che gli “esperti” sono incapaci di immaginarne le conseguenze, perché misurano gli effetti delle loro decisioni in termini esclusivamente astratti (un paese infatti può essere “finanziariamente sano” anche se milioni di persone vi muoiono di fame)» (7).
In entrambi i casi citati, è precisamente la lontananza della causa dagli effetti che rende possibile l’astrazione. Da questa astrazione conseguono la «naturale» indifferenza nei confronti delle vittime – gli innumerevoli militi e civili ignoti - e in definitiva quell’«uccisione anonima senza pietà» in cui giustamente Zizek ravvisa «il doppio osceno dell’astratto rifiuto umanitario della violenza» di cui la nostra epoca ama ammantarsi (8).
Questo ci aiuta tra l’altro a capire come la retorica, oggi assai in voga, contro il «fanatico odio assassino» dei «terroristi» («islamici» o di altro tipo) sia due volte menzognera. Una prima volta in quanto, riducendo il nemico a bestia irrazionale (secondo uno dei più ricorrenti cliché della propaganda bellica di tutti i tempi), ci impedisce di scorgere le motivazioni razionali del suo agire; restano esemplari, a tale riguardo, i tentativi del governo di Blair di sottacere le motivazioni dell’attentato alla metropolitana di Londra del luglio 2005, riconducendolo a semplice «odio fanatico» - tentativi poi clamorosamente sconfessati dal contenuto dei nastri lasciati dai terroristi, in cui era espresso a chiare lettere il motivo del loro gesto: la partecipazione inglese alla guerra irachena. Una seconda volta in quanto tale retorica tende a porre in cima alla ideale hit parade delle azioni esecrande quelle compiute in preda all’odio. Laddove il discorso, probabilmente, andrebbe addirittura rovesciato: non soltanto è incommensurabilmente maggiore il numero di morti causati da assassinii a sangue freddo, da operazioni militari «di routine»; ma questi assassinii andrebbero valutati più severamente proprio in quanto nella loro motivazione non si trovano forti passioni e neppure saldi convincimenti, ma piccoli interessi personali o anche soltanto l’obbediente adempimento degli ordini assegnati.
Da questo punto di vista, i «commoventi» resoconti sul marine morto a Baghdad che si era arruolato per poter pagare il mutuo della casa sono in verità – per chi li sappia leggere - una denuncia efficace della barbarie contemporanea; al pari del più anonimo (e giornalisticamente meno attraente) pilota di F16 che sgancia la sua bomba su un centro abitato o dell’ingegnere che comanda a distanza un drone che incenerisce un villaggio – semplicemente perché è stato ordinato loro di fare così.
Zelo, disciplina, organizzazione scientifica del lavoro. È proprio la migliore letteratura sulla tragedia nazista ad averci insegnato il ruolo centrale svolto dall’obbedienza burocratica nella macchina dello sterminio. Per Adorno la vera e terribile novità rappresentata dai campi di sterminio consiste per l’appunto nell’«assassinio burocratico di milioni di persone». La stessa Arendt, che ne Le origini del totalitarismo aveva attribuito la massima importanza alle «masse fanatizzate», di fronte a uno dei principali responsabili dello sterminio degli Ebrei, Adolf Eichmann, dovette ricredersi e correggere il tiro: ponendo al centro della propria attenzione non più il fanatismo, bensì la mentalità gregaria, l’ottusità, la mancanza di idee e la «mancanza di immaginazione» dell’assassino che le stava di fronte (9). Ossia, appunto, la sua capacità di astrazione e la sua concreta disponibilità ad astrarre dalle conseguenze delle proprie azioni.
È importante notare che in questo caso la capacità di astrazione coincide con l'incapacità di comprendere: in questo senso è corretto affermare, con la Arendt, che Eichmann «non capì mai cosa stava facendo». Ma
«il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica... che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male» (10).
Ovviamente, quanto sopra non impedì al tribunale di Gerusalemme di condannare Eichmann:
«nella sentenza la Corte riconobbe naturalmente che certi crimini possono essere commessi solo da una burocrazia gigantesca che gode il pieno appoggio del governo. Ma nella misura in cui si tratta di crimini... tutte le rotelle del macchinario, anche le più insignificanti, automaticamente in tribunale si ritrasformano in esecutori, cioè in esseri umani». Resta il fatto che «per sua natura ogni regime totalitario e forse ogni burocrazia tende a trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell’apparato amministrativo» (11).
A quasi mezzo secolo da quando
furono scritte, queste parole non hanno perso nulla del loro
inquietante valore di verità: la cattiva astrazione continua
infatti, giorno dopo giorno, a mietere le sue vittime.
Note
1). F. Nietzsche, Frammenti
postumi 1884-1885, tr. it. Adelphi, Milano 1975, p. 216; Frammenti
postumi 1887- 1888, tr. it. Adelphi, Milano 1979 2, p. 106.
2). K. Marx, Il Capitale,
libro primo, 1867, sez. I.cap. 1, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1968,
1980 5, p. 106.
3). Si veda in proposito M.
Prospero, Il corpo che lavora, «il manifesto», 26 maggio 2005.
4). G. Debord, La società
dello spettacolo, cit., § 26, p. 61.
5). K. Lasn, Culture Jam,
cit., p. 251.
6). Le condizioni di lavoro
presso la multinazionale Usa Dole, ad esempio, sono tali da aver
suscitato l’atto di accusa di qualcosa come 76 organizzazioni non
governative: vedi Ein Fruchtkonzemgerät unter Druck, «Frankfurter
Allgemeine Zeitung», 2 gennaio 2007.
7). S. Zizek, Benvenuti nel
deserto del reale, cit., p. 41-2. M. Dinucci, Uccidere col joystick
manovrato a 12 mila chilometri dal bersaglio, «il manifesto», 13
luglio 2008.
8). S. Zizek, Iraq, cit., p.
129.
9). Th. Adorno, Dialettica
negativa, 1966, tr. it. Einaudi, Torino 1970, pp. 326-7. H. Arendt,
La banalità del male, cit., pp. 282,40,290.
10). H. Arendt, ivi, pp. 290 e
282. Vedi anche S. Zizek, Credere, 2001; tr. it., Meltemi, Roma 2005,
p. 96. Sulla «normalità» dei nazisti esiste ormai una folta
letteratura: si vedano tra gli altri W. Sheridan Allen, Come si
diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Einaudi,
Torino 1968, e C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e
soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino 1995.
11. H. Arendt, La banalità
del male, cit., pp. 291-2, corsivi miei.
*Tratto da "La fabbrica del falso - Strategie della menzogna nella politica contemporanea"
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