Da
1. Sovrappiù e domanda aggregata
Per comprendere il brutto
pasticcio in cui il nostro paese si è cacciato può essere utile ripercorrere le
origini e natura della crisi dell’unione monetaria europea (UME). Nel
sviluppare il nostro ragionamento faremo alcuni riferimenti alla seconda
edizione del volume di Yanis Varoufakis
(2013), economista legato a Syriza,
Il minotauro globale. La prospettiva dell’economista greco è quella delle
teorie del sovrappiù propria degli economisti classici e di Marx), che noi
articoliamo così. Il sovrappiù è ciò che rimane alle classi dominanti del
prodotto sociale dopo che ne hanno destinato una parte alle sussistenze dei
lavoratori e delle loro famiglie. Le merci che costituiscono il sovrappiù
devono tuttavia essere vendute. Parte di esse sono acquistate dai capitalisti
medesimi (che se le scambiano fra loro) sotto forma di consumi di lusso (yacht,
ville ecc.) o di beni di investimento (nuovi macchinari ecc). La spesa dei
capitalisti può tuttavia essere insufficiente ad assorbire tutto il sovrappiù. Michal Kalecki - il “Keynes marxista” -
riprese e rese coerente l’idea di Rosa Luxemburg che il capitalismo ha bisogno di “mercati esterni” per smaltire
la parte del sovrappiù non assorbita dai capitalisti medesimi. La spesa
pubblica è un esempio di mercato esterno: un’adeguata spesa pubblica consente
elevati livelli di produzione in quanto ne assorbe una parte come acquisti
della pubblica amministrazione (per esempio sotto forma di armamenti).
Concentrandoci sulla parte della spesa in disavanzo, sono i capitalisti medesimi a finanziarla acquistando titoli del debito pubblico – sicché essi con una mano vendono le merci al settore pubblico mentre con l’altra gli prestano i ricavi ottenuti. Un altro mercato esterno sono i “consumi autonomi”, ovvero i consumi dei lavoratori finanziati dal credito al consumo. Il ruolo trainante di tale componente della domanda aggregata lo si può apprezzare pensando al boom edilizio pre-crisi negli Stati Uniti e in Spagna. Anche in questo caso i capitalisti con una mano vendono e con l’altra prestano alle famiglie. Si osservi come l’assorbimento del sovrappiù da parte di Stato e famiglie implichi l’indebitamento di questi settori. Il debito delle famiglie è quello più fragile, potendo lo Stato sempre ricorrere all’aumento delle imposte e al finanziamento della banca centrale. Quella parte del sovrappiù che non è consumata all’interno di un paese né dai suoi capitalisti, né dallo Stato e neanche dalle famiglie (indebitate), può trovare sbocco all’esterno e va così a rappresentare il surplus commerciale con l’estero. Sono in genere i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e/o quelli mercantilisti, come il Giappone o la Germania, a trovarsi nella condizione di paesi esportatori netti (cioè che tendono a esportare più di quanto importino). I paesi mercantilisti accentuano questa tendenza attraverso la compressione dei consumi interni, pubblici e privati. Questo accade, per esempio, attraverso aumenti dei salari reali in misura inferiore alla crescita della produttività del lavoro. Essendo paesi come Giappone e Germania economie ad elevata produttività, i salari reali sono comunque alti, per cui i sindacati possono facilmente diventare conniventi a tale modello . Anche in questo caso i capitalisti (dei paesi in surplus commerciale) con una mano vendono le proprie merci ai paesi (definiamoli) periferici, mentre con l’altra prestano a tali paesi i capitali necessari per finanziare i propri deficit di bilancia dei pagamenti.
Concentrandoci sulla parte della spesa in disavanzo, sono i capitalisti medesimi a finanziarla acquistando titoli del debito pubblico – sicché essi con una mano vendono le merci al settore pubblico mentre con l’altra gli prestano i ricavi ottenuti. Un altro mercato esterno sono i “consumi autonomi”, ovvero i consumi dei lavoratori finanziati dal credito al consumo. Il ruolo trainante di tale componente della domanda aggregata lo si può apprezzare pensando al boom edilizio pre-crisi negli Stati Uniti e in Spagna. Anche in questo caso i capitalisti con una mano vendono e con l’altra prestano alle famiglie. Si osservi come l’assorbimento del sovrappiù da parte di Stato e famiglie implichi l’indebitamento di questi settori. Il debito delle famiglie è quello più fragile, potendo lo Stato sempre ricorrere all’aumento delle imposte e al finanziamento della banca centrale. Quella parte del sovrappiù che non è consumata all’interno di un paese né dai suoi capitalisti, né dallo Stato e neanche dalle famiglie (indebitate), può trovare sbocco all’esterno e va così a rappresentare il surplus commerciale con l’estero. Sono in genere i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e/o quelli mercantilisti, come il Giappone o la Germania, a trovarsi nella condizione di paesi esportatori netti (cioè che tendono a esportare più di quanto importino). I paesi mercantilisti accentuano questa tendenza attraverso la compressione dei consumi interni, pubblici e privati. Questo accade, per esempio, attraverso aumenti dei salari reali in misura inferiore alla crescita della produttività del lavoro. Essendo paesi come Giappone e Germania economie ad elevata produttività, i salari reali sono comunque alti, per cui i sindacati possono facilmente diventare conniventi a tale modello . Anche in questo caso i capitalisti (dei paesi in surplus commerciale) con una mano vendono le proprie merci ai paesi (definiamoli) periferici, mentre con l’altra prestano a tali paesi i capitali necessari per finanziare i propri deficit di bilancia dei pagamenti.
Come si vede da questo résumé, il
modello Classico-Kaleckiano contiene elementi keynesiani (il ruolo della
domanda aggregata) e classico-marxisti (il concetto di sovrappiù)). Esso spiega
i periodi di crescita come guidata dai “mercati esterni”, ma anche la crisi
quando in questi ultimi si verifica l'incapacità, in particolare da parte di
famiglie o paesi periferici, di redimere il debito (sicché i prestiti si
bloccano e con essi tutto il meccanismo).
2. Il riciclaggio del surplus
2. Il riciclaggio del surplus
Con riferimento a uno schema
analitico simile a quello ora illustrato, la tesi di Varoufakis è che un
sistema economico e monetario internazionale abbia bisogno di un “meccanismo di
riciclaggio” dei surplus commerciali per poter funzionare, vale a dire di un
meccanismo per cui i proventi dei paesi in surplus vengono sistematicamente
riprestati ai paesi deficitari sì da sostenerne i disavanzi. Nel ridisegnare
l’economia globale del dopoguerra, la famosa proposta di Maynard Keynes di una
“International Clearing Union” (ICU) andava precisamente in questa direzione.
La ICU avrebbe sostenuto le bilance dei pagamenti dei paesi deficitari
riciclando i surplus dei paesi in avanzo depositati presso di essa, mentre
squilibri persistenti sarebbero stati sanati sia con aggiustamenti dei cambi
che con politiche macro, deflative nei paesi in disavanzo, ma col contributo di
politiche espansive nei paesi in avanzo. Nonostante il rifiuto di questa
proposta da parte degli Stati Uniti, il paese allora in surplus, questi si
assunsero il ruolo di sostenitori della domanda globale riciclando i propri
surplus commerciali attraverso vistose spese politico-militari presso i paesi
alleati e cospicui investimenti esteri. Questo modello funzionò sino a quando,
durante gli anni 1960 i ruoli fra centro e periferia non si invertirono e gli
Stati Uniti maturarono un disavanzo strutturale della bilancia commerciale. Non
più sostenuto dalla convertibilità con l’oro, dal 1971 il dollaro continuò a
costituire l’architrave del sistema monetario internazionale fondato su un
nuovo modello che Varoufakis definisce Il
Minotauro globale, in cui la potenza imperiale genera attraverso il proprio
mercato interno la domanda globale di ultima istanza assorbendo i surplus
commerciali delle nuove potenze sub-imperiali Giappone e Germania (ma anche
Corea del Sud, Taiwan ecc.). La metafora dei sacrifici per soddisfare il vorace
Minotauro è proprio nel tributo che il resto del mondo paga al vorace
consumatore in cambio della Pax Americana, dell’ordine politico-monetario
assicurato dalla potenza egemone e consumatore di ultima istanza.
I paesi in avanzo, a loro volta,
acconsentono a riciclare i proventi netti investendoli in titoli pubblici e
privati americani. In tal modo la stabilità del dollaro viene assicurata non
avendo alcuno la convenienza a vederne scemare il valore (“the dollar is our
currency, but your problem” come ebbe a dire il segretario al Tesoro di Nixon).
Come elemento di indebolimento del fronte comunista internazionale e di
espansione del mercato capitalistico, anche la Cina viene invitata dagli anni ‘80
a partecipare al grande tavolo globale. Con la grande crisi del 2007-8 tale
modello entra, secondo Varoufakis, in una crisi esiziale. Di questo non siamo
certi. Quelli che sono entrati in crisi sono i meccanismi finanziari con cui
gli Stati Uniti hanno assicurato l’espansione della loro domanda,
principalmente col credito al consumo (inclusi i mutui immobiliari). Si tratta
di vedere se tale modello potrà ripristinarsi una volta sanati gli eccessi più
evidenti (che magari verranno col tempo rimpiazzati da altri peggiori). Ma è
ora di guardare all’Europa.
3. L’Europa squilibrata
L’Europa della moneta unica nasce
senza un meccanismo interno di riciclaggio dei surplus commerciali fra i membri
in surplus (la cosiddetta “core-Europe”) e quelli in disavanzo (la periferia).
Unioni monetarie sostenibili posseggono meccanismi interni redistributivi di
reddito fra regioni diversamente avvantaggiate, come quelli che in Italia
esistono fra Lombardia e Calabria. Solo questa decisione politica può rendere
sostenibile una scelta tanto gravida di conseguenze quanto quella di rinunciare
alla propria valuta, dunque alla possibilità di correggere la propria
competitività attraverso aggiustamenti del cambio. Per questo mai unioni
monetarie hanno preceduto quelle politiche, bensì viceversa (1)
Inaspettatamente, un meccanismo
di riciclaggio si è stabilito, sin ch’è durato, in forza del mercato attraverso
il riciclaggio da parte delle banche del “core-Europe” dei surplus commerciali
di quest’area a favore della periferia (2). In verità uno degli scopi con cui,
dai tempi del gold standard, i paesi
periferici hanno aderito ad accordi di cambio fisso è la possibilità di
finanziare la propria crescita attraverso l’importazione di capitali dai paesi
centrali. Questi, d’altra parte, si sarebbero resi disponibili in quanto rassicurati
dalla stabilità del cambio e dall’impegno alla disciplina di bilancio che
l’impegno ai tassi fissi impone. Fra le decine di casi in cui le cose sono
andate a finire male basti citare il ben noto caso dell’Argentina. Eppure così
poco la storia insegna all’umanità che la crisi debitoria si è puntualmente verificata
nel caso dell’UME. Ciò non di meno un meccanismo di riciclaggio dei surplus dei
paesi centrali a favore della periferia ha funzionato sino al 2008. Certamente
nulla ora è in vista che lo sostituisca e l’aggiustamento è tutto sulle spalle
dei paesi indebitati, con dubbie possibilità di successo, peraltro.
Ma quali le ragioni che hanno
spinto i paesi europei a un’avventura tanto folle? Una è stata appena
menzionata, quella di favorire l’afflusso di capitali. La giustificazione di fondo è però quella dell’importazione della
disciplina dei più forti da parte dei paesi più deboli. Questo tentativo
era già stato condotto col sistema monetario europeo. Lì però i prezzi erano
apparsi esorbitanti, dato che la politica monetaria – ovvero la fissazione del
tasso dell’interesse, una variabile fondamentale per l’economia - era
sostanzialmente condotta dalla Bundesbank guardando alle esigenze tedesche e
non dell’insieme dei paesi membri.
4. Un’agenda nascosta?
L’accesso ai mercati
internazionali dei crediti a tassi di interesse più favorevoli può dunque
essere stato un motivo di adozione del gold standard o di sistemi di cambi
fissi, e da ultimo di un’unione monetaria. Gli anni del gold standard (1880-1914
circa) videro una convergenza dei tassi di interesse calcolati come spread
rispetto ai titoli britannici simile a quella che si è avuta nell’UME (su cui
torneremo). L’adesione al gold standard, come quella all’UME attraverso il Trattato di Maastricht, implicava
l’adozione di disciplina fiscale sia per evitare la tentazione di un
indebitamento insostenibile del settore pubblico tentato da tassi più
accessibili (moral hazard), sia
perché il soccorso del settore pubblico sarebbe stato necessario in caso di difficoltà
del settore privato (al cui indebitamento si guardava invece più
favorevolmente), soccorso impossibile se il settore pubblico si fosse trovato
nelle medesime difficoltà. Ci si può domandare se in determinate occasioni la
disciplina fiscale e più in generale di prezzi e salari implicata dall’adozione
dei sistemi di cambio fissi non sia sta un fine a sé stante. Sulla scorta di un
articolo pubblicato da The Guardian giugno 2012, Robert Mundell –
l’economista conservatore canadese padre della teoria delle aree valutarie
ottimali spesso usata criticamente verso l’euro - pare ora ritenere che la morsa dell’austerità a cui
finalmente l’UME ha condotto realizzi lo scopo disciplinante originario
dell’unione valutaria. In effetti quello che nelle esperienze dei cambi
fissi è tipicamente accaduto (e che meglio svilupperemo in seguito) è che
all’inizio l’accesso al credito internazionale conduce a periodi di crescita
delle economie periferiche – dunque a tutt’altro che disciplina. E’ solo con la crisi che si afferma il
redde rationem della disciplina. Un articolo di un economista della scuola Hayekiana (o “austriaca”) (3), Jesus Huerta de Soto, per quanto
farneticante, sostiene però apertamente il ruolo disciplinante che l’UME sta
ora svolgendo sotto la sferza della crisi.
Huerta de Soto cita la difesa che
l’economista austriaco Ludwig Von Mises
(1881-1973) fece del gold standard come strumento disciplinante:
Il gold standard pose un limite ai disegni governativi di moneta
facile. Era impossibile indulgere in un’espansione del credito e tuttavia
rimanere ancorati alla parità con l’oro fissata per legge. I governi dovevano
scegliere fra il gold standard e la loro politica – disastrosa nel lungo
periodo – di espansione creditizia. Il gold standard non crollò. I governi lo
distrussero. Era incompatibile con lo statalismo (etatism) come lo era il
libero scambio. I vari governi abbandonarono la parità aurea perché erano
ansiosi di far salire prezzi e salari sopra ai livelli di mercato, e perché
volevano stimolare le esportazioni e ostacolare le importazioni. La stabilità
dei tassi di cambio era ai loro occhi un danno, non una benedizione. Tale è
l’essenza dell’insegnamento monetario di Lord Keynes. La scuola Keynesiana
sostiene appassionatamente l’instabilità dei tassi di cambio.
Questa posizione sarebbe
condivisa dagli economisti austriaci:
Gli economisti austriaci difendono il gold standard in quanto esso
taglia e limita le decisioni arbitrarie di politici e autorità. Esso disciplina il comportamento di tutti
gli agenti che partecipano al processo democratico. Esso promuove abitudini
morali nel comportamento umano. In breve, esso stronca bugie e demagogia;
facilita e diffonde la trasparenza e la verità nelle relazioni sociali. Né più
né meno (4).
Huerta de Soto sottolinea come
l’UME abbia per la prima volta esposto
dei paesi sovrani a una crisi finanziaria e di bilancia dei pagamenti avendo al
contempo rinunciato allo strumento di una politica monetaria autonoma (il che
significa l’impossibilità di sostenere bilancio pubblico e banche emettendo
moneta e di svalutare la propria moneta), tutti strumenti utilizzati nelle
tradizionali crisi di bilancia dei pagamenti in regimi di cambi fissi e di gold
standard:
l’arrivo della grande recessione
del 2008 ha persino ulteriormente rivelato a ciascuno la natura disciplinante
dell’euro: per la
prima volta, i paesi dell’unione monetaria hanno dovuto fronteggiare una
profonda recessione economica senza l’autonomia della politica monetaria. Sino
all’avvento dell’euro, quando una crisi colpiva, governi e banche centrali
agivano invariabilmente nella stessa maniera: esse iniettavano la liquidità
necessaria, consentivano alle monete locali di fluttuare verso il basso e di
deprezzarsi, e rimandavano indefinitamente le
dolorose riforme strutturali che erano necessarie e che riguardavano
liberalizzazioni economiche, deregolamentazione, maggiore flessibilità dei
prezzi e dei mercati (specialmente del mercato del lavoro), una riduzione della
spesa pubblica, e il ritiro e smantellamento del potere sindacale e dello stato sociale. Con l’euro, nonostante tutti gli errori,
debolezze, e concessioni … questo tipo di comportamento irresponsabile e di
fughe in avanti non è più a lungo possibile.
E infatti l’UME sarebbe addirittura
superiore al gold standard in quanto i Paesi non possono (facilmente) sfuggirvi.
De Soto si fa così beffe dei sogni europeisti dei Jacques Delors – ancor oggi un mito della sinistra europeista più
impenitente - che hanno visto nella moneta unica la premessa dell’Europa politica,
mentre ora essa sta mettendo in crisi l’Europa sociale - con gioia dell’Opus Dei di cui de Soto è membro, viene
da pensare:
è divertente (e anche patetico) notare che la legione di ingegneri
sociali e di politicLa prima decisione che il governo dovrebbe prendere riguarda la fissazione del nuovo tasso di cambio. i interventisti che, guidati allora da Jacques Delors,
disegnarono la moneta unica come uno strumento aggiuntivo per il loro grandioso
progetto di realizzare l’unione politica europea, ora guardino con disperazione a qualcosa che loro non
sembrano mai essere stati in grado di predire: che l’euro ha finito per
funzionare di fatto come il gold standard, disciplinando i cittadini, i
politici e le autorità, legando le mani
dei demagoghi ed esponendo i gruppi di pressione (capeggiati dagli
indefettibilmente privilegiati sindacati), e persino mettendo in dubbio la
sostenibilità e i veri e propri fondamenti dello stato sociale.
Se Huerta de Soto è chiaramente un
fanatico, tale non appare uno dei padri dell’UME e ministro del Tesoro
dell’ultimo governo di centro-sinistra,
il quale una decina d’anni fa additava l’esempio di Francia e Germania
descrivendo quali comportamenti implicava la nuova Europa. Scriveva Tommaso Padoa-Schioppa (Corriere della Sera,26 agosto 2003) richiamandosi alle prediche inutili di Luigi Einaudi che quei paesi da tempo hanno scelto la strada del “lasciar funzionare le leggi del mercato,
limitando l'intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro
funzionamento e dalla pubblica compassione”. E così prosegue:
Nell'Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato
del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma deve essere guidato da un
unico principio: attenuare quel
diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno
progressivamente allontanato l'individuo dal contatto diretto con la durezza
del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai
suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta
anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura
del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento
di un merito; il titolo di studio o l'apprendistato di mestiere, costoso
investimento. Il confronto dell'uomo con le difficoltà della vita era sentito,
come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e di fortuna. È sempre più
divenuto il campo della solidarietà dei concittadini verso l'individuo
bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenerato a campo dei diritti che un
accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato.
La dice lunga che chi scrive abbia
udito persona organica alla sinistra radicale, e membro della già citata
compagine governativa, definire Padoa
Schioppa un “sant’uomo”. L’euro è dunque fallito? No, è proprio ora che
esso, come si trovò a dichiarare Mundell,
sta dispiegando tutta la forza devastatrice osannata dal “sant’uomo”.
5. Esistono vie d’uscita?
Dando per scontato il fallimento
delle politiche dell’austerità espansiva, le ipotesi alternative di uscita
dalla crisi sono riconducibili a due. Una via keynesiana che potrebbe evolvere
nel tempo verso forme di federalismo; la rottura dell’UME. Nel mezzo della
discussione di queste soluzioni esamineremo criticamente il piano di
investimenti presentato dai sindacati tedeschi (DGB 2012).
5.1. La via Keynesiana
La prima strada è quella
tradizionalmente Keynesiana che propugna un nuovo assetto delle politiche macroeconomiche
europee con il coordinamento delle politiche fiscali e monetarie in senso
espansivo. Si tratta dunque di: (i) riformare le istituzioni europee creando
una autorità che coordini la politica fiscale – un Eurogruppo rafforzato; (ii)
assegnare alla BCE l’obiettivo della piena occupazione
accanto a quello della stabilità dei prezzi. Una seria unione bancaria, che
preveda meccanismi di prevenzione e di risoluzione delle crisi finanziarie a
livello europeo va a completare tale quadro. La garanzia della BCE sui debiti
sovrani potrebbe comportare una significativa riduzione della spesa per
interessi per i paesi periferici consentendo loro di stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil (senza assurde
riduzioni in maniera compatibile con politiche moderatamente espansive;
Germania e gli altri paesi centrali dovrebbero adottare invece politiche di
bilancio più marcatamente espansive volte ad assorbire col rilancio della
domanda interna i surplus commerciali (lasciando anche un po’ correre
l’inflazione interna). Proposte come l’europeizzazione di parte dei debiti
pubblici (i famosi eurobond) possono ben far parte di questo pacchetto. La
questione è che la
Germania non
è assolutamente interessata a fare da traino al resto dell’Europa abbandonando
i presupposti del proprio modello mercantilista – contrazione della domanda
interna e stabilità di prezzi. Non solo i tedeschi si chiedono, inoltre, quanto
politiche espansive centrate sulla Germania non vadano a beneficio di paesi
extra-Europei invece che della periferia dell’UME. L’Italia potrebbe
avvantaggiarsi di tale pacchetto più che il resto della periferia, ma deve
essere chiaro alla sinistra nostrale che la
ripresa dei consumi dei lavoratori va affidata alla ripresa dell’occupazione
piuttosto che ad aumenti dei salari nominali e reali, almeno sino a che la
produttività non riprenda a crescere in maniera sostenuta. Che poi parte
dell’espansione germano-centrica vada a beneficio dell’economia globale non
sarebbe un gran danno. Sarebbe, anzi, un contributo a un rilancio coordinato
della domanda globale, con la rinuncia europea al mercantilismo, sì da sollevare gli Stati Uniti dal ruolo di
mercato di ultima istanza, ruolo che essi ricoprono con sempre più fatica –
come evidenzia Varoufakis nel suo volume.
Un progresso nella direzione del
pacchetto keynesiano sarebbe un buon segnale verso una evoluzione federale
dell’Europa in cui venisse costituito un bilancio pubblico comune, dell’ordine
del 5%, con finalità redistributive fra i paesi membri e di stabilizzazione del
ciclo, come previsto dal piano MacDougall del 1977. Perché ciò accada, sarebbe ancor più necessario che
l’Italia si ricollocasse su un sentiero di crescita sì da permanere –
nonostante il perenne giogo del suo mezzogiorno – fra i paesi contributori netti.
E’ in quest’ambito che vanno collocate le proposte di piani d’investimenti
europei in nuove tecnologie, infrastrutture, ambiente, di cui ci andiamo ora ad
occupare.
5.2. I piani di investimento
Il mio giudizio sulle proposte
della DGB (2012) non è propriamente entusiasta. Il pericolo politico che vedo è
che ci si rifugi in immaginifici piani Marshall di investimento tralasciando il fatto che l’Eurozona avrebbe
necessità di misure macroeconomiche di più rapido impatto, inclusa una seria
unione bancaria, e nel lungo periodo di una revisione dei trattati, sebbene le
condizioni politiche per questo non vi siano, come diremo più avanti (5).
Alcune critiche pertinenti al Piano
DGB sono state avanzate dal Keynes blog
(24/6/2013). Il Piano sceglierebbe “di confermare l’assenza delle leve fiscali
e monetarie che caratterizzano la fragile impalcatura dell’euro” proponendo la
via “seducente” di un “Piano Marshall per l’Europa”. Cosa ci può essere di più
condivisibile – si domandano gli estensori – “di una azione orientata a
stimolare gli investimenti nella produzione di energia sostenibile, nella
riduzione dei consumi energetici, in settori industriali e servizi sostenibili,
in istruzione e formazione, in ricerca e sviluppo, in infrastrutture di
trasporto moderne, in città e comuni a basse emissioni e nell’efficienza delle
pubbliche amministrazioni.”? Molta della domanda generata andrebbe tuttavia a
favore delle imprese tedesche, mentre la Tobin
tax – che gli estensori vedono come fonte primaria di finanziamento del
piano - fu pensata dal suo proponente come un “granello di sabbia” nei meccanismi della speculazione piuttosto
che come fonte di risorse per il settore pubblico. Essi denunciano, infine,
come il piano destini “un’inezia” a interventi di “stabilizzazione della
congiuntura”. Chiosando queste critiche, il Piano può risultare di difficile
gestione, vale a dire appare complicato pensare la costituzione di un’autorità
europea in grado di gestire una mole così grande di progetti in campi così
disparati e in tempo utile per intervenire sulla crisi. Allo stadio sembra
assente uno studio input-output degli effetti della spesa sui diversi sistemi
produttivi nazionali, avvalorando il
sospetto che i vantaggi possano confluire fondamentalmente sull’industria
tedesca (si dovrebbero, per esempio, includere clausole che obblighino
investimenti industriali nella periferia per chi riceve finanziamenti). Siamo
inoltre sicuri che il settore privato, che il piano coinvolge, sia sensibile al
sostegno di investimenti finalizzati a tanti nobili obiettivi (riconversione
ecologica ecc.) in una situazione in cui le aspettative deprimono gli
investimenti, specialmente nella periferia?
Infine, circa le cause della crisi,
il documento si limita a sottolineare le responsabilità degli “operatori finanziari”. E’ questa una
spiegazione di comodo della crisi che
evita di additarne le cause di fondo nel peggioramento della distribuzione del
reddito a sfavore dei lavoratori, per cui lo sviluppo del credito al consumo è stato funzionale a sostenere la
domanda aggregata, e per ciò che riguarda l’Europa, nella creazione stessa dell’Euro. Certo, un altro Euro sarebbe possibile, ma ciò sembra incompatibile con le
caratteristiche di fondo del modello tedesco, e i sindacati tedeschi sono parte
di quel modello. Naturalmente non si tratta di dubitare della buona fede e
della solidarietà sincera dei sindacati tedeschi. Si deve, tuttavia, riflettere
sui fatti. Ad essere generosi si può ipotizzare che il sindacato tedesco sia
combattuto fra la Scilla di un rilancio della domanda interna tedesca
attraverso il sostegno dei salari minimi nei settori penalizzati e con una
politica fiscale espansiva, e la Cariddi di mettere in difficoltà la macchina
esportatrice, non da oggi la vacca sacra della politica tedesca . La Germania nel suo insieme non è
interessata ad assumere la leadership politica ed economica dell’Europa, il suo
è un “mercantilismo provinciale”, come lo definisce Varoufakis , e in
provincia spesso si vive bene. Questo è un fatto, ed è anche la tragedia
europea.
5.3. La rottura dell’euro
Por termine al folle esperimento
implica passaggi assai complessi. La premessa è che l’Unione Europea va salvaguardata e che, dunque, la rottura
dovrebbe essere negoziata e pacifica. Questo complica quello che è, forse, il
problema più complesso da risolvere. Scelte democraticamente prese e
negoziazioni internazionali implicano processi politici assai lunghi e pubblici
i quali, tuttavia, sono incompatibili con la stabilità finanziaria. Al primo
vago accenno che forme di rottura dell’UME sono all’ordine del giorno politico
si scatenerebbe infatti una enorme speculazione volta a spostare i capitali finanziari dai paesi con (futura) moneta debole
verso quelli con (futura) moneta forte. Il che vorrebbe dire la fine
immediata della moneta unica nel peggiore dei modi possibili. L’unica strada
percorribile sarebbe di accordi presi un venerdì sera almeno da un consesso di
paesi che contano, da ratificarsi nel week end nei parlamenti nazionali. Banche
e mercati sarebbero destinati a rimanere chiusi, tuttavia, anche per alcuni
giorni successivi durante i quali verrebbero adottate misure volte ad
assicurare una transizione dolce verso le monete nazionali. Gli accordi
dovrebbero definire un quadro di risoluzione per i rapporti di debito-credito,
ora denominati in euro, una volta effettuato il passaggio a monete nazionali.
Ma come si fa ad assicurare la segretezza prima del citato vertice? Dato che
questo è impossibile, è più realistico ritenere che a tale vertice si arrivi in
seguito a un grave evento scatenante, come una crisi politico-finanziaria di
prima grandezza in Italia o Spagna, tale da indurre alla chiusura dei mercati
prima del vertice. Una volta sancita la rottura – che potrebbe sostanziarsi in
un ritorno generalizzato alle monete nazionali, in un’uscita della Germania e dei suoi satelliti, o in una uscita di
uno o più paesi periferici – i paesi che adottano una nuova moneta avrebbero il
diritto (lex monetae) di rinominare tutti i titoli del debito pubblico e
privato nella nuova moneta – a meno che il contratto sottostante non specifichi
la rinuncia a tale prerogativa. Alcune forme di debito con l’estero, come
quelle intrattenute attraverso la BCE con le altre banche centrali andrebbero
rinegoziati. Tutti i pagamenti interni per via elettronica (che includono le
carte di credito) – i soli possibili per alcuni giorni – verrebbero
automaticamente rinominati nella nuova moneta, mentre in attesa della stampa
delle nuove banconote, le banche rilascerebbero banconote in euro ma con una
stampigliatura con scritto, ad esempio 10€
= 10 nuova-lira.
La prima decisione che il governo dovrebbe prendere riguarda la
fissazione del nuovo tasso di cambio. Per l’Italia verrebbe da
suggerire l’antica politica della stabilità del cambio verso il dollaro (in cui
è quotato il petrolio) e di una flessibilità controllata verso il marco tedesco. Naturalmente una svalutazione dell’ordine
del 20/30% verso il marco sarebbe fisiologica, ma rigidi controlli sui
movimenti dei capitali dovrebbero contribuire a una successiva stabilizzazione
del cambio. Il secondo indirizzo che il governo dovrebbe prendere riguarda la stabilizzazione dell’inflazione a livelli
moderati lasciando sopratutto alla ripresa dell’occupazione il sostegno dei
consumi. Tassi di interesse sufficientemente bassi e la ripresa della
crescita dovrebbero consentire la stabilizzazione del rapporto debito
pubblico/Pil e al contempo una moderata espansione fiscale. Non si passerebbe
dunque al regno del bengodi, e il paese
si ritroverebbe coi problemi di sempre, ma almeno non alla mercé di altri e con
qualche speranza, se decide di coltivarsela.
6. Conclusioni
Scettici ci sentiamo dunque nei
confronti di piani di investimento europei, quali quelli evocati dal piano
della DGB, che si rivelano fragili sia dal punto di vista del finanziamento che
degli obiettivi. Quando nei riguardi dei primi sentiamo invocare la “Tobin tax”
(e in qualche misura anche la patrimoniale) ci viene in mente il classico coniglio nel cappello. Circa i
secondi, il Piano Marshall americano si riprometteva di rimettere in marcia
apparati industriali in buon parte pre-esistenti, mentre obiettivi come la
riconversione ecologica appaiono begli ideali piuttosto che obiettivi fattivamente
perseguibili in pochi mesi ripagandosi, per giunta, in pochi anni. Non è chiaro
poi, nel disegno della DGB in che senso il suo piano condurrebbe
all’attenuazione degli squilibri
commerciali infra-europei. A meno che la DGB pensi – ma c’è da dubitarne –a
un perenne sostegno da parte dei paesi centrali di forme di lavori pubblici nei
paesi periferici (una classica forma di riciclaggio dei loro surplus
commerciali a favore, da ultimo, delle loro esportazioni) o a vincoli di
investimenti estero in loco per le imprese tedesche. Affidare la ricomposizione
delle contraddizioni di quest’Europa a un mero piano Marshall ci appare dunque
assai riduttivo. Il Piano Marshall, quello vero, fu infatti parte di quel
meccanismo guidato dagli Stati Uniti di riciclaggio dei propri surplus globali
illustrato da Varoufakis. Non sembra che i pur volenterosi sindacati tedeschi
si pongano in tale prospettiva, né in quella di una riforma profonda della
costituzione economica europea e di quella tedesca di cui sono parte organica.
Circa le altre due, la via Keynesiana è certamente
desiderabile, mentre la rottura dell’euro – di per sé ancor più desiderabile -
è quella più densa di incognite. Tuttavia, ambedue ci appaiono per ora non
nell’ordine delle cose, a meno di un incidente di percorso – come una grave
crisi politica in Italia che conducesse a una crisi di fiducia sul debito
sovrano italiano - che portasse dritti al secondo esito (ma nelle peggiori
condizioni). Alla prima prospettiva si contrappongono gli interessi del capitalismo tedesco interessato, peraltro, alla
costituzione di un esercito industriale di riserva nella periferia europea.
Al momento quella che Varoufakis definisce la kossovizzazione della periferia
europea appare dunque come la prospettiva più probabile. La periferia
diventerebbe un semi-protettorato europeo, con redditi nazionali crollati di
decine di punti percentuali, terra di malavitosi e di emigrazione. Solo una
forte ribellione sociale guidata con autorevolezza può evitare tale esito.
Note
1) Goodhart,
uno dei più eminenti economisti monetari contemporanei, spiega come il divorzio
fra autorità monetaria e autorità politica nell’UME sia senza precedenti. Per
coloro che si rifanno alla teoria monetaria convenzionale (metallisti) non v’è
tuttavia problema in quanto compito della moneta è solo di facilitare gli
scambi e quindi la sottrazione dell’autorità monetaria ai governi, sempre
pronti a un uso distorto della politica monetaria, è un fatto positivo . Per
coloro che si rifanno invece alla teoria cartalista della moneta – fra questi
Keynes – la moneta è creatura dello
Stato. La scelta di un’unificazione monetaria non può che essere il
risultato di una coeva scelta politica in cui una politica fiscale accentrata
si assume il compito, in coordinamento con la politica monetaria, dello
sviluppo equilibrato dell’intera area. Quel divorzio è dunque innaturale): se
la moneta è creatura dello Stato, una moneta senza Stato è un aborto.
2) Più
precisamente, la creazione dell’UME ha
determinato un humus favorevole all’espansione del credito nella periferia col
sostegno di capitali dall’Europa centrale. Lo sviluppo di bolle edilizie in
paesi come la Spagna e l’Irlanda ha determinato un sostenuto andamento della domanda interna e massicce importazioni
dai paesi centrali che hanno smaltito il loro surplus. La storia italiana è
un po’ diversa, visto che il nostro paese non ha visto né marcate bolle
edilizie, né un’espansione della domanda interna comparabile a quella spagnola
e neppure un indebitamento estero delle dimensioni di quello spagnolo. Il
nostro paese ha visto una strisciante
perdita di competitività dovuta al leggero differenziale inflattivo con la
Germania.
3) La scuola
austriaca è una versione “ultra-liberista”
della teoria neoclassica talvolta, erratamente, considerata “eterodossa” forse
perché guardata con sospetto dagli
economisti convenzionali, anche dagli stessi monetaristi di Chicago che
sono assai più pragmatici in linea con la tradizione americana. Essi hanno,
infatti, guardato con sospetto all’UME – per esempio Friedman e Feldstein – a
differenza, di Huerta de Soto.
4) L’inflazione è vista da de Soto come una maniera con cui il governo svaluta il valore
reale del proprio debito, dunque una truffa antidemocratica a sfavore dei
cittadini. Similarmente la svalutazione è una maniera mascherata di diminuire i
salari reali. Quello che de Soto e i
reazionari come lui desiderano è che sia l’asprezza della disoccupazione a
tenere disciplinati i percettori di salario. In una visione pienamente
Keynesiana l’inflazione è, invece, il frutto di ciò che un grande economista
americano, Albert Hirschman, definì
“tiro alla fune”: l’inflazione è la
manifestazione di un conflitto sulla distribuzione del reddito. Un governo
non reazionario può cercare di accomodare la battaglia distributiva
assecondando un processo inflazionistico – una volta vincono i lavoratori e i
salari aumentano, la volta successiva vincono le imprese e sono i prezzi ad
aumentare. Lo stesso Stato interviene con la spesa pubblica come moderatore
della disputa, mentre la svalutazione ha il compito di riaggiustare gli
equilibri esterni minati dal differenziale inflazionistico con i concorrenti.
Fin tanto che il gioco si mantiene entro limiti accettabili – adottando per
esempio forme di politica dei redditi - un pragmatismo di questo tipo è
migliore allo strumento disciplinatore principe del conflitto distributivo che
è la disoccupazione (si legga al tal proposito il mai abbastanza citato saggio
di Kalecki (1943).
5) Ma non vi sono neanche per il piano della DGB. Basti guardare all’opinione della Cancelliera tedesca sui piani di investimento quale riportato da Carlo Bastasin su Il Sole (9/7/13): “Anche la Germania risente del rallentamento nell'area dell'euro. Ma il paese ha già intrapreso una nuova strategia di sviluppo: attraverso la digitalizzazione delle produzioni industriali, i tedeschi sono convinti di potersi assicurare altri dieci anni di vantaggio sui concorrenti. Così all'uscita dall'ultimo Consiglio europeo, la Cancelliera Merkel derideva i suoi colleghi: «Pensate che qualcuno di loro è convinto di crescere aumentando gli investimenti pubblici»”. L’industria tedesca sa ben badare ai propri progetti di investimento, afferma in sostanza la Cancelliera.
5) Ma non vi sono neanche per il piano della DGB. Basti guardare all’opinione della Cancelliera tedesca sui piani di investimento quale riportato da Carlo Bastasin su Il Sole (9/7/13): “Anche la Germania risente del rallentamento nell'area dell'euro. Ma il paese ha già intrapreso una nuova strategia di sviluppo: attraverso la digitalizzazione delle produzioni industriali, i tedeschi sono convinti di potersi assicurare altri dieci anni di vantaggio sui concorrenti. Così all'uscita dall'ultimo Consiglio europeo, la Cancelliera Merkel derideva i suoi colleghi: «Pensate che qualcuno di loro è convinto di crescere aumentando gli investimenti pubblici»”. L’industria tedesca sa ben badare ai propri progetti di investimento, afferma in sostanza la Cancelliera.
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