Terzo e ultimo post dal libro di Piero Paglini "al Cuore della Terra e Ritorno".
Qui la prima parte del libro: Al Cuore della Terra e Ritorno Parte I
1. L’elezione di Barack Obama alla
presidenza degli Stati Uniti ha espresso la
consapevolezza che la strategia
unilaterale di imposizione con la forza delle armi di un
nuovo sistema mondiale gerarchico di
stati a guida Usa, doveva essere ripensata.
Sono convinto che chi non capisce
questo non ha nessuna possibilità di capire cosa è
successo nel Novecento e cosa
succederà nei primi decenni di questo secolo. In
particolare non capirà che la
politica di Obama è l’adattamento della strategia statunitense con
Con Bush gli Usa hanno cercato di
cogliere la finestra aperta dopo la caduta del
Muro di Berlino per sviluppare una
strategia che, affiancata alla globalizzazione,
cercava di porre rimedio alla
pluridecennale perdita di capacità di far sistema, cioè di
coordinare il ciclo mondiale di
accumulazione. Era una strategia top-down, studiata a
partire da assunti imperiali di
potenza, basata sulla convinzione che le aree conquistate
si sarebbero presto normalizzate, un
po’ come l’Italia e la Germania dopo il 1945.
Ma così non è stato.
L’Afghanistan e l’Iraq sono lungi
dall’essere normalizzati. In aggiunta si sta
denormalizzando il Pakistan, punto
nevralgico dei rapporti tra Cina, India e Stati Uniti.
La Russia, dopo la cleptocrazia compradora (1) di Boris Yeltsin, che così tanto aveva
fatto sperare all’Occidente, si è
ripresa con decisione sovrana sotto il pugno di ferro e
determinato di Vladimir Putin, che
solo la mancanza di baffoni lo distingue da Stalin
negli esercizi iconografici dei media
occidentali.
La Cina possiede quasi tutti i mezzi
di pagamento del mondo e con le sue esorbitanti
riserve valutarie, assieme alla sua
forza atomica di dissuasione e alla sua potenza
demografica, provoca non pochi mal di
testa agli Usa e, di conseguenza, politiche
incoerenti (2).
L’India, col suo miliardo e cento
milioni di abitanti, è il terzo colosso che insiste in
questo quadro prima asiatico e poi
mondiale. Cerca di fare i propri interessi tenendo i
piedi in varie staffe: stringe
rapporti di cooperazione nucleare con gli Stati Uniti, ma
prima ne va a parlare col suo
gigantesco vicino cinese, il quale per ora ha risposto: “fate
pure, staremo a vedere”.
E anche nel giardino di casa
americano le cose non sono molto favorevoli. Il Brasile
sta diventando un nuovo competitor,
mentre i Paesi dell’Alternativa Bolivariana per le
Americhe (Alba), Venezuela, Bolivia,
Ecuador in sintonia con l’indomita Cuba, giocano
a scacchi col prepotente vicino
americano sfidandolo anche nelle relazioni
internazionali. Dopo tentativi di
rivoluzione colorata in Venezuela e Bolivia, la nuova
Amministrazione democratica si è così
rivolta ai vecchi metodi, ed ecco il
golpe in Honduras da parte dei gorilla
fascistoidi usciti dalla famigerata Scuola delle Americhe,
ammaestrati e sostenuti
dall’entourage politico e affaristico di Hillary Clinton e consorte.
Un golpe che la sinistra italiana ha
vergognosamente passato sotto silenzio quando non
è stato addirittura visto, da certa
stampa progressista, con simpatia.
2. E’ evidente quindi agli strateghi
statunitensi che la finestra aperta con la caduta del
Muro di Berlino si sta progressivamente
chiudendo - e che non fosse amplissima lo
sapevano sin da subito. La politica
di Obama ha cercato di perdere meno terreno
possibile, di accorciare le linee e
di aggiustare il tiro (ad esempio facendo più pressione
contro la Russia, come era stato
promesso in campagna elettorale) e variare la tattica.
Questa pausa di riorganizzazione gli
è valsa un vergognoso premio Nobel per la Pace e
gridolini da groupies da parte della
sinistra italiana. E ha fatto riemergere le diverse linee
strategiche che si confrontano negli
Usa. Il dott. Henry Kissinger, ad esempio, ha
sempre sostenuto che il tentativo di
contenimento militare della Cina propugnato da
altri conservatori come Robert Kaplan
era controproducente, consigliando invece un
suo contenimento economico:
Il ruolo emergente della Cina è
spesso paragonato a quello della Germania imperiale all’inizio
del XX secolo, derivando da ciò che
un confronto strategico sia inevitabile e che gli Stati Uniti
farebbero meglio a prepararsi ad
esso. Questo assunto è pericoloso ed errato. La Cina sceglie i
propri obiettivi dopo uno studio
molto accurato, con grande pazienza e aggiungendo
sfumatura a sfumatura. Solo molto
raramente la Cina si avventura realmente in uno scontro del
tipo “chi vince piglia tutto”. E’
quindi imprudente sostituire nella nostra visione la Cina
all’Unione Sovietica e applicare ad
essa la politica di contenimento militare della Guerra
Fredda. […] L’equazione strategica in
Asia è totalmente differente. La politica Usa in Asia non
si deve autoipnotizzare per via delle
spese militari cinesi. L’Unione Sovietica era erede di una
tradizione imperialista che, tra
Pietro il Grande e la fine della II Guerra Mondiale, ha proiettato
la Russia dalla regione di Mosca al
centro dell’Europa. Lo stato cinese esiste nelle sue attuali
dimensioni sostanzialmente da 2.000
anni. L’impero russo era governato tramite la forza;
l’impero cinese attraverso
l’uniformità culturale sullo sfondo di una forza notevole. […] La
sfida portata dalla Cina nel futuro a
medio termine sarà molto probabilmente economica e
politica, non militare. […]
Paradossalmente la miglior strategia per raggiungere obiettivi
antiegemonici [in Asia, NdA] è quella
di mantenere relazioni strette con tutti i principali Paesi
dell’Asia, inclusa la Cina. In questo
senso, il risorgere dell’Asia sarà un test per la competitività
Usa nel mondo che sta ora emergendo,
specialmente nei paesi asiatici. Lo scopo storico
americano di opporsi ad ogni egemonia
in Asia – presentato come uno scopo congiunto con la
Cina nel Comunicato di Shanghai del 1972 – rimane valido. Deve essere tuttavia raggiunto
innanzitutto con misure politiche ed
economiche - ancorché spalleggiate dalla forza
statunitense. In un confronto con la Cina,
in grande maggioranza le nazioni faranno di tutto
per non dover scegliere con chi
stare. Parimenti, saranno maggiormente incentivate dalla
partecipazione in un sistema
multilaterale assieme all’America che non dall’adozione di un
nazionalismo asiatico escludente. Non
vogliono essere viste come pezzi di un piano americano.
L’India, ad esempio, percepisce una
comunanza di interessi persino maggiore con gli Stati Uniti
per quanto riguarda l’opposizione al
radicalismo islamico, alcuni aspetti della proliferazione
nucleare e l’integrità della
Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico. Ma non vede alcuna
necessità di dare a questi comuni
obiettivi un carattere ideologico o anticinese. Non trova per
nulla incoerente aumentare
drasticamente le proprie relazioni con gli Stati Uniti e proclamare
una partnership strategica con la Cina
(Kissinger, 2005)
Abbiamo riportato lungamente questa
posizione perché da sola contiene molti
elementi di quella che potrebbe
essere in sostanza la politica di Barack Obama. Una
politica pragmatica. Come da
tradizione americana. Non a caso abbiamo visto il
presidente repubblicano Bush seguire
le indicazioni strategiche di un consigliere per la
sicurezza democratico come
Brzezinski, mentre il presidente democratico Obama sembra
seguire almeno in parte le
indicazioni strategiche, dettate anche da corposi interessi, di
un ex Segretario di Stato
repubblicano, come Kissinger. Ciò al netto degli scontri interni.
3. L’era Obama segnala un trapasso di
fase della crisi conclamatasi nel 1971.
In molti si sono ingegnati a cercare
di fornire spiegazioni ideologiche e agiografiche
di questo fatto. Sostanzialmente ne
usciva il quadro di un presidente Usa alle prese con
una situazione intollerabile per il
debito pubblico, per il deficit commerciale, per
l’overdose da consumi basati sul
debito e per uno Stato impegnato in guerre molto
rischiose militarmente, politicamente
e finanziariamente.
Yes, he can. Se questo era il lascito
delle due tenures di Bush, Obama è stato visto come
colui che poteva raddrizzare la
situazione con una politica riformista orientata all’equità
e alla solidarietà sociale e al
multilateralismo. Un nuovo Kennedy, per giunta nero e in
più grande ammiratore di Gandhi. Can
he do it?
Tanto per iniziare, Nixon era
quacchero e i quaccheri sono obiettori integrali di
coscienza. Eppure è passato alla
storia come “Nixon boia” e questo paradosso è
diventato un test per i sistemi di Intelligenza Artificiale. E Clinton? Clinton fu persino
renitente alla leva e scappò in
Canada per non essere mandato a combattere la guerra
del Vietnam alla quale si opponeva
attivamente. E poi? Poi divenne comandante in
capo delle forze armate Usa, altro
evento che fu salutato come strabiliante dalla nostra
sinistra. Peccato che il suo
Segretario di Stato ebbe a dire una volta in televisione che
mezzo milione di bambini iracheni
morti erano un “prezzo giusto” (“The price is worth
it”). Strabiliante, non c’è che dire. E il
suo clan è probabilmente a capo
dell’opposizione più attiva dell’hard
power contro il soft power di Obama.
E infine c’è sempre il modo di
richiamare alla memoria del Presidente chi l’ha
piazzato alla Casa Bianca e per conto
di chi - e non è certo il Popolo (sembra che il
proiettile calibro 22 nel polmone sinistro di Reagan fosse uno di questi promemoria).
Insomma, l’elezione di Obama al di là
di una certa importanza ideologica e culturale
interna agli Usa, deve essere letta
all’interno di un piano di riordino strategico che
comunque non deve farci dimenticare
che i presidenti democratici sono stati tanto
guerrafondai quanto quelli
repubblicani, se non di più. Il democratico Wilson portò il
suo Paese nella Prima Guerra
Mondiale, il democratico Roosevelt nella Seconda. Fu il
democratico Truman a far sganciare le
bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Fu il
democratico Kennedy a far attaccare
Cuba alla Baia dei Porci (per poi svignarsela
quando si mise male), fu sempre lui a
iniziare l’intervento americano in Vietnam e fu il
suo successore, il democratico
Johnson, a inventarsi il cosiddetto “incidente del Golfo
del Tonchino” e a trasformare quell’intervento nella spaventosa guerra che sappiamo (3).
del Tonchino” e a trasformare quell’intervento nella spaventosa guerra che sappiamo (3).
4. Gli Stati Uniti hanno la democrazia che hanno, tutta basata su bandwagon miliardari
dove le lobby potenti contano
infinitamente di più di tutti i cittadini messi insieme, così
come contano di più gli strateghi
imperiali. Eppure sono convinto che a parte subjecti il
popolo statunitense abbia cercato
realmente un cambiamento. Tuttavia ciò non può
giustificare il giubilo scomposto dei
laeti di sinistra e di destra della nostra provincia.
La crisi libica è diventata una
cartina di tornasole dell’interpretazione della strategia
obamiana che sto qui avanzando. Al
suo inizio si è assistito a un protagonismo
forsennato della Francia mentre la
Gran Bretagna scalpitava ma sembrava aspettare
ordini precisi da oltre Atlantico. E’
sembrato che non si fosse in presenza di un
intervento coordinato da una potenza
dominante, ma interventi personalizzati. Il
contendere “Nato sì, Nato no” apriva
interrogativi: era un semplice gioco delle parti o
era la codifica della competizione
interimperialistica all’interno stesso
Non abbiamo informazioni sufficienti
per rispondere. L’unica certezza era la “tabella di
marcia” imperiale spifferata dal
generale Clark e un ragionamento logico che impediva
di credere che gli Stati Uniti
fossero realmente ai margini.
Nella crisi libica l’Italia si
rivelava essere il ventre molle del quadro europeo, mentre
la Francia si stava rivelando essere
un prepotente scudiero che avanzava pretese ed
onori oltre che un ruolo di
protagonista in Africa. Una degenerazione dell’originario
gaullismo. La Russia e la Cina sono
rimaste spiazzate. Il risultato è stato un Paese
massacrato e in preda al caos, come
già lo sono l’Afghanistan e l’Iraq e come nei piani
dovrebbe diventarlo la Siria, la cui
sanguinosa crisi fa parte
delle promesse pressioni verso la
Russia..
Al posto dell’inglobamento imperiale
organico il caos è diventato il “piano B”. Non più il
governo dei Paesi target, ma il
controllo di fortini sparsi in punti strategici: le capitali,
gli snodi di comunicazione, i
giacimenti di risorse naturali. Tutto attorno caos, dovuto
a mancanza di risorse e a strategie
contraddittorie e in disaccordo non solo tra le
potenze aggredenti, ma anche al loro
interno. Caos come effetto del procedimento
pragmatico di prova ed errore che ha
preso il posto della grand strategy di inizio
millennio, che per altro aveva
sortito effetti simili.
Interpretando invece il caos come una
sconfitta, qualcuno pensa che una nuova era si
aprirà per forza di cose per via
della crisi economica e delle sue conseguenze sui rapporti
di forza globali. E’ una versione che
ha il solito difetto di traguardare tutto col solo
metro dell’economia. In definitiva,
gli Stati Uniti, non ce la farebbero più a mantenere
questo ritmo di consumo e questo
ritmo imperialistico perché la crisi, prima finanziaria
e poi economica non glielo
permetterebbe più.
Eppure dovrebbe essere evidente che
il problema non sta qui. O per lo meno non è
solo qui. Da più di quattro decadi
gli Stati Uniti sono debitori del mondo in senso
assoluto. E lo sono non per sbaglio o
perché incoscienti iperconsumatori: non si può
applicare a uno Stato la logica che
si applica a una famiglia (anche se questa è la
retorica dei nostri media, dei nostri
intellettuali e dei nostri specialisti). Men che meno
la si può applicare a una
superpotenza. Come vedremo con precisione nella Sezione
VIII, essere straordinari debitori e
consumatori è stata una scelta strategica che ha
permesso agli Usa di mantenere le
redini del sistema dall’inizio della crisi a oggi. Per
intenderci, quindi, il problema non è
tanto che la guerra in Iraq sia una three trillion o
una six trillion dollar war; il
problema è semmai se quei trilioni di dollari sono “spesi
bene”, cioè se permettono agli Usa di
rimanere il protagonista geo-politico-finanziario
del mondo a dispetto dei finanziatori
in ultima istanza della spesa stessa. Il metro da
usare è una sorta di return on
investment strategico.
Ad ogni modo questa crisi non lascerà
gli assetti mondiali come sono adesso.
Insomma, come cantava Bob Dylan,
«qualcosa sta accadendo qui. E lei non sa che cosa.
Non è vero Mr. Jones?».
Invece è di vitale importanza
esplorare cosa c’è di nuovo nella “nuova era”
capitalistica nel suo complesso,
cercando il più possibile di essere fedeli al metodo che
Marx ci ha insegnato, ma senza
incantarci come un disco rotto su vecchie musiche.
“Crisi” e “crolli”, “collassi” ed “estinzioni” (del capitalismo)
1. L’ex sinistra ripete, con sempre
più stanca convinzione, le frottole di un “New Deal”
mondiale sotto la costellazione di
Barack Obama. A complemento dell’attesa di questa
sorta di revival degli anni Sessanta
molti settori radicali rielaborano invece un certo
numero di varianti della “teoria del
crollo”. Si possono infatti leggere per ogni dove
(anche da parte di una certa destra
intellettuale o antisistema) titoli come “L’Apocalisse
del capitalismo”, “Il crollo del
capitalismo”, “La catastrofe si avvicina” o
“L’estinzione del capitalismo”.
Joseph Ratzinger, più profetico come
si confaceva a un futuro papa, già nel 1985
aveva scritto un saggio che
prevedeva, oltre al crollo del comunismo, anche quello del
capitalismo liberista ed è necessario
notare che moltissimi di questi “crollismi” si
riferiscono di fatto a questo “tipo”
di capitalismo, che viene quasi sempre identificato
col capitalismo tout-court, senza
curarsi del fatto che il liberismo abbia occupato nella
storia del capitalismo finora
conosciuto lassi di tempo
relativamente brevi e mai in forma pura.
In generale, tutte queste posizioni
orbitano attorno all’etica e all’economia, ponendo
l’accento ora sull’uno ora sull’altro
di questi due punti focali, ribadendo con ciò la
difficoltà di evitare la Scilla e la
Cariddi del marxismo:
l’utopismo umanistico e l’economicismo.
La sinistra anticapitalistica e
radicale spesso sovrappone i due fuochi dell’ellisse
nascondendo i due difetti dietro
un’analisi che pretende di essere socio-politica. In altre
parole si va in cerca di un
aggiornamento dell’utopismo scientifico di Marx, senza però
essere in grado di dedurlo tramite
una reale astrazione determinata, bensì attraverso
l’aggiornamento falsamente concreto,
ma in realtà formale,
di alcune categorie marxiane.
E’ un approccio che a nostro avviso
non solo non permette nessun passo avanti ma,
al contrario, sguarnisce ogni difesa
sensata e ben fondata poiché, come vedremo,
rischia spesso di adottare
inconsapevolmente “il senso comune dell’avversario all’attacco”, per
usare un’antica ma felice espressione
di Rossana Rossanda, con conseguenze teoriche e
politiche non secondarie.
E’ allora importante affrontare
subito nel suo complesso questo argomento,
nei suoi punti teorici e politici più
significativi.
2. Anche Engels era convinto che il
capitalismo fosse agli sgoccioli, e la sua sintesi
teorica del marxismo che unificava le
leggi della sfera naturale e quelle (dialettiche)
della sfera sociale, descriveva per
l’appunto un percorso, ineluttabile nella sua materiale
naturalità, verso il crollo e il
superamento del capitalismo. A parte specifiche
considerazioni di carattere
filosofico, Engels era infatti a quei tempi testimone di una
crisi, la Lunga Depressione che
sembrava confermare palmarmente ipotesi come quella
della caduta tendenziale del saggio
di profitto.
Tuttavia la Lunga Depressione non era
destinata a essere il momento finale del
capitalismo, che non crollò nemmeno
per il sottoconsumo, come presumeva Rosa
Luxemburg, ma sfociò nel rilancio
finanziario e imperialistico della belle époque, che a
sua volta non era la “fase suprema
del capitalismo” come affermava Lenin.
Paradossalmente, Lenin riuscì a fare
la rivoluzione proprio perché mise tra parentesi
- con una sorta di “epoché”
fenomenologico-rivoluzionaria - il supposto decorso fatale
del capitalismo, facendo entrare di
prepotenza nel quadro la soggettività del Partito,
rappresentante di quel “per sé”,
quella coscienza proveniente dall’esterno del
proletariato che secondo l’ortodossia
marxista allora vigente avrebbe invece dovuto
dischiudersi come una crisalide
grazie a processi storici visti come processi naturali.
3. Per certi versi l’ipotesi della caduta - per via rivoluzionaria - di un capitalismo ormai
gravato dal peso delle sue
contraddizioni interne, concludeva il ciclo filosofico e
politico soggettivo di Engels,
iniziato con le rivoluzioni del 1848.
Se ciò imprimeva al successivo
marxismo storico il marchio dell’epica e della tragedia
filosofiche e politiche, ai nostri
giorni, sotto il segno della farsa, canuti intellettuali e
politici, assieme ai loro nuovi
adepti, si immaginano la chiusura del cerchio pseudorivoluzionario
iniziato col 1968, grazie a supposte
“incurabili” crepe del sistema,
conclamatesi in tutto il mondo
quarant’anni dopo.
Non che la situazione non sia grave
(lo è e ancor più lo sarà, per miliardi di persone)
ma, come avrebbe detto Ennio Flaiano,
non è seria. Ovvero,
non è affrontata in modo serio.
La poca serietà si vede innanzitutto
nel fenomeno paradossale che abbiamo
sottolineato in apertura: mentre soli
pochi anni fa il cosiddetto movimento “no-global”
con centinaia e centinaia di migliaia
di partecipanti contestava nelle piazze
l’imperialismo statunitense
all’attacco col suo codazzo dei G8, oggi c’è una incapacità
nolontà di distinguere teoricamente e
politicamente tra rivolte popolari e scontri
pianificati e fagocitati da agenzie
di intelligence sostenute da organizzazioni “umanitarie”,
e di posizionarli adeguatamente tra
le scosse che caratterizzano le spinte telluriche che
stanno ridefinendo gli assetti
planetari. La “primavera araba”
lo ha testimoniato alla perfezione.
Di fronte all’incrinarsi del sistema
a dominanza-egemonia Usa e al delinearsi
all’orizzonte, in modo sempre più
preciso, di suoi competitor, il “movimento” o tace o
viene preso da sacri furori
“internazionalisti”. L’imperialismo Usa viene al più descritto
semplicemente come una forma di
unilateralismo, dimenticandosi silenziosamente che
fosse indicato da Che Guevara come il
nemico giurato (con ciò svuotando
un’esperienza storica e sancendo
definitivamente la riduzione dell’eroe argentino a
icona di consumo) e non ci si perita
di rinfacciare ai competitor di essere, per l’appunto,
dei competitor e quindi un po’ troppo
propensi a contrapporre la propria potenza a
4. Evidentemente all’ombra della Nato
non vivevano solo gli interessi economici,
finanziari, politici e ideologici dei
ceti dominanti. Prendevano corpo anche le pulsioni
comunisteggianti, socialisteggianti e
moralistiche di chi, in buona fede oppure
opportunisticamente, pretendeva di
volere dar voce ai diritti dei dominati e su
quell’ombra imperiale disegnava forma
e contenuti della propria teoria e della propria
prassi politica, virandoli in
negativo attraverso collaudati, ancorché poco efficaci,
schemi interpretativi. Ma ora il
ritiro della marea montante statunitense, pur lento, sta
iniziando a far emergere i profili di
nuove terre, con grande sgomento dei cartografi di
sinistra. Di fronte a domini della
conoscenza con su scritto “Hic sunt leones”, si volta la
testa dall’altra parte per non
perdere rassicuranti certezze teoriche, esistenziali e
identitarie, oppure - ciò che è lo
stesso - si applicano storici modelli astratti (o più che
altro la loro vulgata) a
determinazioni concrete nuove e ancora da esplorare, col rischio
di esportare teoria non meno che
democrazia (2).
5. Ammesso che la maggioranza di chi
scendeva in piazza contro la globalizzazione e le
guerre di Bush fosse mossa da una
hegeliana coscienza infelice e non dal “demone
meridiano”, la malinconia, a causa
della quale, come diceva Alberto Magno, quelli che
ne sono preda multa phantasmata
inveniunt, irritano ancor di più le carenze, la pigrizia
mentale e l’inerzia di chi per ruolo,
posizione e capacità aveva la possibilità di elaborare
nuove idee e nuove prospettive e non
lo ha fatto consegnandosi
alle narrazioni dell’avversario
all’attacco.
Oh sicuro, sarebbe stato più comodo
che un impero acefalo si fosse diffuso nel
mondo. Non sarebbero apparse nuove
terre: ma sarebbero rimaste tutte livellate,
sommerse dalla marea. Non sarebbero
nati nuovi problemi. Drammatici problemi.
Perché invece dobbiamo riconoscere e
affrontare questi problemi? Un dovere
morale? Un dovere intellettuale? Un
dovere sociale? Non lo sappiamo.
Le scarpe della teoria sono rotte,
eppur bisogna andare.
Forse per non sentirsi dire: “Perché
qualcosa sta accadendo qui. E lei non sa che cosa.”
Note
1) La parola "compradora" può essere adottata per indicare la
circostanza in cui la classe dirigente e i rappresentanti politici
tendono a usare la loro posizione per consentire a forze straniere uno
sfruttamento della nazione sotto il profilo politico, economico, culturale (nota ubu ).
2) L’enorme eco pubblica che negli Usa hanno avuto gli incidenti in Tibet, è in parte ascrivibile
al buon lavoro di agenzie di “mestatori non-violenti” (cfr.
Nota 45) ma in parte anche alla
ricettività dell’ordinary people che percepisce un incombente
pericolo giallo responsabile, tra le altre
cose, della perdita di milioni di posti di lavoro (senza
nemmeno pensare che lo stesso
fenomeno, in proporzioni più drammatiche, sta avvenendo in
Cina). Il governo Usa è stretto
allora tra due fuochi: il desiderio di non contrariare i
capitalisti, che non vogliono bastoni tra le
ruote nei loro affari con la Cina, e quello di non inimicarsi
gli elettori e di ricordare alla Cina
che è sempre un paese sotto osservazione.
3)
In questo caso Johnson rappresentava probabilmente l’ala hard
e Kennedy quella soft dello
schieramento democratico.
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