Ieri (25 novembre ), alla Casa del Jazz,
ero sicuro che avrei visto
la mia gente.
la mia gente.
Tutti quelli indignati,
consapevoli, incazzati e forse anche un po' impauriti per il declino degli
equilibri mondiali che continuano ad essere scossi dall'interno per una
politica comune inesistente, per degli interessi economici che fagocitano il
valore umano, per dei recinti mentali che nessuno osa più nemmeno afferrare,
figuriamoci scavalcare...
e per te...
e che ha dimenticato anche di saper ricordare.
Quando abbiamo deciso di
fermarci alla prima strofa? quando abbiamo smesso di cercare le possibili
risposte nascoste sotto la superficie? è stato quando abbiamo iniziato a
scattare selfie alla nostra coscienza o quando abbiamo preferito non sporcarci
più le mani, sapendo di ingoiare un piatto insapore e velenoso, più che
indigesto? E non buttiamola sulla mancanza di tempo, che a volte la velocità è
l’unico antidoto per la pigrizia mentale.
By the
relief office, I’d seen my people/
As they
stood there hungry, I stood there asking/
Is this
land made for you and me?
As I went
walking, I saw a sign there/
And on the
sign there, It said, “No trepassing”/
But on the
other side, It didn’t say nothing/
That side
was made for you and me
Musicalmente poi, il tributo
a Woody Guthrie è il più intenso e connesso al germinale "Suite for Tina
Modotti", senza nulla togliere a "X (Suite for Malcolm)" e
"Monk'n'Roll", non solo per via del viaggio come elemento centrale e
della dimensione più folk dei due protagonisti omaggiati, ma proprio per la
texture strumentale, per l'assenza o quasi di inserti elettronici, per il forte
legame tra i musicisti sul palco, che non sembrano suonare la suite pensando
all'interplay o al call and response, ma che più “semplicemente” restano naturalmente
agganciati uno all'altro nonostante il precario, traballante e fischiante
equilibrio di tutte le relazioni, tenuti insieme più dal vento evocato dal
tributo che dalla materia dei loro strumenti, là dove ottone, terra e legno,
pelle, aria e corde si sporcano e si intrecciano
tra gli sbuffi di carbone bruciato.
tra gli sbuffi di carbone bruciato.
Superfluo parlare di
questi ragazzi, formazione oramai ben nota e riconosciuta, con Danilo e Zeno che compongono una delle ritmiche più trasversalmente solide, creative e
cariche di groove da far paura alla maggior parte dei trii rock o jazz che si
vogliano far chiamare, con la voce eclettica di Giovanni che è un prolungamento
viscerale che si fa strumento e che rumoreggia e spinge, soffia, stacca e
cattura l'animo (e che a mio parere non è stato ancora correttamente
posizionato nell'albero genealogico dei trombettisti, in generale). Poi
Francesco, lui che è il più punkettone dei jazzisti nostrani, che ha presentato
l'omaggio alle “Protest Songs” dicendo che fa del "Combat Jazz" (e
qualcuno ha riso delicatamente, ma io mi sarei buttato giù dalla gradinata,
avrei alzato il pugno o mi sarei tolto il cappello se solo l'avessi avuto...),
è la chiave di volta di questa nuova struttura musicale che dovrebbe essere
presa a riferimento
nel panorama artistico contemporaneo.
nel panorama artistico contemporaneo.
Quando è partita la dolce
"Okemah", città natale del leggendario folksinger, Bearzatti era
praticamente piegato su se stesso, immagine che ha visualizzato in me la
ricerca di un suo primario suono interiore (che non prescinde dai primi dischi
di standard con Giovanni Mazzarino, anzi), poi ha iniziato a liberarsi,
gettando sulle tavole del palco prima il portafoglio poi, con "Long Train
Running", lo smartphone e quando è arrivata "Hobo Rag" ha gettato
dal finestrino pure gli ultimi foglietti, scontrini e biglietti della Metro che
lo trattenevano a terra, rimanendo solo con la sua "arma", pronto a
partire per un altro viaggio emozionale,
tutto suo, e pure nostro...
tutto suo, e pure nostro...
Il resto è stato un
fiorire di sensazioni, tra una "N.Y." come finestra aperta sulle vie
del Nuovo Mondo urbano (stranamente molto meno tossica e frenetica della
“America!” di Tina Modotti), ed una "Witch Hunt" scattata come gelida
istantanea per niente sbiadita della Guerra Fredda, invase dalla reprise rassicurante
di Okemah per arrivare a "One for Sacco and Vanzetti", risposta
poetica e sanguigna al Maccartismo ed all'unica cover dell'album, quella
"This Land Is Your Land" composta da Guthrie sulla base del gospel
"When the World's on Fire" che è diventata il vero inno dell'America
più vera, lontana dalle retoriche di "God Bless America". La chiusura
è spettata a "Mandi Friul", la traccia che apriva la suite per Tina
Modotti
e non so perché non ho pianto, eppure tutto tornava.
e non so perché non ho pianto, eppure tutto tornava.
Eravamo appena un'ottantina
di persone ieri a Roma, all'apertura del tour del Tinissima Quartet per
"This Machine Kills Fascists".
Mi dispiace per tutti
quelli che non hanno potuto sentire di essere ancora vivi e peccato che c'erano
quelle cazzo di sedie in mezzo perché sennò avrei violato il confine del palco
con la ragazza che mi era seduta accanto, avrei ballato il rag con Federico,
Pasquale, Dario, Giampietro o Enzo, mi sarei attaccato alla maniglia del primo
treno sbuffante sogni ed avrei teso la mano a Francesco, Giovanni, Danilo e
Zeno, dividendo con loro quelle quattro cose che ci saremmo trovati in tasca e
scaldando il vagone bruciando almeno per l’ultima volta i nostri fibrosi cuori.
“L’America, dunque” –
scrive Alessandro Portelli, a proposito dei versi eliminati dallo stesso autore
nella prima versione pubblicata di
"This Land Is Your Land" – “era stata fatta per quelli come me
e come te, per la gente comune, per i disoccupati in fila per una minestra; ma
qualcosa ci impedisce di goderla, e si chiama proprietà privata”
(A. Portelli,
Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere 2000 ed., Roma 1990, pag.
181).
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