uno dei due è l'altro

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domenica 3 gennaio 2016

La conquista dei tasti neri

di Angelo Foletto



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Paura e angoscia un tempo non abitavano dove c’era musica. Per secoli il potere della musica era la sua funzione: fascinazione, intrattenimento, ritualità, araldo di potenza e di ricchezza, di munificenza e di elevazione con o senza scopo di spirituale lucro. Per secoli il suono-parola era il luogo e viceversa. E luogo non coincideva solo con la coordinata architettonica o geografica: era una precisazione sociale che, a sua volta, si irrigidiva in codici comunicativi e protocolli culturali. Ciò che cantava nei risonanti cori e sotto le alte cupole presbiteriali non era congruo a corte. 

Viceversa i gergalismi linguistici profani erano intonati secondo un alfabeto musicale che poco aveva in comune con le pagine in latino e con le aristocratiche espressioni poetico-sonore cresciute negli ambienti riservati; di condiviso avevano solo (e talvolta) il secolarismo linguistico. 

Musica ‘da chiesa’ e ‘da camera’, prima di diventare sinonimi colti di scelte stilistiche fatte con metodo e arte dai compositori a cavallo tra Seicento e Settecento erano delimitazioni pratiche (organo e umori severi da una parte; clavicembalo e mondanità danzanti dall’altra), quasi traslitterando strumentalmente ciò che mottetto e madrigale avevano rappresentato – in relazione al testo, alla lingua e alla destinazione sociale
 e ‘rappresentativa’ specifica – un secolo prima.

Alla lunga stagione di creatività seriale, che nei secoli ‘bui’ ha perfino confiscato alla storia il nome dei suoi autori, è seguita quella meno generica ma non ancora consapevolmente soggettiva dell’epoca barocca. Dal Seicento in poi la tecnica compositiva ha progressivamente rimpiazzato la funzione, sostituendosi al ruolo assolutistico della parola che determinava contenuto e confezione delle musiche, ma affidandosi ancora molto all’improvvisazione e all’estro di chi la musica l’eseguiva (spesso l’autore), non poteva non essere ancora influenzato dai luoghi e dall’uditorio
 e dal galateo sociale con cui si confrontava. 

Il progressivo affinamento delle qualità tecniche e sintattiche accelerò la definizione delle ‘forme’. Da allora i termini di sonata, concerto, sinfonia, aria, cantata, opera, preludio, ouverture, suite e via dicendo non solo intestarono le pagine musicali omonime ma configurarono prototipi compositivi che a loro volta si rifornivano di vocali e grammatiche polivalenti ma meno imprecisi: temi, tonalità, tempi e indicazioni agogiche o dinamiche 
(di velocità e dell’intensità) oltre che espressive. 

La musica fu scritta (e stampata) con dettagli sempre maggiori, anche perché si andava precisando e organizzando social(ogica)mente la dicotomia tra l’autore e l’interprete, tra il musicista che sapeva e ‘capiva’, lo strumentista che non sapeva ma era in grado di suonarla e il musicofilo o il pubblico generico che dovevano ascoltare e provare piacere (o riprovazione).


La musica divenne moderna, ovvero un prodotto di consumo: affidato a professionisti e destinato a dilettanti, o meglio a chi si poteva permettere il prezzo del biglietto o investiva in una retta scolastica per educare i figli più o meno dotati. Quindi la sua forma si plasmò al gusto comune: quello del pubblico che non capiva gli ultimi Quartetti di Beethoven, disdegnava i tortuosi itinerari armonici di Schubert e quelli mentalmente contorti 
o allusivamente letterati di Schumann

Gli spettatori in compenso accorrevano in massa alle esibizioni di virtuosi del pianoforte o del violino, strimpellavano sui pianoforti di casa le riduzioni facilitate dei grandi classici (con l’editoria su misura, fu l’unica industria musicale che per un secolo prosperò: poi l’era della riproducibilità acustica la mise al tappeto). 
La generazione dei “filistei”, avventori attivi e passivi della musica che non fa pensare (secondo la biblica e drastica definizione di Schumann) riportò la creatività
allo stato precedente: funzione e consolazione.

Primi-metà dell’Ottocento, più o meno. Fu allora che alcuni artisti-compositori, fradici di idealità romantiche, si staccarono progressivamente dal mondo, cercando nel racconto della loro individualità una chiave per capire se stessi e rivelare a pochi un’evoluzione del pensiero che sembrava sempre meno attinente all’industrializzazione dell’era moderna. E manifestarono i primi, già laceranti, sintomi della paura. 

Paura di vivere, anzitutto, e di tutto ciò che non si poteva spiegare. La gravità di certe inchiostrature ‘in minore’ di Mozart (la folgorante tragicità dell’Adagio della Fantasia K 397 profetizzava sia il ‘patetico’ schiller-beethoveniano sia lo spleen nero di Chopin; ma già nell’Andante della sinfonia d’esordio scritta nel 1764, a otto anni, passa per un attimo un’ombra luttuosa che sgomenta) o i monumentali e ossessivi richiami sinfonici al Destino di Beethoven dimostrarono in che modo la musica 
può rappresentare l’angoscia dell’uomo.



Anche nell’ambito teatrale, la fisicità drammatica – quasi una corporeità intrinseca – di alcuni elementi del dizionario compositivo che lo Sturm und Drang musicale aveva sollecitato a espressività meno consolatorie e galanti, viene ricomposto con finalità plastiche se non icastiche. Dal re minore che traduce l’“ingluviamento” (Da Ponte) infernale di Don Giovanni discendono tutti i tremoli e i rintocchi di timpani, le acciaccature e le dissonanze che hanno evocato le terrificanti apparizioni d’oltretomba di buona parte della letteratura operistica ottocentesca, sull’esempio della demoniaca Wolfsschlucht 
di Carl Maria von Weber

Negli autori più fini gli stessi segnali sonori furono poi traslati, a rendere fisica e immediata la malvagità, la negatività dell’animo dei personaggi: non più pittura di situazioni e quinta teatrale, ma evocazioni di sentimenti di apprensione e di paura per la vicinanza del male, per l’irruzione della diversità, per la contiguità con l’inconoscibile che confinava con la forma più letterata e prefreudiana dell’inconscio.

 Il destino di Carmen (scena-terzetto delle carte, atto terzo) piuttosto che la missione venefica di Jago se ne servirono con efficacia. E con i radicalismi armonici, gli ispessimenti timbrici e le violenze foniche messe in atto da Richard Strauss in Salomé e Elektra (non a caso scritte negli anni di stesura della Sesta Sinfonia di Mahler: altro epigono estremizzato dell’innovativa teatralità armonica e orchestrale wagneriana), i comportamenti deviati e l’anima spaventosamente malata delle protagoniste diventarono un tutt’uno musicale: i pensieri si fecero suono, non meno dei gesti. Il realismo timbrico graffiò la superficie dell’orchestra ottocentesca che pareva già spinta ai limiti dalle corpulenze sinfoniche di Čaikovskij, Brahms e Bruckner, creando situazioni acustiche che non si limitavano a mimare il terrore, l’attesa angosciosa, la spaventosa contorsione psicologica dei personaggi ma che contagiavano chi ascoltava, suscitando le stesse sensazioni di freddo e di incombente tragedia.



Secoli di addomesticamento dell’orecchio, di familiarità con le regole applicate dell’armonia e di confidenza con le forme classiche, e la constatazione dell’anima sostanzialmente narrativa (seppure non più soltanto esornativa e consolatoria) della musica, non si cancellano facilmente. Gli sforzi di sconvolgere il galateo compositivo insinuando anche in musica il senso di precarietà e di timor panico che l’uomo di fine Ottocento avvertiva sempre più incombente e che le arti iniziavano a riecheggiare, 
rimasero per un po’ vanificati. 

La considerazione ordinaria rubricò le irregolarità espressive e sintattiche come eccentricità (non come scelte consapevoli): provocazioni giovanilistiche o manifestazioni di inattualità, espressioni della progressiva spaccatura tra gusto (e atteggiamento d’ascolto) comune e le manifestazioni artistiche e di pensiero che, assoggettata una definizione d’antica radice militaresca e politica, iniziarono a esibire 
il titolo d’avanguardia.

La rapidità con cui la nuova borghesia di estrazione industriale, commerciale o terziaristica aveva aderito al richiamo dell’arte non prevedeva anche la formazione intellettuale idonea a capirla, per cui proprio allo sfilare del secolo il pianeta culturale si separò: da una parte i “filistei” romantici, cioè i quieti alleati (e consumatori) della tradizione che ora sono una maggioranza, e non sempre silenziosa nei suoi dissensi, dall’altra i reparti avanzati dell’arte arruolati in plurime etichette e movimenti. 

Seppure con qualche veniale asincronia cronologica (il simbolismo di Debussy procede da quello di Baudelaire, il costruttivismo di Stravinskij esplode quando i Fauves avevano ceduto al passo cubista di Braque e Picasso) che non riguarda l’espressionismo dei viennesi e il futurismo italiano (ma questo con esiti e personalità meno tecnicamente importanti), la musica tenne il passo sperimentale delle altre, perdendo però la sfida col suo tempo sul piano della riconoscibilità linguistica e del ‘consenso’: per cui oggi Jackson Pollock impazza ma John Cage e Pierre Boulez sparigliano, Paul Klee seduce e Anton Webern indispone.
Forse perché l’udito delicato degli avventori di musica senza pretese fu ferito (e, spesso, lo è ancora) non tanto nelle orecchie ma dal radicalismo, spesso ideologizzato, che la tematica moderna più tragica, quella della paura, 
della ribellione dell’Ur-Schrei, ispirò agli autori.



Di fatto, con tutta la considerazione per quanto fu realizzato dalle altre arti o profetizzato dal protoespressionistico Medioevo scarnificato e tormentato di El Greco o Mathias Grünewald, fu la musica – e i suoni, intesi come creazione razionale, attuale e talvolta mimetica rispetto ai rumori dell’età moderna – a incarnare con lancinante immediatezza la capacità artistica di esprimere e oggettivare l’angoscia della realtà. I colori violenti, la costruzione a blocchi, per intuizioni e provocazioni accostate apparentemente senza logica narrativa, e le linee esasperate di Arnold Schönberg, Alban Berg e del primo Paul Hindemith, e poi via via di altri compositori concretizzarono il linguaggio espressionista.

 Il ‘suono-colore’ innovativo dava palpabile evidenza allo smascheramento della realtà e alla rivelazione dei suoi spettrali orrori. Non soltanto gli incubi notturni di Pierrot Lunaire di Schönberg (1912, su testi di un poeta simbolista belga) considerata il manifesto della musica espressionista nella celebrazione di un eroe-antieroe che si racconta per immagini (e suoni, e voci) grottesche e allucinate, ma visioni mostruose squisitamente diurne e quotidiane come le giornate da Gabinetto del dottor Caligari del soldato Wozzeck (creato da Georg Büchner e tonificato espressionisticamente da Berg): espressione del senso di disagio e denuncia nei confronti della vita urbana, della disumana e straniante modernità che celebrava.

In questo senso anche se i musicisti del tutto espressionisti furono pochi – stagionalmente: in un determinato periodo di creatività e con un ristretto numero di composizioni – l’aura espressionista intrecciata alla musica coinvolse numerosi autori. Sconfinò nella musica di consumo o ‘leggera’ come quella dei cabaret, ebbe nel teatro musicale il luogo di naturale convergenza: ad esempio nel monodramma Erwartung di Schönberg che adottava come libretto il testo irto di simbolismi e introspettività psicanalitica di Marie Pappenheim, giovane poetessa e medico brevemente ospite 
dello studio di Freud.



 Monologo interiore con un solo personaggio (femminile) in scena, come in molti racconti di Arthur Schnitzler, nonazione teatrale come dice il titolo Erwartung/Attesa. Il lavoro più emblematico quasi paradigmatico dell’espressionismo musicale – così sintomatico e intimidatorio, anche nel dettaglio d’autore sulle indicazioni sceniche e interpretative, da essere portato in scena solo negli Anni Trenta, quindici anni dopo la creazione – faceva teatro con la delirante interiorità psichica della donna, calata in un clima iperespressivo tormentato e fragile allo stesso tempo, appassionato e disperato.

La musica conseguiva o precedeva il testo e l’insolita sceneggiatura? Precedeva se si tenevano in conto le audacie sperimentate nelle anteriori partiture quartettistiche di Schönberg ma conseguiva se si riscontrava quanto la sua scelta atonale e la drastica dissociazione dai suoni della tradizione interagissero plasticamente con l’irrazionalità e la tensione visionaria dei gesti e delle parole frantumate e atterrite della protagonista. E l’utilizzazione della voce, ultima parvenza di romanticismo, accentuava l’atmosfera angosciata e angosciante rinunciando a parte di se stessa, esplorando la zona d’ombra tra canto e parola, tra sussurro e grido, riverberandosi nel tessuto dell’orchestra. La sintomatologia tecnico-musicale diventava diagnosi, agghiacciante diagramma emotivo e sonoro del dramma.

Per la storia della tecnica compositiva e della percezione acustica, l’atonalità o pantonalità – cioè il superamento anche dei parametri musicali usati in forma radicale e sovversiva da Strauss o Mahler – certificò la soppressione delle gerarchie tra i gradi della scala. Le note conquistarono una sorta d’indipendenza assoluta e i suoni si liberarono (si “emanciparono”, si disse) dalla preordinazione sancita dalle regole dell’armonia. 

La rivoluzione sul pentagramma parve duplicare la tragica fase storica contemporanea: gli statuti sociali e culturali postrivoluzionari già scossi intrinsecamente (come la tonalità straussiana e mahleriana) fiutavano l’apocalisse incipiente della Grande Guerra. La ‘liberazione’ tonale porterà alla fondazione del “sistema di composizione dodecafonico”, dove ogni nota era di volta in volta il fulcro compositivo della pagina musicale. 



Ma “la conquista dei tasti neri” (come sintetizzò Webern), nella sua utopia, non contraddisse la sostanza dell’innovatrice scelta originaria che metteva al centro dell’ispirazione il tormentoso scavo interiore d’autore e l’investigazione di un linguaggio che nascesse da necessità interiori: senza transazioni
col precedente ordine costituito. 

Il radicale soggettivismo – nella musica espressionista l’io prevale nettamente sulla realtà esterna – fu una reazione alla solitudine, all’angoscia e alla crisi create da un mondo sempre più allineato. Per dirla con Theodor W. Adorno, Schönberg e i suoi amici-allievi-sodali viennesi rappresentarono la rivolta, la protesta, la rivoluzione senza compromessi. E l’angoscia rivelata – e che l’ascolto consapevole interpreta come disagio perQuirino Principe l’anima più che per l’orecchio – fu un percorso obbligato verso l’autenticità d’arte. Ricusando la tonalità si rese più tassativa la strada della soggettività, intesa come strumento imprescindibile per tentare di sottrarre una parte della musica al destino di essere associata alla tragica (oggi sempre più capiente) 
lista dei prodotti di massa.

 La rivoluzione, seppure disorganica e a volte repressa nei capitoli della manualistica specializzata, valicò per vitalità intrinseca i propri limiti biografici e storici. E un’eco dell’Urlo smaterializzato di Edvard Munch si riascolta nella musica di Jakob Lenz di Wolfgang Rihm (1979, ancora da Büchner), che inizia col “grido disumano tenuto a lungo” del poeta-protagonista.




Parafrasando l’avvio: anche se non ne esauriscono l’ambito espressivo paura e angoscia continuano a dialogare con-e-nella musica d’arte (o forte, come suggerisce di chiamarla Quirino Principe, alludendo alla forza del pensiero e del processo costruttivo che la genera; all’impegno che dispone per interpreti, esecutori e ascoltatori). Per secoli il potere della musica era la sua funzione, fascinazione e intrattenimento. Oggi la sua ragion d’essere è l’anima dell’uomo-autore che non può non continuare a registrare come centrale, per sé e per l’idea moderna di arte, l’angoscia: coscienza sociale e sensazione “dispotica e atroce” che come in Baudelaire 
“infilza sul mio cranio il suo nero vessillo”.


***da idem

immagini di 




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