uno dei due è l'altro

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lunedì 18 gennaio 2016

Perché le sinistre hanno fatto proprie le idee del neoliberalismo?


Presento due significativi capitoli tratti dal libro  "Il Colpo di Stato di Banche e Governi" (2013) del sociologo Luciano Gallino, da poco scomparso.



Balthus, Three sisters (1954)
***



Dal Capitolo nono
La crisi come modalità di governo delle persone


 La crisi come forma di governo globale 

Le tecniche di governo della condotta di masse di persone hanno avuto un campo di applicazione, straordinario per le dimensioni nonché per la dismisura della posta in gioco, nelle vicende della crisi economica e finanziaria apertasi nel 2007 e tuttora in corso, con effetti devastanti nella Ue. In Quest'ultima sezione proverò a riassumere i tratti principali della crisi vista come un gigantesco e (almeno finora) riuscito esperimento di controllo sociale globale per mezzo del mercato; il quale esperimento, peraltro, potrebbe essere incappato in serie difficoltà.

In particolare mi soffermerò (I) sui modi in cui la crisi economica viene raccontata o narrata, ovvero sui modi in cui i media, i governi, i think tanks che forniscono loro gli argomenti, insieme con un buon numero di accademici, hanno presentato e presentano la crisi stessa; (II) sui processi di colpevolizzazione delle vittime, coloro che in realtà hanno «sopportato i maggiori costi sociali e umani della crisi senza averne alcuna responsabilità›› ; infine (III) su alcune interpretazioni della crisi che individuano in essa, nella sua globalità, una forma riuscita di governo delle popolazioni quantomeno dei Paesi sviluppati, oppure un'espressione del suo fallimento.

(I) I media e gli altri attori sopra richiamati hanno in generale rappresentato la crisi, soprattutto nel periodo 2008-2009, come un disastro naturale, massiccio e inaspettato  (1)L'espressione «tsunami finanziario ›› ha fatto il giro del mondo. Economisti e commentatori economici si sono spesso riferiti a essa come a «un terremoto». Ampio corso hanno avuto i paragoni con catastrofiche eruzioni vulcaniche: in una trasmissione della Bbc del 2008 la crisi fu paragonata al Krakatoa, il vulcano dell'isola di Sumatra che esplose nel 1883 uccidendo tremila persone. Usato di frequente fu anche il termine “ciclone”.

Nella prospettiva delle tecnologie di governo sin qui tratteggiata, la rappresentazione della crisi quale disastro naturale del tutto inatteso ha avuto la funzione preminente di sospingere al fondo della scena pubblica, se non anzi di rimuovere totalmente, la necessità urgente di procedere a una spiegazione strutturale delle sue cause. Al posto di questa l’attenzione, nel mezzo della scena, è stata diretta sui “banchieri avidi” ovvero sui truffatori alla Madoff; che di certo sono esistiti ed esistono, ma hanno avuto in realtà un ruolo marginale rispetto alla struttura globale del sistema finanziario. In primissimo piano è stato sospinto, specialmente negli Usa e in Gran Bretagna, il ruolo del governo come salvatore. Il che equivale a configurare il ruolo dei cittadini come «soggetti finanziari traumatizzati››, i quali sono stati salvati dal saggio e rapido intervento del governo, giusto nel momento in cui ne avevano disperatamente bisogno (2)

I governi hanno speso impegnato trilioni per impedire il fallimento delle maggiori banche: ma lo hanno fatto, spiegano, per il solo bene dei cittadini. Come ebbe a dire Gordon Brown, primo ministro britannico, mentre a inizio 2008 la crisi del sistema bancario esplodeva nel suo Paese e il governo correva a tamponarla iniettando in esso centinaia di miliardi di sterline: «Voglio che sappiate che stiamo facendo questo per voi›› (3).

(II) Dalla primavera 2012 in avanti la narrazione ufficiale e mediatica della crisi è stata rivolta a un diverso scopo di governo: la diffusione tra la popolazione di un senso di colpa.

Nella Ue, non meno che negli Usa, i bilanci pubblici erano stati semisvuotati nel biennio precedente dalle spese e dagli impegni di spesa assunti per fornire un sostegno considerato indispensabile agli enti finanziari. Ricordiamo che il totale di tali spese e impegni ha toccato i 4,6 trilioni di euro, secondo una dichiarazione resa nell'autunno 2011 del presidente della Ce, Barroso.

A causa di tali spese il debito pubblico totale della Ue è salito in media di venti punti in meno di tre anni, dal 60 a oltre l'80 per cento. A onta dell’enorme sostegno ricevuto, numerose banche europee, a partire da buona parte di quelle tedesche, continuarono ad essere (e molte sono tuttora) in condizioni traballanti.

Pertanto le banche convinsero i governi di due cose: che avevano bisogno di altri capitali, e che nel caso in cui qualche Paese non potesse rimborsare i titoli sovrani alla scadenza alcune di esse, tra le maggiori, potevano crollare. D'altra parte i bilanci pubblici erano ormai esausti; lo stesso intervento della Bce a favore delle banche non poteva durare all'infinito (in verità è durato a livello di trilioni di euro fino alla primavera 2012, ma nessuno allora poteva saperlo). Perciò era necessario, conclusero i governi assillati dalla situazione critica delle banche, rimpolpare i bilanci pubblici aumentando le entrate fiscali e tagliando la maggior fonte di spesa, che è la spesa sociale: pensioni, sanità, istruzione, sostegni al reddito per i lavoratori disoccupati, poveri o sottopagati.

Sarebbe stato realmente arduo convincere della validità di un simile schema interpretativo i cittadini, nel caso si fosse raccontata loro la verità. Perciò i governi hanno provveduto a costruire una seconda verità, volta a diffondere nella popolazione, al fine di controllarne l’atteggiamento, la convinzione soggettiva di aver partecipato a causarla (4). Abbiamo individuato senza alcun ragionevole dubbio, suona la seconda verità di fonte governativa, i responsabili della crisi: siete voi stessi. Ecco il messaggio trasmesso dai governi ai cittadini. Per oltre una generazione, hanno dichiarato i primi, siete vissuti al di sopra dei vostri mezzi. Riferendosi a un sistema sanitario che assicura cure adeguate a ciascuno, pressoché gratis; pensioni pubbliche, a loro dire, eccessivamente generose; l'istruzione gratuita o erogata a fronte di tasse d'iscrizione minime. 

Sono, tutte queste, forme di spesa pubblica in cui i governi del passato hanno esagerato, ci viene comunicato, e di cui tutti voi avete troppo a lungo goduto, rendendovi corresponsabili dello sperpero. Da parte nostra siamo stati eletti o nominati, hanno asserito i governanti, precisamente per porre rimedio agli esiti dei vostri sperperi.





Codeste tecnologie della governamentalità, miranti a creare nel maggior numero di persone un profondo senso di colpa facendo loro credere di avere davvero contribuito, loro e soprattutto i loro genitori, a prosciugare il bilancio dello Stato, hanno avuto un rimarchevole successo. Non è qui il luogo per inoltrarsi in un'argomentazione tecnica intesa a dimostrare che l'asserto di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi; di avere contratto un debito di decine di migliaia di euro pro capite che ricadrà sul capo di figli e nipoti; di dover ridurre drasticamente il perimetro dello stato sociale perché questo si fondava su una smodata e irresponsabile generosità (a fini elettorali o altro), non hanno in realtà il minimo fondamento. 

In massima parte la spesa previdenziale e sanitaria è finanziata direttamente dai cittadini e dalle imprese coni loro contributi, non dallo Stato. Basterà qui notare che la riuscita creazione di un diffuso senso di colpa tra la popolazione perché avrebbe smodatamente approfittato del bilancio pubblico, è probabilmente una delle ragioni che spiegano come mai, a onta dei durissimi programmi di austerità imposti dai governi Ue, gli elettori continuino a votare in massa per gli stessi partiti che hanno coniato e praticato queste tecnologie del sé; e altresì come mai le persone che protestano occasionalmente nelle piazze europee contro detti programmi si contino, e solo occasionalmente, a decine di migliaia, anziché decine di milioni.


(III) E se, dopotutto, la crisi in corso non fosse essa stessa che una suprema forma di governamentalità, diretta a sussumere nell'ambito dell'economia e della sua inesorabile razionalità strumentale l'intera popolazione del mondo occidentale?

«La questione chiave - è stato scritto a inizio 2012 da due economisti non allineati, a cinque anni ormai dall'inizio della crisi - non è se le modalità di governo (governance) dovrebbero rispondere meglio alla crisi finanziaria, ma come dobbiamo attrezzarci per comprendere che la crisi è una modalità di governo ›› (5).

Una volta accertato che la finalità ultima della dottrina neoliberale è la costruzione e la diffusione dell'Homo aeconomicus in tutto il mondo, si può supporre che essa si trovi dinanzi a un problema di tempi e di risorse. Il suo successo nel perseguire la suddetta finalità mediante esseri economici che costruiscono un mondo a loro somiglianza, il quale circolarmente riproduce senza posa esemplari di Homo aeconomicus, è indubitabile. Ma per conseguire tale successo c'è voluto piú di mezzo secolo: e risorse immani al fine di insediare milioni di tali esemplari nei governi, negli enti locali, nei partiti, nei media, nelle università. A loro volta questi soggetti hanno avuto bisogno di tempo per porre mano all'elaborazione e all'imposizione di politiche neoliberali in ogni sfera dell'esistenza.

Una crisi drammatica e realissima come quella esplosa nel 2007 rappresenta quindi un mezzo assai efficace al fine di ridurre drasticamente i mezzi e le risorse necessarie per attuare dovunque le forme di governamentalità che il progetto neoliberale esige, sostituendole con l'autodisciplina introiettata dall'Homo aeconomicus. Messi di fronte ai rischi disvelati di colpo dalla «finanza traumatica›› (6) - rischi gravissimi quali un crollo generale dell'economia, grandi banche che falliscono ingoiando i risparmi di masse di lavoratori, Stati che non riescono più a pagare gli stipendi - governi e cittadini hanno accettato in massa, dando luogo a un tasso minimo di proteste, di comportarsi nel pubblico e nel privato come esigono le politiche di austerità. I governi hanno stanziato trilioni di dollari e di euro allo scopo di salvare gli enti finanziari. 

Da parte loro i cittadini hanno creduto alla narrazione per cui la crisi nasce dal debito pubblico degli Stati e non dal debito privato delle banche e più in generale dalle sregolatezze della finanza, e alla necessità delle politiche di austerità che il suo risanamento esige. Ciò che più colpisce (o dovrebbe colpire) è che lo svuotamento del processo democratico che esse hanno comportato e comportano non sia stato, in pratica, nemmeno oggetto di discussione. Bisogna quindi ammettere che, laddove si accolga il quadro dell'epistemologia popperiana, l’ipotesi che la crisi in corso sia l'opera somma della governamentalità neoliberale, che essa stessa sia l'ultima eccelsa forma di governamentalità, non è certo agevole da confutare.

Non possiamo però esimerci dal notare che tra le interpretazioni dei rapporti stretti che intercorrono tra crisi e governamentalità neoliberale, ha avuto un certo spazio pure l’ipotesi contraria: che la crisi, cioè, non sia un'affermazione globale di codesta forma di governamentalità, bensì un segno di come sia proprio questa a essere entrata in crisi, almeno nelle forme attuali.

Come sappiamo la crisi finanziaria è stata innescata, dopo un lungo periodo di stagnazione dell'economia mondiale, da due fattori complementari: un eccesso di credito concesso dalle banche e trasferito fuori bilancio, nella finanza ombra, per mezzo della sua trasformazione in titoli commerciali, e un eccesso di debito contratto dalle famiglie. L'uno e l'altro sono l'ésito di un programma politico inteso a diffondere l’individualismo patrimoniale, centrato sulla proprietà della casa. Presentata come un motore dell'economia da attivare per uscire da un lungo periodo di stagnazione, essa sarebbe al tempo stesso, da un lato - in conformità a quest'altra ipotesi - una tecnica di governo della condotta delle persone, e dall'altro una nuova modalità di accumulazione del capitale mediante la produzione diretta di denaro, davanti al venire meno dell'accumulazione mediante la produzione di merci. 

I gravi limiti dell’una e dell'altra sono emersi all'improvviso nel 2007-2008. Di qui l’interpretazione della crisi come una crisi repentina delle modalità di governo del comportamento per mezzo della manipolazione del credito, del debito e del denaro (7).
I procedimenti volti a costruire l'Homo ceconomicus, insieme con quelli da esso seguiti per costruire il mondo contemporaneo, sono stati oggetto negli ultimi lustri di innumerevoli rilievi critici. Nondimeno tale modello umano e il mondo che ha costruito, e dal quale è senza posa riprodotto, sono tuttora il modello e il mondo dominanti. Benché sembri che la cultura e la politica non se ne rendano affatto conto, il loro superamento è uno dei maggiori- compiti che la crisi erige di fronte a esse.




Dal Capitolo decimo
Rigettare le teorie economiche neoliberali


Perché le sinistre hanno fatto proprie le idee del neoliberalismo? 

Dal 1980 in poi i partiti socialisti in Francia e in Spagna, i socialdemocratici in Germania, i laburisti nel Regno Unito, i postcomunisti in Italia fino al Pd, hanno fatto proprie le idee di fondo del neoliberalismo e le hanno messe in pratica appena sono giunti al governo, in specie sotto forma di liberalizzazione incontrollata della finanza. Tuttavia la conversione delle sinistre alle dottrine neoliberali è avvenuta non solo quando erano al governo, ma pure quando erano all'opposizione.

In effetti, diversi Paesi Ue hanno conosciuto governi di destra, incorporanti alle radici le dottrine neoliberali, come in Italia i governi Berlusconi tra il 2001 e il 2011, e il governo Monti del 2011-12, i quali hanno avuto di fronte delle opposizioni di centrosinistra le quali si proponevano di discutere, e sotto il profilo epistemico erano capaci di discutere, unicamente del valore da attribuire alle variabili di un'equazione complessa che i governi stessi prospettavano per rimediare alla crisi, quale che fosse il suo campo di applicazione. Nel quadro di una conformità integrale alle dottrine neoliberali. 

Tale situazione si è generalizzata, poiché in tutti i Paesi le opposizioni, salvo poche formazioni dal peso pubblico ed elettorale esiguo, hanno perso da decenni la capacità di confutare o rifiutare l’equazione per proporne un'altra strutturalmente  diversa. Pertanto l'espressione “pensiero unico” sembra piuttosto flebile per designare l’omogeinizzazione della capacità di giudizio indotta da una dottrina intrinsecamente totalitaria, qual è l'onnì-neoliberalismo, che si osserva nella gran maggioranza dei componenti dell'arco politico.

Come è stato possibile?





Un fattore poco studiato di sviluppo del totalitarismo neoliberale, che aiuta a spiegare come mai persino partiti che si definiscono progressisti l'hanno condiviso, proviene da circostanze al tempo stesso biografiche e politiche: alla sua stessa elaborazione hanno infatti contribuito in misura ragguardevole anche le sinistre europee. Tale predicato viene qui circoscritto ai socialisti francesi e italiani, ai partiti successori del Pci, ai laburisti britannici, ai socialdemocratici tedeschi, nonché alle analoghe formazioni che con nomi simili esistono in altri Paesi Ue. 

Si è appunto notato che la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata vigorosamente avviata in Europa nei primi anni Ottanta, in sincronia e in certi casi con anticipo sugli Usa, da governanti e politici socialisti. Tuttavia la presa del neoliberalismo sulle sinistre, se non anzi la resa di queste a quello, ha operato su terreni molto più vasti. Uno di essi è stata la “terza via” inaugurata dal Labour britannico e diffusasi in Germania, Olanda, PortogalloSvezia, Danimarca, Italia, Belgio

L'idea guida della terza via era che non hanno più senso le contrapposizioni fra destra e sinistra; Stato e mercato; capitale e lavoro. Un suo corollario era un orientamento decisamente positivo nei confronti delle corporations e della finanza, e una riformulazione degli interessi collettivi in termini individualistici (8).

La terza via è stata sicuramente una delle multiformi divise - o maschere - indossate dal neoliberalismo. Ma alle origini di quest'ultimo, in campo economico, hanno contribuito diverse linee di comunicazione, funzionanti tra l'Ovest capitalista e l'Est socialista fin dagli anni Sessanta. Le ha ricostruite su solide basi storiografiche una sociologa americana, Johanna Bockman. Uno stimolo importante per la nascita del neoliberalismo fu la “teoria della convergenza”, da taluni solo prevista e da altri auspicata, fra il capitalismo occidentale e il socialismo dell'Europa orientale. Tale teoria, oggetto di numerose pubblicazioni in quel decennio, sosteneva che sebbene si fossero formate su basi politiche, economiche e sociali del tutto differenti, le società capitaliste e quelle socialiste andavano ormai convergendo verso un medesimo tipo di società, la società industriale. 

Entro le società riconducibili a questa nuova specie sociale, quale che fosse la loro storia pregressa, stavano sorgendo esigenze del tutto analoghe allo scopo di pianificare la produzione e i consumi; regolare lo sviluppo; gestire la distribuzione e l’investimento del surplus; sostenere la trasformazione dello stile di vita (9).

Persino uno degli economisti eterodossi dell'epoca, John K. Galbraith, ebbe a scrivere che era allora in atto fra il sistema sovietico e quello occidentale “un'apprezzabile convergenza verso la stessa forma di pianificazione” (10).

Al contributo dell'idea di convergenza alla nascita del neoliberalismo sotto insegne socialiste, la Bockman ha aggiunto altri fattori. Uno fu il fiume di discussioni che si svolsero di qua e di là dell'Atlantico, nel quale si incrociavano la critica allo stalinismo e le riforme economiche nell'Europa orientale con la fine del fordismo in Occidente e il sorgere di nuovi movimenti sociali. Vi sono tre ragioni, secondo l'autrice, per attribuire almeno in parte origini socialiste al neoliberalismo e alle sue teorie economiche. 

La prima è l'idea che all'economia giova comunque la presenza di un piano nel ruolo di “dittatore benevolo”. Il piano centralizzato e burocratico dell' Urss era fallito; tuttavia un piano distribuito e libero di autoregolarsi di momento in momento, poiché dispone di un'informazione completa in merito a costi e preferenze, poteva sostituirlo con superiore efficacia. Questo “pianificatore sociale” è ovviamente il mercato. 

In secondo luogo diversi modelli degli economisti socialisti apparivano rilevanti per l'economia neoclassica, ivi compresi “modelli astratti di pianificazione centrale e decentrata, esperimenti sul terreno di socialismo di mercato, modelli ed esperimenti di autogestione operaia, cooperative e altro” .




 Una terza ragione che lascia intravedere idee e modelli socialisti nell'ascesa del neoliberalismo è il presupposto, condiviso da numerosi economisti neoclassici, che il socialismo avrebbe fornito le condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei mercati (11).

Un ulteriore fattore di ibridazione tra economia socialista ed economia neoclassica fu l'incontro in spazi per cosí dire extraterritoriali fra politici e studiosi dei due campi che avevano interesse a comprendere quali fossero le basi sociali, economiche, culturali dell'altra parte; un interesse coltivato in certi casi per dimostrare con fondati argomenti la superiorità del proprio
campo su quello avverso, ma sovente anche al fine di trarre dal confronto indicazioni idonee a migliorare il funzionamento di quello di appartenenza (12).

In tali spazi, come documenta la Bockman, esercitò un’influenza internazionale un'istituzione italiana, il Centro studi e ricerche su problemi economico-sociali (Ceses). Fondato a Milano da Confindustria nel 1964 con un ragguardevole stanziamento, cui si aggiunsero i contributi di diverse fondazioni americane di destra, il Ceses fu attivo fino al 1988. La maggior parte dei suoi componenti e istruttori provenivano dal Pci, che avevano lasciato dopo i fatti di Ungheria del 1956, ma senza per questo ripudiarne la dottrina ispiratrice. I fondatori li scelsero per la loro conoscenza del mondo socialista e per le relazioni che avevano con studiosi dell'Est. 

Il Ceses organizzò numerosi incontri che videro la partecipazione sia di noti economisti neoliberali (Friedman, Von Hayek) sia di economisti dell'Est europeo. I capi di Confindustria scorgevano in
questi ultimi degli efficaci testimoni dei fallimenti del comunismo, poiché le loro richieste di riforme, che spesso erano riforme di mercato, fornivano la convalida della superiorità dell'economia capitalista di mercato. Furono stupiti di scoprire in primo luogo che gli studiosi provenienti da Paesi allora comunisti come Bulgaria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, PoloniaRomania cercavano soprattutto di convincere i colleghi, più che degli errori economici del socialismo reale, dell'esistenza di una “terza via” tra le scienze economiche liberali e quelle marxiste. E in secondo luogo erano delusi dal vedere che gli accademici occidentali prendevano sul serio le loro teorie sulla pianificazione (13).

Quale reazione, la Confindustria e le fondazioni americane di destra smisero già nel 1970 di finanziare il Ceses. Pur con tali pecche (viste da destra), il Ceses produsse e diffuse in tutta Europa, a ovest come a est, le nuove conoscenze di cui gli intellettuali di destra avevano bisogno al fine di riorientare e realizzare i loro progetti egemonici. Su un punto economisti dell' Ovest ed economisti dell’Est concordavano: per funzionare, l'economia moderna doveva essere costruita come una gigantesca macchina calcolatrice. L’economia pianificata dal centro si era dimostrata inefficiente come calcolatrice: lo sostenevano anche gli economisti sovietici. 

Tuttavia se la capacità di calcolo fosse stata capillarmente estesa a tutta l'economia, ovvero a tutti gli operatori di essa, dal consumatore alle imprese e viceversa, essa si sarebbe configurata come una calcolatrice distribuita di insuperabile efficienza e dalle prestazioni infallibili. Si trattava, in sostanza, di sostituire un modello di calcolatrice, rivelatosi imperfetto, con un nuovo modello di superiori prestazioni: il mercato del capitale libero da ogni interferenza. In quelle idee, alcuni hanno visto la realizzazione nell’età del postfordismo di un nuovo “comunismo del capitale”, al quale aveva aperto la via la dissoluzione dello Stato (14)

Una simile visione coglie bene il senso immane di quanto è accaduto. Dinanzi alla potenza della finanza che la dottrina neoliberale ha aiutato a liberare da ogni catena, lo Stato, come portatore di un'idea di società che determina in modo libero e consapevole in quale direzione vuole procedere, si è virtualmente dissolto. E mai la concezione di un'economia senza regole, o meglio dotata unicamente di regole che le assicurano la licenza di decidere da sola i destini della popolazione del mondo, per cui tutti sono politicamente impotenti tranne una ristrettissima élite al vertice, è stata impersonata meglio di quanto non stia facendo l’attuale sistema finanziario.





 Alla fine della strada percorsa dal neoliberalismo, l'esito non poteva essere diverso: una generazione intera di quadri e dirigenti delle sinistre europee (nell'accezione ristretta indicata sopra), di intellettuali loro vicini, e di elettori, che ha profondamente interiorizzato tale concezione.





*** dipinti di Balthus

NOTE

1) I. Brassett e C. Clarke, Performing the Sub-prirne Crisis. Trauma, Fear, and Sharne as    Governamentalities of the Financial Subject, Garnet Wp n. 77, University of Warwick, Warwick     2010, p. 13.
2) Ibid., p. 27.
3) Ihid., p. 22.
4)Vedi N. J. Kiersey, Everyday Neoliberalism and the Subjectivity of Crisis. Post-Political   Control in an Era of Financial Turrnoil, in «Journal of Critical Globalisation Studies», III   (2011), n. 4, specialmente pp. 26 sgg.
5) Brassett e N. Vaughan-Williams, Crisis is Governance. Sub-prime, the Traurnatic Event, and Bare Life, in «Global Society», XXVI (gennaio 2012), n. 1, p. 42.
6) Espressione coniata da Brassett e Vaughan-Williams, ibid., p. 29.
7) Su questa linea cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté, Editions Amsterdam Paris 2011.
8) S. Lee Mudge, What is Neo-liberalism?, in «Socio-Economic Review», VI (2008), n. 4, pp. 721-22.
9) L. Gallino, Società industriale, in Dizionario di Sociologia cit., pp. 609 sgg.
10) K. Galbraith, Il nuovo Stato industriale [1967], Einaudi, Torino 1968, p. 95.
11) J. Bockman, Markets in the Name oƒ Socialism. The Left-Wing Origins of Neo-liberalism,     University Press, Stanford 201 1, pp. 7 sgg. Il passo citato è a p. 9.
12) Id., The Origins of Neoliberalism between Soviet Socialism and Westem Capitalism. «A Galaxy without Borders», in «Theory and Society», XXXIV (2007), n.36,pp.345-71.
13) Ibid., p. 358.
14) Ibid., p. 365.


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